La fatal Sarajevo ?

Sarajevo fu il pretesto, non la causa della Grande Guerra: in ogni caso, il partito “espansionista” austriaco avrebbe cercato un pretesto per esautorare Francesco Ferdinando e portare a compimento l’iniziativa di un attacco preventivo alla Serbia.

Occasioni anche prima del fatale attentato: paradossalmente, fu proprio l’Italia a tenere a bada i bollenti spiriti di Vienna.

Dopo la paventata ipotesi di unione fra Serbia e Montenegro dei loro rispettivi leader politici e l’incontro fra il ministro degli esterie italiano San Giuliano e quello austroungarico Berchtold di Abbazia dell’aprile del 1914, l’ambasciatore tedesco a Roma Hans von Flotow chiese in giugno al marchese cosa l’Italia avrebbe chiesto in cambio del controllo austriaco della costa montenegrina. San Giuliano, che mai avrebbe accettato una simile situazione senza un importante compenso, fu esplicito: le «terre italiane» degli Asburgo (Trieste e Trento)

Contropartita quanto mai sgradita a Vienna che rinunciò a qualsiasi attacco al Montenegro

Analogamente, data la precaria situazione politica interna dell’Albania, Flotow il 13 giugno chiese a San Giuliano che cosa ne pensasse di una possibile spartizione del Paese tra Austria e Italia. Il marchese, più saggio di Mussolini, rispose che sarebbe stato un grave errore per l’Italia incorporare un irredentismo a lui ostile e mettersi contro i popoli balcanici. Nel caso l’Albania settentrionale fosse diventata austriaca il compenso secondo San Giuliano doveva consistere «nella cessione all’Italia delle province italiane dell’Austria»

Anche stavolta, Vienna tornò a miti consigli. Tutto mutò il 28 giugno 1914: però, ino al 23 luglio, data della consegna dell’ultimatum di Vienna a Belgrado, le intenzioni dell’Austria non furono chiare.

L’8 luglio, infatti Flotow tornò sulla questione e parlò al marchese dell’intenzione dell’Austria di cedere la costa del Montenegro all’Albania e di annettersi il monte Lovćen, in posizione strategica a controllo dell’Adriatico meridionale. San Giuliano parve sul punto di perdere i nervi.

Probabilmente, il tutto secondo alcuni esponenti del governo tedesco, timorosi dell’escalation militare, doveva servire come contropartita a Vienna per alleggerire le condizioni poste a Belgrado

San Giuliano, non rendendosi conto che la situazione era cambiata rispose all’ambasciatore tedesco che, pur di impedire all’Austria l’attuazione di questi progetti, l’Italia si sarebbe alleata con la Russia e la Serbia e le avrebbe dichiarato guerra portando la rivoluzione all’interno dell’Impero asburgico

Così, dinanzi alla presa di posizione italiana, fallì un possibile tentativo di mediazione.

E probabimente il ministro se ne rese conto il 23 luglio 1914; San Giuliano era a Fiuggi, a godersi le terme. Appena seppe che l’ultimatum sarebbe stato consegnato alle ore 18,00, telefonò al presidente del Consiglio Salandra affinché lo raggiungesse per esaminare le condizioni dell’Austria con l’ambasciatore tedesco Flotow, anch’egli a Fiuggi. Poco prima delle 12 del 24 i tre ricevettero il testo dell’ultimatum che si rivelò durissimo.

San Giuliano dapprima protestò con l’ambasciatore tedesco, poi si tranquillizzò quando Flotow gli fece capire che l’Italia avrebbe potuto ottenere un importante compenso territoriale se avesse assunto un atteggiamento benevolo verso l’Austria. Lo stesso 24 luglio 1914 il marchese scrisse a Vittorio Emanuele III precisando che per il momento l’Italia non aveva ricevuto alcuna richiesta di appoggio da parte di Vienna e poteva legittimamente tenersi fuori da un conflitto provocato dall’Austria, ma, qualora compensi consistenti fossero stati previamente concordati, l’Italia avrebbe potuto partecipare «liberamente a suo tempo» all’eventuale conflitto europeo al fianco degli austro-tedeschi. All’epoca, sia i politici, sia i comandi militari italiani davano per scontata la neutralità inglese.

Vienna, o meglio Conrad, sopravvalutava le sue forze e al contempo Moltke Junior, dopo aver fatto salti mortali per sistemare quell’immane porcata del Piano Schlieffen ritenne poi il contributo italiano alla guerra, utile, ma non indispensabile.

Quindi, per tenere buona Vienna, fu deciso di non dare nessuna compensazione territoriale all’Italia: poteva tranquillamente rimanersene neutrale.

Paradossalmente, questo atteggiamento convinse il governo italiano a tentare gli ultimi approcci diplomatici per fermare la guerra: per prima cosa, grazie alle spie a San Pietroburgo, per una volta più efficienti della media, normalmente passavano il tempo a bisbocciare tra bordelli e teatri, non solo Salandra ebbe la conferma che la a Russia sarebbe intervenuta in soccorso della Serbia se questa fosse stata attaccata dall’Austria, ma addirittura copia dei piani militari di invasione.

San Giuliano si premurò di diffondere l’informazione presso gli alleati e il 21 luglio 1914, l’ambasciatore a Vienna Giuseppe Avarna riferì la risposta di Berchtold: costui non «prestava soverchia fede» alle notizie che davano la Russia pronta ad intervenire e che semmai la Russia fosse intervenuta nel conflitto austro-serbo, l’Austria non aveva paura di affrontarla; inoltre Conrad aveva affermato come i piani di invasione russi in mano agli italiani fossero dei clamorosi falsi.

Il governo italiano, invece di mandare al diavolo gli Asburgo, tentò un’ultima carta: il 25 luglio, al rifiuto serbo dell’ultimatum ealla richiesta della Gran Bretagna di convocare una conferenza sulla crisi, il marchese San Giuliano propose all’ambasciatore inglese Rodd che le potenze convenute dovevano chiedere a Vienna spiegazioni sui punti più duri dell’ultimatum (quelli che consentivano a organi austriaci di indagare in territorio serbo sull’assassinio dell’arciduca).

Una volta avute queste spiegazioni, le potenze dovevano consigliare alla Serbia di accettare quei punti. In tal modo Belgrado avrebbe ceduto non di fronte alla sola Austria, ma all’Europa. Ciò avrebbe internazionalizzato la crisi e sarebbero state le potenze europee a giudicare se la Serbia aveva soddisfatto o meno le richieste austriache. La Serbia, cioè, si sarebbe sottomessa all’Austria solo da un punto di vista diplomatico, ma avrebbe avuto il sostegno delle potenze europee affinché mantenesse l’indipendenza

Fra gli altri, il 27 luglio 1914, San Giuliano spiegò il suo piano all’ambasciatore russo a Roma Anatolij Nikolaevič Krupenskij (1850-1923). Gli disse che i serbi, per facilitare il lavoro di mediazione europea, dovevano pronunciare «il semplice monosillabo “sì”» in risposta alle richieste austriache. Poi, aggiunse, «che i serbi accettino [l’ultimatum], pronti a non eseguire ciò che hanno accettato». Il ministro degli Esteri britannico Grey condivise i propositi del marchese… Insomma, forse si sarebbe trovato un compromesso, ma la volontà del partito della guerra austriaco era troppo forte.

Il 28 scoppiarono le ostilità…

Il dilemma viennese

L’impero Austro-Ungarico, a inizio Novecento, aveva due grossi problemi: Italia e Serbia.

Con Roma, dato che la diatriba nasceva per la questione minoranze in Trentino, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia e per la rivalità legata per il controllo dell’Adriatico, Vienna decise di applicare la linea dura.

Ai sudditi italiani, i Volkitalianer fu applicata una sorta di apartheid; inoltre fu favorita a seconda delle zone, la slavizzazione o la germanizzazione dei territori, favorendo l’immigrazione delle altre etnie dell’Impero.

In Dalmazia, si arrivò all’esproprio dei terreni dei Volkitalianer, ceduti poi a condizione di favore ai croati, e alla slavizzazione forzata di cognomi e toponomastica: l’italianizzazione voluta dal fascismo fu di fatto il tentativo di ripristinare la condizione precedente alla politica austriaca, ma come spesso accade, il volere riportare indietro le lancette della Storia, più che sanare ferite, ne apre di nuove.

Al contempo, invece di dare retta a Bismarck, che aveva cercato di incanalare dentro la Triplice la rivalità tra Roma e Vienna, cercando un compromesso tra l’espansionismo austriaco e italiano, con la clausola

Nel caso che, in conseguenza di avvenimenti, il mantenimento dello statu quo nelle regioni dei Balcani o delle coste ed isole ottomane nell’Adriatico e nel Mar Egeo divenisse impossibile e che, sia in conseguenza dell’azione di una terza Potenza, sia diversamente, l’Austria-Ungheria o l’Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con un’occupazione temporanea o permanente da parte loro, quest’occupazione non avrà luogo che dopo un previo accordo fra le due Potenze suddette, fondato sul principio di un compenso reciproco per ogni vantaggio territoriale o d’altra natura che ciascuna di esse ottenesse in più dello statu quo attuale, e tale da soddisfare gli interessi e le pretese ben fondati delle Parti.

che secondo il cancelliere tedesco implicava la cessione del Trentino e parti della Venezia Giulia, tranne Trieste, in caso di occupazione austriaca di territori ottomani, invece si applicò una strategia di chiusura, colminata con la questione della crisi bosniaca, in cui le richieste italiane, a seguito dell’annessione, furono rifiutate con la scusa che quei territori fossero stati un peso per l’Impero, non un guadagno.

Più complicata la questione della Serbia: l’indipendenza della Nazione, sotto Milan I, era stata voluta da Vienna nella speranza di avere uno stato satellite e sino al 1903, ai tempi del colpo di stato di Pietro Karađorđević, con alti e bassi, i rapporti con Belgrado erano stati se non amichevoli, collaborativi.

Pietro I, come spesso accade quando il potere è fragile, decise di scaricare le tensioni interne all’esterno, propugnando, con l’appoggio russo, il panslavismo, facendo così saltare i nervi a Vienna.

Sulla risposta all’attivismo serbo, vi erano due diverse opzioni: la prima, che sembrava essere la meno influente, era quella propugnata dal generale Conrad: una bella guerra vittoriosa e passa la paura.

Opposta era la posizionione dell’erede al trono Francesco Ferdinando: la guerra è sempre un azzardo. Se si perde, l’impero austro ungarico rischia di scomparire. Se si vince, la situazione diventa più complicata: con la pace si annetterebbero nuovi territori a maggioranza slava, rendendo ancora più critici gli equilibri etnici dell’impero, senza contare un possibile revanchismo serbo.

Per cui Francesco Ferdinando proponeva una strategia più articolata: dissuasione nei confronti dell’Italia, tramite la creazione di una flotta da guerra dignitosa e la costruzione di una linea difensiva in Trentino, la cosiddetta  linea Conrad e integrazione piena degli slavi e dei boemi nell’Impero, tramite la costituzione di un regno croato-bosniaco da affiancare a Austria e Ungheria e concessioni di forti autonomie a Praga.

Trialismo che poi si sarebbe dovuto evolvere secondo le proposte di Aurel Popovici, nella confederazione degli Stati Uniti della Grande Austria

Progetti che ebbero fine a Sarajevo, dando spazio al partito belligerante

Il pressappochismo giolittiano

Se la politica tedesca, basata sul principio scarichiamo i nostri problemi economici interni sui vicini, aveva creato le condizioni per lo scoppio della Grande Guerra, a dar fuoco alle polveri fu la più improbabile potenze europea: l’Italia.

Sin dal 1861, il nostro governo era intenzionato a ottenere delle basi navali nel Nord Africa, per dire la sua sul traffico marittimo legato al Canale di Suez. La scelta più ovvia sembrava la Tunisia, anche per la presenza di una forte comunità italiana, ma sia gli intrighi francesei sia l’opposizione dell’Inghilterra, timorosa che una potenza, anche amica, potesse controllare entrambe le sponde di un passaggio marittimo obbligato, come lo stretto di Sicilia, fecero fallire i tentatitivi di occupazione.

Già nel 1885, si era deciso di ripiegare sull’alternativa Cirenaica e Tripolitania, ma il governo decise di impelagarsi nell’Africa Orientale.

All’epoca lo studio del contrammiraglio Lovera, dal titolo “Condizioni militari della Tripolitania” che prevedeva la necessità di una forza di almeno 30.000 uomini per occupare la regione, con due sbarchi principali presso Tripoli e Bomba (Cirenaica) evidenziava però come il gioco non valesse la candela.

Lovera che da quelle parti c’era stati veramente, sottolineava come vi fossere solo sassi e sabbia. Uno colonizzazione sarebbe stata solo uno spreco di soldi del contribuente italiano

Dopo Adua, nel 1897, si riprese l’idea: condizione necessaria, però era che il conflitto rimanesse limitato con l’Impero Ottomano, dato che a Roma si era convinti che Germania e Austro Ungheria, nonostante la Triplice, non avrebbero mosso un dito in caso di attacco anglo francese.

I piani rimasero nello sgabuzzino finché, con la loro solita mancanza di buonsenso, i tedeschi nel 1911 fecero scoppiare la seconda crisi marocchina. Il governo italiano, convinto che l’opinione pubblica internazionale fosse distratta dal rischio di guerra tra Francia e Germania, decise di entrare in azione. Come sempre succede in Italia, nelle decisioni di politica estera contarono molto le paturnie interne

Giolitti voleva recuperare consensi a destra, contro i nazionalisti che lo accusavano di essere troppo arrendevole; il Banco di Roma, principale finanziatore del politico italiano, che temeva per i suo investimenti a Tripoli, visto che i Giovani Turchi, resosi conto del fatto che la banca italiana aveva una forte propensione all’evasione fiscale, erano intenzionati a ottenere le tasse con le buone e le cattive quanto dovuto allo Stato, faceve pressione per l’intervento.

Poi Antonino di San Giuliano, ministro degli esteri, temeva che la Germania ottenesse la Libia come compensazione relativa alla crisi marocchina. Per cui si diede il via alle operazioni.

Ovviamente, con solito italico pressappochismo: a differenza di Lovera, nessuno dei comandi italiani conosceva il territorio, nè le truppe, come aveva evidenziato il generale Caneva, vecchio sì, ma scemo no, avevano la più pallida idea di come si combattesse nel deserto.

Poi, nessuno aveva idea degli equilibri locali o di come i Senussi potessero non gradire la presenza di infedeli sul territorio libico.

Ancora peggio dal punto di vista diplomatico: Austria-Ungheria e Germania, sia per questione economiche, il pagamento del debito da parte di Istanbul, sia per motivi politici, contrastare gli interessi Russi nel Balcani volevano una Turchia integrata nella Triplice Alleanza e la guerra andava a rompere le uova nel loro paniere; Inghilterra e Francia, al contempo, non volevano che fosse alterato l’equilibrio nel Nord Africa.

Il Duca degli Abruzzi poi ci mise del suo: provocò un incidente diplomatico con la Parigi, sequestrando a Cagliari un paio di mercantili francesi, uno con la Grecia che si lamentava per le continue violazioni delle acque territoriali e con l’Austria che non gradiva vedere cannoneggiate le sue rive dell’Adriatico.

Vienna era tanto esasperata da dislocare a Cattaro 1ª divisione della flotta (corazzate SMS Zrinyi, SMS Radetzky, SMS Erzherzog Franz Ferdinand) e studiare la possibilità di un attacco a sorpresa al Veneto, evitato grazie all’intervento di Guglielmo II.

Persino la Russia, che aveva cercato un compromesso, proponendo una soluzione di compromesso (protettorato italiano della Libia, con il sultano che manteneva la sovranità formale della zona) fu irritata con il decreto di annessione emesso da Giolitti.

Grazie al cielo, i comandi militari italiani si comportarono per una volta dignitosamente e la guerra fu vinta: il problema è che gli altri paesi balcanici, convinti che la Turchia fosse alla frutta, scatenarono la guerra che ruppe tutti gli equilibri dell’area.

Guerra in cui, per la rivalità con l’Austria per il controllo dell’Adriatico, l’Italia rischiò di infilarvisi tra capo e collo, con l’obiettivo di creare lo stato satellite d’Albania: tra il 1912 e il 1913, Giolitti e Antonino di San Giuliano mandarono ultimatum alla Serbia, al Montenegro e alla Grecia che evitarono di degenerare in un conflitto armato per il buonsenso delle controparti e per la pazienza di Londra e Berlino, rassegnate a fare da mediatrici in ginepraio senza fine.

Questa politica convinse l’Austria che l’Italia poteva essere al suo fianco, in eventuali azioni di forza contro la Serbia, che Seconda Guerra Balcanica stava malmenando i bulgari alleati di Vienna.

La risposta italiana fu il tradizionale “Armiamoci e partite”: Vienna lasciò stare, ma la cosa fu risaputa a Belgrado, dando origine alla sequenza di eventi che portarono all’attentato di Sarajevo

La crisi guglielmina

La politica estera di Bismark aveva un unico scopo: evitare qualsiasi accerchiamento della Germania da parte di potenze ostili. Per far questo, il cancelliere tedesco aveva adottato le seguenti linee guida:

1) Nessuna provocazione alla Gran Bretagna, anche a costo di limitare le ambizioni coloniali; al contempo, istigare la rivalità “africana” tra Parigi e Londra, in modo che non si accordassero contro Berlino;

2) Trovare un equilibrio nei Balcani, anche a scopo di sacrificare a vantaggio della Russia gli interessi austriaci;

3) Fomentare la rivalità anglo russa relativamente all’India;

4) Mantenere una tensione tra Italia e Francia, sempre istigando le rivalità coloniali;

5) Impedire che Italia e Austroungheria si scannassero per i confini adriatici.

Politica estera che con qualche sbavatura, sembrava funzionare, ma che entra in crisi sotto Guglielmo II, per motivi ben più sei dei limiti caratteriali e intellettuali del Kaiser.

La questione base, come oggi, era la sostenibilità del sistema economico finanziario tedesco, che aveva tre grossi problemi: gli junker, crisi industriale ed esposizione bancaria.

Gli Junker, gli aristocratici prussiani, con le loro tenute che per stare in piedi, godevano di un trattamento fiscale privilegiato e sussidi a pioggia, per compensare la minore competività dei loro prodotti rispetto a quelli importati dall’estero, che si traduceva in un salasso per i conti pubblici di Berlino.

Inoltre, per resistere alla concorrenza, cominciarono a organizzarsi politicamente nella Lega degli Agrari, che impose al governo una serie di misure protezionistiche, che irritarono la Gran Bretagna, leggi contro la libera circolazioni di braccianti sia tedeschi, sia provenienti dalla Russia, in modo da abbassare i loro salari e la “ricolonizzazione” delle terre orientali, ossia l’insediamento sovvenzionato dallo Stato di contadini tedeschi su piccole proprietà strappate ai Polacchi, questioni che provocarono un raffreddamento dei rapporti con San Pietroburgo.

L’industria tedesca, dopo una fase di espansione, dovuta alla riduzione dei costi di produzione, sfruttando notevolmente gli operai e usando il dumping (smercio dei prodotti all’estero a prezzi bassissimi), compensando le perdite nell’export con l’aumento dei prezzi delle merci vendute all’interno del paese, era in difficoltà.

La Gran Bretagna stava adottando uno stesso approccio e al contempo, l’irruzione degli USA riduceva le quote di mercato: era necessario trovare un modo per piazzare la soprapproduzione.

Le banche, poi, come oggi, erano in sofferenza, sovrasposte con il capitale industriale e con i titoli di stato di altri paesi europei (con la Turchia a svolgere il ruolo attuale dell’Italia).

La classe dirigente tedesca cercò inizialmente di pompare la produzione industriale con una sorta di “politica keynesiana”: la costruzione della grande flotta da guerra, non considerando che questo avrebbe portato la Gran Bretagna a riconsiderare la propria politica estera.

Poi, per giustificare tale spesa, fu deciso di rilanciare la politica coloniale, nella speranza, vana, che i territori dell’Africa e del Pacifico potessero essere nuovi mercati redditizi. Furono ad esempo investiti capitali nelle miniere della Repubblica Boera di Transvaal e occupato il porto cinese di Kiasschou

Fallita questa opzione, che portò al riavvicinamento tra Londra e Parigi, impaurite dall’attivismo tedesco, mancando l’euro e la possibilità di scaricare con la speculazione finanziaria le proprie sofferenze su gli altri partner, fu deciso di costruire un’area di espansione economica nel Balcani e al contempo di vincolare politicamente il debitore più riottoso, ossia l’impero Ottomanoche concesse la tra l’altro costruzione di un porto e di una linea ferroviaria sulla costa orientale del Bosforo

Ciò implicava andare contro gli interessi russi e italiani, favorendo al contempo quello austriaci e provocare altre crisi isteriche a Londra, che il riteneva il Medio Oriente suo protettorato economico e temeva che gli investimenti tedeschi avessero come scopo indebolire i propri collegamenti marittimi con l’India

Risultato, per tenere in piedi i suoi carrozzoni economici, a inizio Novecento il Reich aveva smontato pezzo per pezzo la politica di Bismark. Di fatto era accerchiato, con Russia, Francia e Inghilterra pronte a saltargli addosso alla prima occasione e con l’Italia, che vedeva perennemente danneggiati i suoi interessi, pronta a rompere l’alleanza.

Il dramma vero è che tutti, a Berlino e Vienna, sottovalutavano gli effetti delle loro azioni: questo mix di egoismo e superficialità, simile a quello della Germania odierna, fu la causa primaria della Grande Guerra.

Lebbeus Woods, Architettura Selvaggia

woods

L’11 agosto del 2012, Lebbeus Woods postò sul suo blog personale quello che con il senno di poi sarà interpretato come un addio alla schiera di studenti ed architetti che, in tutti il mondo, si sono lasciati ispirare dal suo lavoro.

The days of regular posting on the LW blog are over. There are several reasons for this. For one thing, at my age and stage of life, with various health and other issues, my time and energy are limited”.

Pochi mesi dopo, il 30 ottobre del 2012, Lebbeus Woods lascerà questa dimensione. Il suo addio anticipato sul suo blog mette in evidenza il suo stretto rapporto con la fine, con la morte, ma anche con il dolore, con le ferite causate dalla guerra, dalla politica, dall’idiosincrasia degli uomini. Le comunità si aggregano attorno a bisogni e speranze; politica e guerra le disgregano, creando nuovi bisogni, nuovi scenari.

“Lebbeus Woods, Architettura Selvaggia” vuole essere un tributo all’architetto americano, supportato da Aleksandra Wagner, traduttrice croata di Guerra e Architettura, nonché compagna di vita di Woods.

“Architettura Selvaggia” è una delle espressioni che Woods usò per descrivere l’architettura spontanea in Italia, una delle ultime costruzioni teoriche che l’architetto americano coniò.

Saranno presenti:

Peter Lang;
Franco Purini;
Fabio Quici;
Donatella Scatena;
Aleksandra Wagner.

Quando:
28 maggio 2014, alle ore 18.00

Dove:
Facoltà di Architettura dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, sede di Fontanella Borghese, Piazza Borghese 8

Lo steampunk è vivo e vegeto

Mesi fa, fui coinvolto in un’accanita discussione sulla natura dello steampunk italiano. Una scrittrice se ne uscì con la previsione

“La bolla si sta sgonfiando: un paio di mesi, passata la mania di mettersi panciotto e cilindro e nessuno se ne ricorderà”

Previsione che sembra essere sbagliata: Vaporosamente ha avuto un eccezionale successo di pubblico, ogni giorno vengono pubblicati nuovi romanzi e nascono persino case editrici dedicate…

Lo steampunk non è certo un fenomeno di massa, ma sta uscendo dalla sua nicchia; per radicarlo, è necessario non dimenticare le radici del suo successo: pluralità di voci, capacità di fondersi con altri generi, ricerca delle proprie radici nella tradizione italiana.

Non fossilizzarsi, evitando di essere monotematici e allenando la propria scrittura dedicandosi anche ad altri generi del fantastico… Cosa che, grazie al cielo, fa la maggior parte degli scrittori che conosco

ATMAN

Afrodite,  2013, 100x150 Veronica Gaido jpg

 

Sempre in occasione del a MIA – MILAN IMAGE ART FAIR, la fiera internazionale d’arte dedicata alla fotografia, Veronica Gaido, artista, ritrattista e fotografa di moda, sarà presente dal 23 al 25 maggio con il progetto ATMAN, un caleidoscopio fluido di colori e di forme dai toni pastello che nasce dall’unione di due elementi fondamentali come l’anima e l’acqua: l’intento è mettere a fuoco la realtà perduta per abbandonare il peso delle delusioni vissute e cominciare un nuovo viaggio verso la salvezza dell’anima.

Progetto che nasce nel 2012 a un tour tra India, Bangladesh e Africa per poi diventare una mostra itinerante curata da Enrico Mattei e Roberto Mutti, che toccherà Pietrasanta, Milano, Londra, Parigi e New Delhi. Prima dell’inizio di MIA – MILAN IMAGE ART FAIR l’artista presenterà il progetto “ATMAN” in una preview che si terrà giovedì 22 Maggio alle ore 18.00 presso lo spazio espositivo della Galleria Photo&Contemporary (Central Point, stand 20) – SUPERSTUDIO PIÙ, Milano.

Le immagini intendono mettere a fuoco la realtà perduta, pulire la propria anima dalle circostanze negative del vivere per cominciare un nuovo viaggio. Il viaggio non è inteso però solo nella forma materiale di spostamento fisico, ma assume la funzione portante di vero e proprio maestro di vita: l’elemento che rompe la monotonia e porta l’individuo a confrontarsi, nell’abbandono ai piaceri e nella scoperta di una rinascita, con nuove realtà o una nuova vita, che possa allontanare il pericolo della sofferenza, come per i profughi nelle immagini in mostra, dove si legge la circolarità infinita della triade nascita-vita-morte.

Il viaggio che la stessa artista, attraverso la fotografia, percorre, alla continua ricerca di crescita e per ritrovare la sua strada e il suo cammino verso un luogo in cui esista la salvezza dell’anima e si possa abbandonare tutto il peso delle delusioni vissute.

Condizione ideale per la creazione, per Veronica Gaido, deve dunque essere quella dell’atarassia, cioè uno stato di serenità imperturbabile, in cui essere totalmente padroni di se stessi e dominare perfettamente le passioni con la ragione. Da questo stato si arriva all’essenza, all’Atman, al famoso soffio vitale e quella luce, quel sole, che irradia e anima il tutto, una forza maschile in cui Veronica si riconosce al livello di pensiero.

In questo continuo dualismo tra bene e male che domina l’essere umano da sempre, l’acqua funge da scenario principale: incolore e inodore ma fondamentale per la vita e all’origine di essa, l’acqua è la sostanza pura per eccellenza indispensabile per l’uomo, con un profondo valore simbolico legato alla purificazione e alla creazione.

Sono immagini appena riconoscibili quelle che compongono il progetto ATMAN, un caleidoscopio fluido di colori e di forme dai toni pastello. Sembrano più che altro impressioni colte dalla memoria dell’artista, quello spazio interno, psichico, pulsante, intimo, il dentro dell’anima che urge nel corpo, e che raggiunge la superficie espressiva, gli detta il tempo di azione, la stasi riflessiva, la dinamica, il gesto fotografico. Una sola sfera esistenziale che dialoga con il dentro e il fuori che si realizza nello spazio grazie allo scatto impiegato dalle esigenze dell’artista.

Il cumino della fantascienza

Sempre sul gruppo di fantascienza, è scoppiato un dibattito legato a un intervento a prima vista banale

Domandone: è davvero necessario avere una buona base di scienze per scrivere o godere della lettura fantascientifica?

Mi verrebbere da rispondere con una battuta: le scienze, nella narrativa fantastica è come il cumino quando cucino il pesce

Se non c’è e sono bravo, il piatto viene bene lo stesso: un pizzico da sapore al tutto, il troppo stroppia.

Il centro della fantascienza non è nel riempire la pagina di paroloni tratti da manuali di fisica, ma nel sezionare il Presente, individuare i suoi problemi e le sue contraddizioni, proiettarli in un mondo contingente.

La conoscenza scientifica può aiutare a far questo, ma certo non è determinante a far riflettere il lettore su se stessi e sul Reale.

Si scrive per essere letti, per comunicare qualcosa, non per mostrare la propria compenza su formule ed equazioni

La resa di Bucefalo

MELISLOC

 

Sempre in occasione del Photofestival Milano, l’AREA35 Art Factory, oltre che al progetto “the NolaEastman Series” di Niccolò Alberici, di cui abbiamo già parlato, presenta il 29 maggio, alle 18.30, la mostra La Resa di Bucefalo, di Melis Yalvac.

Mostra dedicata al cavallo, specchio dell’Uomo e compagno di mille avventure, la cui resa non è sottomissione, ma dono generoso.

Per conoscere meglio l’artista, lascio la parola a chi la conosce bene

È strano come un giorno ti ritrovi a scrivere la biografia di qualcuno che non conosci. Melis Yalvac è turca, ma parla italiano meglio di me, che sono di Milano, Melis Yalvac è piccola e sottile come un fuscello e la sua macchina fotografica la segue ovunque. Queste sono le cose che so.

Poi ci sono le cose che vedo. Vedo il silenzio delle sue foto, come se fossero prese sempre in quel momento di sospensione prima del boato. Prima dell’azione. Il gatto che prepara un balzo, la città che aspetta il tuono. Non c’è mai bisogno di descriverle, il dettaglio preciso, il momento curioso, sono lì e ti guardano, anche se, a dire il vero, non son o molte le volte in cui qualcuno o qualcosa sta in posa e guarda in camera, più spesso Melis è fotografa d’azione, cose che succedono, gente che si muove, posti.

E poi , ci sono i cavalli. Escono da fondi polverosi come immagini della memoria, creature magiche fatte di ombre, disegnate dal vento, Melis ha un occhio senza malizia che riscopre la natura fiera e sincera dell’animale a prescindere dal rapporto con l’uomo, dalle imbrigliature dell’equitazione, il cavallo alla pari – anche se col morso in bocca – per non so quale alchimia. Lei dice “La perfetta rappresentazione dell’animale nobile che ci ha aiutato a fare il mondo di oggi. Non importa che cavallo sia. Ogni cavallo ha qualcosa da raccontare”. Io dico che è brava e che i cavalli le piacciono perché sono scenografici, vanitosi e non si vergognano se lei li mette un po’ a nudo.

Io non saprei che altro dire. Mi ha chiesto una biografia ma il problema è che non so di preciso nemmeno dove sia nata e per ricordarmi il quando, nonostante abbiamo festeggiato degnamente insieme, devo guardare facebook.

Chi la conosce molto meglio di me ha raccontato questo:

“In effetti Melis ed io stiamo sempre insieme, perché la seguo ovunque decida di andare. Molto spesso la mattina quando usciamo non so quale sia la meta, spesso è ancora buio, o al contrario c’è quella luce dell’alba, che le piace tanto e che mi acceca. Io sono l’indolente delle due e gli agenti atmosferici mi danno pressoché sempre fastidio, ma potete stare sicuri che a lei non importa e che ogni volta trovo qualcosa che alla fine mi sporca: può essere polvere, come quella volta che facevamo il calendario per la L’Accademia Arte Equestre Spagnola e siamo state due giorni a rincorrere e farci rincorrere da una ventina di cavalli che galoppavano su una sabbia asciuttissima o spuma di mare, e quella dell’oceano, durante il Workshop in Portogallo (tenuto da Paula da Silva) era gelata, oppure l’asfalto di quando andiamo a fotografare le macchine, che è grigio e irregolare e al mio occhio così sensibile sembra pieno di crepe. Ci sono tanti altri esempi di quello che facciamo insieme, a me piace quando andiamo fuori con la Jacky, che è elegante e salta, corre, scappa in così tanti modi che ancora adesso, dopo due anni, mi sorprende. Melis mi ha insegnato che il mondo, un po’ dappertutto, è pieno di cose che vale la pena di avere ben salde nella memoria e io, che sono la sua macchina fotografica, lascio che me le indichi, che me le metta davanti e che le guardi, attraverso il mio obiettivo, finchè non è soddisfatta”.

Mi sembra che sia tutto abbastanza chiaro, Melis è una curiosa e infaticabile fotografa con una macchina fotografica antipatica ma poetica, insieme fanno delle belle foto, sperimentano, si divertono.

Se invece pensate che ci voglia una biografia “seria” per conoscere una persona, eccola:

Melis Yalvac nasce a Gronau (Germania) nel 1984 da genitori turchi, vive in Turchia fino ai 3 anni, torna in Germania a fare l’asilo e poi arriva in italia.
Studia architettura e danza classica. Dopo 3 anni nell’editoria, decide di dedicarsi alla fotografia, e, mentorata da Paula da Silva, si specializza nella fotografia equina.
Oggi vive a Milano, con Jacky il suo cane, la sua Nikon e Navar, il suo cavallo a qualche km fuori città.

Veronica Pagano

AREA35 Artfactory Via Vigevano, 35 20144 Milano. (MI)