Le poesie di Sylvia Plath. La bambina che voleva essere Dio. Questo scrisse di sé. E non si preoccupò mai di nasconderlo. Tutto il resto è silenzio. La poesia. L’insoddisfazione. L’amore. Ted Hughes. La disperazione. Il suicidio. Un atto di coraggio. O di egoismo. Ma non sono la persona più adatta per giudicare. Una morte che la rese un’eroina, lei che voleva essere solo immortale. E così si è trovata rinchiusa in un guscio di ipocrisie, mascherata da ribelle.
Ma Sylvia era qualcosa di più, nel suo sogno di arte e vita. Nella sua fame di libertà. Il suo peggior nemico fu se stessa, l’immensa sproporzione tra quel che voleva diventare con tutte le sue forze e quello che era costretta ad essere ad ogni alba. La rabbia immane per l’anonimato. Per i racconti rifiutati dal New Yorker. O l’invidia per i successi del marito. Il sogno di squarciare il cielo. Ci riuscì soltanto morendo.
E da lei ho avuto una delle più belle definizioni della scrittura
La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo.