Il Tesla Italiano ?

Maria-Lato

Una delle leggende più accreditate della pseudo-scienza del Novecento, infinita fonte di ispirazione per romanzi dieselpunk, prima o poi non è detto che non mi ci dedichi anche io, è il cosiddetto raggio della morte.

Quando se ne parla, a tutti vengono in mente il buon Tesla, che secondo me in vecchiaia si era un poco rincitrullito, e la storiella di Marconi che, secondo Donna Rachele in Mussolini privato, aveva realizzato un dispositivo capace, tramite una misteriosa forza, di spegnere i motori a distanza.

Ebbene, loro non sono stati i primi: la fonte di tutto è stato un genialoide, Giulio Ulivi. Chi era costui ?

Un creativo, senza ombra di dubbio; un convincente giramondo, questo è certo; forse con qualche competenza tecnica, visto che nel nel 1910, assieme all’industriale Domenico Micheli, esperto di meccanica e proprietario a Scopoli, frazione del Comune di Foligno, di un cotonificio con “annessa officina generatrice di elettricità” progettò e costruì e testò uno dei primi aerei italiani.

Poi, forse, dietro agli esperimenti di Firenze, in cui furono fatte scoppiare delle bombe a distanza, forse qualcosa vi era, dietro la radiobalistica. Però, sicuramente esagerò meriti e risultati, per riempirsi le tasche.

E nel 1914, la sua capacità di imbonitore raggiunse il culmine.Il New York Times gli dedica uno speciale, fitto di elogi e ammirazione. Lo paragona ad Archimede, parlando del suo raggio della morte che avrebbe potuto  far esplodere a distanza i depositi di munizione e bloccare qualsiasi mezzo a motore sfruttando le onde radio e raggi infrarossi.

Insomma, una cosa che fa tanto Fu Manchu, Flash Gordon e Barone Zemo… Però abboccarono inglesi, francesi e tedeschi e Ulivi tentò di appioppare la sola anche alla marina italiana. Soldi, però ce ne erano pochi; per attirare l’attenzione punta sul patriottismo: non avrebbe preso una lira dal ministero della difesa, facendosi finanziare da privati.

Applicando il principio di a caval donato non si guarda in bocca, Thaon di Ravel disse finalmente di sì.

Il 18 luglio La Stampa annuncia la scomparsa di Giulio Ulivi. Pressato dalle ovvie richieste di controlli, è fuggito con le 80000 lire donategli da cinque non so, chiamiamoli “mecenati” assieme alla fidanzata, la figlia dell’ammiraglio Fornari.

Durante la Prima Guerra Mondiale, per evitare di essere spedito al fronte, tornò ad armeggiare con l’elettricità: qualcosa combinò a Lomazzo, rischiando di fulminare un paio di operai.

Poi di lui si persero tracce, finchè nel 1926, improvvisamente riapparve a Roma, con Balbo che gli mise a disposizione una casa nell’isola Tiberina per continuare i suoi esperimenti.

La cosa durò sino al 1929 quando le acque del Tevere improvvisamente ingrossato invasero la sua abitazione costringendolo a sloggiare.

E non si sa bene come, nel 1930 Giulio venne invitato a Bruxelles dal governo belga che, sino ai giorni dell’invasione nazista, continuò a foraggiarlo.

Il figlio Giacomo, partigiano, fu fucilato sulla piazza del Duomo di Modena il 10 novembre 1944; di Giulio, invece, non seppe più nulla, anche se si ipotizza una sua morte intorno al 1948

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