
“Il Carnevale di Roma non è precisamente una festa che si offre al popolo, ma una festa che il popolo offre a se stesso”
E’ una frase di Goethe, che sintetizza cosa fosse il Carnevale a Roma: un’immensa rappresentazione teatrale, in equilibrio instabile tra l’immagine che il Potere voleva dare di sé e il rovesciamento dei valori evocato dalla plebe.
La città diveniva un’immensa quinta teatrale, luogo in cui si fondevano tutte le arti, in sintesi quanto spettacolari, quanto transitorie.
Il Carnevale a Roma cominciava ufficiosamente dal giorno di Sant’Antonio Abate, ma il culmine della festa iniziava undici giorni prima del mercoledì delle Ceneri, al suono della Patarina, la stessa campana che suonava alla morte del Papa.
Ma per le paturnie ecclesiastiche, da venerdì alla domenica, bisognava pregare, invece che bisbocciare: per cui, la durata effettiva era di otto giorni.
I festeggiamenti iniziavano nel Campidoglio, sino a Clemente IX, con un corteo di ebrei agghindati in modo grottesco, che accompagnava la cavalcata dei Senatore dei Conservatori (di certo vi partecipò anche il Marchese di Palombara); papa Clemente, invece, oltre a caricare sul ghetto una tassa di 300 scudi per pagare parte dei festeggiamenti, ordinò che il rabbino si recasse a rendere omaggio ai conservatori e al senatore, il quale lo avrebbe ringraziato simulando una pedata sul sedere.
Così cominciava la festa, in cui era lecito travestirsi in qualsiasi modo, tranne che da religiosi: il primo spettacolo era quello dei carri allegorici, pagati dalle famiglie aristocratiche romane, che spesso ammiccavano all’esotico e all’inusuale.
Per esempio, nel 1711, la famiglia Ruspoli pagò uno ispirato all’impero Ottomano, con il principe vestito da sultano e tutta la servitù costretta a vestirsi alle meno peggio da giannizzeri o nel 1735, gli allievi dell’Accademia di Francia organizzarono la loro versione del Capodanno Cinese, oppure nel 1765 i Barberini presentarono un carro dedicato al pantheon indù.
Alle sfilate del carri, seguiva la corsa dei barberi, i cavalli senza fantino che percorrevano tutta via del Corso.
La partenza (mossa) era quasi sotto l’obelisco di Piazza del Popolo: accanto vi era il palco per la giuria e alcune tribune da dove i potenti della città potevano vedere da vicino il movimentato inizio della gara; i meno fortunati si affollavano sulle pendici del Pincio. I cavalli, di proprietà di ricchi aristocratici, scalciano e si impennavano, trattenuti a fatica dai “barbareschi” (gli stallieri) perché aizzati e infastiditi da spilli inseriti in palle di pece che venivano attaccate sulla loro groppa. Quando si udivano gli spari a salve, tutti sapevano che la Corsa era cominciata. I cavalli venivano lanciati lungo via del Corso, verso piazza Venezia, dove un grosso drappo sospeso in aria segnava la fine del percorso. Li avveniva l’arrivo e la “cattura” dei cavalli scossi, intimoriti e per nulla propensi a fermarsi di fronte ai barbareschi.
Infine, vi era la festa dei moccoletti, ma lascio la parola al buon Dickens, che la visse di persona
«Mentre al calar delle tenebre, festoni e maschere e ogni cosa va a poco a poco sbiadendo e perdendosi in una messa oscurità che tutto involge in un colore grigio cupo, ad un tratto, qua e là, alle finestre, sulle altane, sui balconi, nelle carrozze e tra la folla a piedi, cominciano a risplendere dei lumi; prima radi, poi più spessi, crescono, s’estendono, invadono tutto il Corso che si trasforma quant’è lungo in un gran tagliare e in una vampa di fuoco.
Allora tutte le persone presenti non hanno più’ che un solo pensiero, che un solo scopo costante, quello di spegnere la candela degli altri e conservare accesa la propria; e uomini, donne, ragazzi, signori e signore, principi e contadini, cittadini e forastieri, gridano e strillano e urlano senso posa il motto di scherno a chi s’è lasciato spegnere il lume:
«Senza moccolo! Senza moccolo! », tantoché ‘ben tosto non si sente più’ altro che un immenso coro di queste due parole, misto a scrosci di risa. Lo spettacolo a questo punto oltrepassa ogni immaginazione. Le carrozze s’avanzano lentamente colle persone che hanno dentro, ritte in piedi sui cuscini e sul serpe, col traccio disteso e alzato per tenere il lumicino fuori di pericolo; alcuni lo portano dentro un cartoccio; altri tiene un mazzo di condoline strette insieme e tutte accese, senza alcuna difesa; altri portano delle torce abbaglianti, ed altri un candelino che appena sta acceso.
Persone a piedi, ficcandosi tra un veicolo e l’altro e seguitandoli, aspettano e colgono il destro per fare un salto e soffiare sur un certo lumicino o dargli su un colpo; altri s’arrampicano sulle carrozze, e chinandosi verso l’interno, lo strappano dalle mani di qualcuno a viva forza; altri, inseguendo qualche sviato torno torno alla di lui carrozza, prima che salga a riaccendere la candela spenta della campagna, gli spengono la sua ch’egli è sceso a chiedere in favore o a rubare a qualcuno; altri, col cappello levato dinanzi allo sportello d’una carrozza, si fanno a pregare con gran rispetto ed umilmente una gentile signora, perché voglia porgere il suo lume per accendere il sigaro, e mentr’essa sta esitando dubbiosa di porgerlo o no, le soffian sul candelino custodito e difeso con tanta tenerezza dalla sua manina; gente alle finestre tentano con un uncino attaccato ad una cordicella di pescare qualche candela; o con fazzoletti legati all’estremità d’una pertica le spengono destramente nella mano stessa del portatore nel momento stesso del suo trionfo: uno, appiattato dietro una cantonata, aspetta il momento giusto per balzar fuori all’improvviso addosso alle superbe torcie, con uno smisurato spegnitoio che pare un’alabarda; altri circondano una carrozza e vi si aggrappano; altri tirano a furia aranci e mazzolini di fiori contro una ostinata lanternina, o fanno un regolare bombardamento contro una piramide d’uomini con uno su in cima che porta sulla testa un lumicino sfidando tutti.
« Senza moccolo! Senza moccolo! ».
Carrozze piene di leggiadre donne, ritte in piedi burlando i lumi spenti, e battendo le mani quando passano loro accanto e gridando: « Senza colo moc! senza moccolo! ». I balconi più vicini alla strada gremiti di bei visini di donne in gaie acconciature, che combattono con quelli che vogliono salire, respingendo chi s’aggrappa, piegandosi in giù, sporgendosi in fuori, ritraendosi indietro: personcine e mani gentili e delicate, e volti leggiadri, e uno scintillio di lumi e un ondeggiare e uno sventolare di abiti. «Senza moccolo! Senza moccolo!» quando nel colmo dell’entusiasmo e in mezzo al delirio del sollazzo, scocca l’avemaria da tutte le chiese e il carnevale muore tutto in un colpo, come si spegne un cero con un soffio!».
Di tutto ciò non sono rimasti che vaghi ricordi, che all’Esquilino stiamo cercando di recuperare, con riflessioni sulla salute, solidarietà, concerti, lezioni di canto corale e danza popolare, retake, feste per bambini ed eventi che cercano di creare ponti tra culture