Electric Dreams: arriva una nuova serie TV Amazon ispirata a Philip K. Dick

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Dopo il successo ottenuto con The Man in the High Castle, Amazon ha deciso di proporre una nuova serie TV ispirata al grande autore di fantascienza Philip K. Dick. Electric Dreams: The World of Philip K. Dick sarà un’antologia di 10 puntate prodotta da Bryan Cranston (Breaking Bad), Michael Dinner, Ronald D. Moore e Sony Pictures TV. La serie adotterà un formato stand-alone comune in serie TV di fantascienza come ad esempio Black Mirror, con episodi autoconclusivi, tutti basati sui racconti brevi dell’autore californiano. Le date non si conoscono ancora.

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Riuso degli spazi in città: le smart (and best) practices

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Il tema della rigenerazione degli spazi vede il suo naturale “terreno di gioco” nelle città, specie quelle medie e grandi dove il fenomeno è ancora più visibile e diffuso a causa i tanti “scheletri” ex industriali, caserme, case sfitte o invendute, oltre a strutture pubbliche vuote ed abbandonate. Sono tutti segnali di una transizione da una economia ad un’altra, che in generale segnalano la fine di una società basata solo su logiche (e pensieri) industriali e statalisti…. Oggi invece, a partire da gruppi di “giovani pionieri” e da tanti altri innovatori, i segnali di un modello socio-economico basato su nuovi paradigmi e valori cominciano a delinearsi: fabbriche della conoscenza, co-working, green building, start up, sharing, riuso, imprese sociali e culturali, intangibile assets, fonti rinnovabili, rigenerazione urbana, social and cultural innnovation, esprimono le linee e le direzioni verso le quali si sta andando.

Detto ciò, sempre più frequente, viene posta la…

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DELLA “MAPPATURA” O CONOSCERE PER AGIRE

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Si invoca molto, si dice spesso, non sempre si fa, ma “conoscere per agire” rimane generalmente un buon modo per affrontare i problemi. In tale ottica la “mappatura” degli spazi e dei luoghi da riusare è un ottimo strumento per cominciare a capire come rigenerare la città. Molte amministrazioni lo stanno facendo, come per esempio nei casi di San Giorgio di Pesaro, di Altopascio, di Volterra o in Lunigiana, o più in generale per il vasto e articolato fenomeno dei paesi fantasma.

Da lì enormi possibilità di sviluppo facendo convergere offerta e domanda di spazi per attivare processi e progetti a livello culturale, sociale ed economico. Per un approccio diretto e pragmatico che tenga conto di tempi e costi ragionevoli per risultati tangibili nel breve periodo, ved. http://www.riusiamolitalia.it/ita/domandaofferta.asp

RIUSIAMO L’ITALIA!

roberto.tognetti@riusiamolitalia.it

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L’Esquilino immaginario

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Oggi la Raggi si è fatta viva all’Esquilino: il che è encomiabile, visto lo stato di abbandono del Rione, che spesso si sente abbandonato dalle istituzioni e sia per avere avuto come risultato concreto l’apertura dei bagni nei giardini di Piazza Vittorio… Per chi non abita in zona, può apparire una sciocchezza, ma essendo la chiusura di un’annosa telenovela, centrata sulle beffe dell’Ama nei confronti dei cittadini, merita di essere citata tra i successi dell’amministazione grillina.

Però, una piccola critica mi sento di farla: da vecchio abitante del rione, mi sento assolutamente preso per i fondelli per il video di propaganda della Sindaca, che non sfigurerebbe tra quelli dell’Istituto Luce ai tempi del Ventennio.

Un video che da ragione a una delle tanti tesi di Alan S. Cooper, ossia che qualsiasi sia l’estrazione politica di un populismo, il linguaggio visivo che esso utilizza è invariante.

Da una parte, i video che utilizza, muti, in bianco e nero, a colori, in digitale, rispecchiano una struttura narrativa abbastanza banalotta: arriva il politico di turno, si guarda intorno, scopre un problema, lo risolve, tra gli applausi di un coro plaudente, costituito da tipi, non da persone, per simboleggiare l’universalità e la trasversalità del consenso.

In cui, i potenziali contestatori, coloro che ad esempio vorrebbero ricordare alla Raggi come, nonostante la sua retorica orwelliana sul rilancio dei mercati rionali, per fare cassa con il provvedimento sulle AGS li ha di fatto condannati alla chiusura

Dall’altra, la semplificazione estetica del contesto in cui ci si trova a operare: nel video di propaganda, costituito da inquadrature di plastica, non si vedono né i problemi, neppura una traccia dell’immondizia, del mercato abusivo di via Ricasoli o dei palazzi degradati, nè le ricchezze dell’Esquilino.

Il Rione pare uno di quei sobborghi americani, con il monumentino ben curato, i suoi giardini, la botteguccia, abitato esclusivamente da piccoli borghesi bianchi, un ottimo scenario per le ambigue visioni di Hopper e Wood, che nascondo l’orrore dietro un’apparente normalità.

Un’immagine astratta e aliena, nata dalla paura del Reale, che è forse il vero fondamento del Grillismo, che nega la multiculturalità e l’anarchia caotica e vitale che, sin dai giorni di Gadda, rappresenta sia la maledizione, sia la forza che spinge l’Esquilino verso il futuro.

 

L’etica degli esploratori dello spazio profondo

Il tredicesimo cavaliere 2.0

Con questo saggio, Michael Michaud prende in esame le sonde interstellari e il loro possibile utilizzo e si chiede quale effetto potrebbe avere una nostra missione esplorativa sugli ipotetici abitanti di un altro sistema stellare. Non solo: quale effetto potrebbe avere sui di noi, tenendo conto delle problematiche etiche e ponderando il potenziale – e i pericoli – dell’invio nella galassia di artefatti dotati di una inteligenza artificiale altamente sviluppata? Michaud è l’autore dell’indispensabile opera “Contact with Alien Civilizations: Our Hopes and Fears about Encountering Extraterrestrials”  (Springer, 2007). Molti dei suoi numerosi lavori riguardano l’esplorazione spaziale. Per 32 anni è stato ufficiale dei servizi esteri degli Stati Uniti, in qualità di consulente per scienza, tecnologia e ambiente presso le ambasciate statunitensi di Parigi e Tokyo, oltre che direttore dell’Ufficio Tecnologia Avanzata del Dipartimento di Stato. È stato inoltre presidente dei gruppi di lavoro sulle tematiche del SETI presso…

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Urheimat

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Come qualcuno sa, ho parecchi amici che lavorano nell’ambito della filologia e della linguistica. Amici che nel bene e nel male sono inesauribile fonte di ispirazione per la mia attività letteraria: uno di loro è diventato, anche se forse non lo sa, il protagonista de “Il regno di Dio è un bianco elefante“, racconto pubblicato in un’antologia dell’Edizioni Scudo.

Inoltre, molte stranezze di Andrea, il protagonista del mio ciclo di romanzi steampunk, derivano dal mio frequentarli. Uno delle cose che mi divertono di più e che un giorno trasformerò in un racconto di space-opera, sono le loro strane e continue discussioni sull’ Urheimat, il luogo dove nella Preistoria vivevano le popolazioni che parlavano l’indoeuropeo, l’ipotetico trisnonno della maggior parte delle lingue parlate da noi europei.

Discussioni coltissime, piene di argomenti che spaziano dalla linguistica alla climatologia, dalla genetica all’archeologia, ma che troppo spesso mi lasciano più confuso che persuaso.

Le tesi che si confrontano sono tre: la continuistica, la kurganica e l’anatolica. L’ipotesi continuistica ,ridotta all’osso, afferma che l’indoeuropeo sia il diretto discendente di una delle lingue parlate in Europa e che si sia progressivamente diffusa prima nel nostro continente, poi in Asia.

Tesi che però ha diversi bachi: non è coerente con i risultato delle ricerche genetiche in Sardegna, in cui si è evidenziato come gli aplogruppi riconducibili al Paleolitico abbiano una distribuzione differente rispetto a quella dei popoli europei moderni, il che da l’idea sia avvenuto un fenomeno di immigrazione dal Neolitico in poi

Inoltre presuppone che l’indoeuropeo abbia un tasso di evoluzione e di differenziazione minore della altre famiglie linguistiche, cosa difficile da dimostrare, e vi è una forte difficoltà a correlare il presunto processo di diffusione verso oriente con i dati archeologici.

La seconda ipotesi sostenuta da Marija Gimbutas è riconducibile a questo: l’Europa mesolitica è abitata da popoli pacifici, accomunati da un’unica cultura matriarcale e impegnate nell’adorazione della Dea Madre. A inizio età del ronzo, questo mondo idilliaco viene spazzato via dall’invasione, tipo orda di Genghiz Khan, della cultura kurghan, brutta, cattiva e patriarcale, i cui cavalieri, armati sino ai denti, impongono la loro loro lingua indoeuropea.

Ipotesi che, nonostante il fascino ideologico, ha però una serie di problemi: nell’Europa dell’età del Bronzo non vi sono tracce archeologiche che parlino in modo univoco di una discontinuità di strutture sociali e organizzazione, connesse a un evento violento come un’invasione. E l’analisi degli aplogruppi pone una serie di problemi… L’associazione tra l’aplotipo R1a e cultura Kurgan è stata recentemente rimessa in discussione, dato che allo stato attuale si ritiene che le regioni a più alta probabilità di comparsa dell’aplotipo siano l’Europa dell’Est o l’Asia meridionale, con tempistiche con corrispondenti con la relative facies archeologica.

L’ultima ipotesi è quella anatolica, elaborata da Colin Renfrew, che ipotizza un’immigrazione neolitica delle popolazioni indoeuropee, provenienti dall’Anatolia, che introducono in Europa, oltre che la loro lingua, l’agricoltura e la ceramica.

Ipotesi che però ha un paio di problemi: presuppone che la cultura vallinda, la cosiddettà civiltà di Harappa, sia indoeuropea e allo stato attuale non abbiamo elementi per provarlo, e non spiega la presenza di uno strato preindoeuropeo in Anatolia, il cosiddetto proto-hattico.

E come per l’ipotesi kurganica, vi sono delle discrepanze con i dati della genetica e dell’archeologia, visto che poco si concilia con la diffusione dell’aplogruppo di tipo G, associabile alle culture della ceramica cardiale e della ceramica lineare, che presuppongono l’esistenza in Europa di una cultura neolitica pre-indoeuropea.

Tuttavia, possiamo ipotizzare una soluzione di compromesso, basata su una serie di assunzioni.

La prima è che a differenza di quanto pensato dalla Gimbutas, l’Europa mesolitica, più che il modello pigmeo, segua quello nord americano: un mosaico di culture e lingue differenti, di cui poco si può ipotizzare, ma che tra loro hanno un complesso spettro di interazioni, dal commercio alla guerra.

La seconda è che questo mosaico entra in contatto, nel primo Neolitico, con le popolazioni portatrici delle culture della ceramica cardanica e lineare, con parecchia fantasia, corrispondenti alle popolazioni pre-tirseniche e con quelle paleobasche, che colonizzano i Balcani e al contempo, tramite commercio, matrimoni esogamici, propaganda religiosa o chissà quale altro mezzo, cominciano a influenzare le popolazioni più settentrionali

Dalle testimonianze archeologiche, infatti, pare come il sistema mesolitico si disintegri in due modi: nelle regioni sud-orientali vi fu un’intera e rapida assimilazione da parte dei nuovi venuti neolitici, mentre a settentrione si può osservare un graduale adattamento al modello neolitico

La terza è che in una non ben definita area a contatto con la cultura mesolitica del complesso Nord-Orientale e con la cultura sankobiana, vi è una popolazione che parla l’antenato del proto indoeuropeo: una parte di questa (Facies I) è influenzata dalle culture neolitiche del Vicino Oriente, si trasferisce prima in Anatolia, poi nei Balcani, a causa di un’agricoltura basata sulla tecnica taglia e brucia.

Nel sud Europa, modificando forse la tipologia di tecnica agricola, con il relativo aumento di produttività e popolazione, in dei casi si sovrappone con la popolazione precedente, in altri subisce una sorta di ibridizzazione, generando quella sorta di pidgin da cui trarrà origine la famiglia linguistica del Tirsenico.

Queste popolazioni della Facies sono portatrici degli aplogruppi mitocondriali H,J,V,T,X. Al contempo, la parte della popolazione che non adotta un sistema agricolo, ma uno basato sulla pastorizia di transumanza (Facies II).

Date le esigenze legate alla variabilità dei pascoli. le diverse tribù, più o meno differenziate della Facies II migreranno in tempi diversi o verso l’Europa, fondendosi con le popolazioni pre-indoeuropee o della Facies I o verso l’Asia.

In parallelo a questo processo di circolazione verticale, vi è uno di circolazione orizzontale, basato non sul mutamento della popolazione, ma sui prestiti linguistici dovuti alla circolazione delle tecnologie e al commercio: per un cui si ha un sistema complesso, che può spiegare la pluralità di dati archeologici, genetici e linguistici.

La storia di Big Numbers raccontata da Bill Sienkiewicz

Conversazioni sul Fumetto

Particolare da “Big Numbers #3”

Big Numbersè l’opera mai completata di Alan Moore e Bill Sienkiewicz. Un caso ancora oggi oscuro, in cui si cita spesso Al Columbia, a quel tempo assistente di Sienkiewicz. Di Big Numbers, che doveva essere composta da dodici numeri, uscirono solamente i primi due capitoli. Il terzo è stato completato ma mai pubblicato, mentre il quarto si dice che sia stato distrutto.

Pádraig Ó Méalóid, colui che vinse all’asta su eBay le fotocopie dell’intero numero tre di Big Numbers, ha postato recentemente sul suo blog (nel quale trovate il link alle fotocopie di Big Numbers #3), uno scritto di Bill Sienkiewicz che doveva originariamente essere pubblicato su The Beat, ma poi scartato da Heidi Mcdonald.
Sienkiewicz spiega dal suo punto di vista come andarono i fatti, il perché non riuscì a terminare la serie e la sua disputa…

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E’ passato un anno…

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Un annetto fa, giorno più, giorno meno poco importa, fu presentato nei numerosi gruppi Facebook dell’Esquilino il bozzetto che il buon Mauro Sgarbi aveva pensato per il murale del Mercato. Non rivangherò tutte le polemiche pretestuose che hanno accompagnato l’opera, sia perché il Tempo è stato galantuomo, sia perché la minoranza dei contestatori, tanto rumorosa quanto inconsistente, motivata per di più dal difendere i loro meschini interessi di bottega, può essere paragonata, con il tutto l’affetto per i miei amici messinesi, può essere paragonata al buddaci, in italiano sciarrano, un pesce siciliano caratterizzato da un corpo minuto e snello e da una testa molto grossa e da una bocca ampia.

Ossia gentucola capace di scrivere dietro una tastiera in maniera assai arrogante, mentre dal vivo, insomma, tutte le volte che ha avuto l’occasione di confrontarsi con me e con Mauro è sempre scappata con la coda tra le gambe, ma incapace di accompagnare alle parole i fatti.

Invece mi concentrerò sui risultati: l’opera di Mauro, e lo stesso discorso vale per i murales suoi e di Beetroot a Via Giolitti, aveva due obiettivi. Il primo era di compiere una sorta di marketing territoriale. Purtroppo, cosa che per qualche abitante ed ex politico dell’Esquilino è di difficile comprensione, gli investimenti in sicurezza e in infrastrutture che la Politica dedica a un territorio urbano sono anche legati alla percezione che si ha di questo.

Se un rione è percepito come marginale e in decadenza, questi investimenti sono percepiti come inutili e poco remunerativi in termini di visibilità e voti. Se al contrario, viene fornita l’idea di un ambiente vivace e in crescita, questi investimenti tenderanno a crescere.

Lo stesso discorso vale per gli investimenti privati: più un territorio viene considerato a rischio, meno è appetibile per questi, alimentando una spirale di decadenza.

Il secondo obiettivo era di creare un simbolo civico, in cui l’Esquilino potesse riconoscere la sua identità, nata dal confronto dialettico tra culture e storie differenti…

Entrambi, a mio avviso, sono stati raggiunti e di fatto, l’opera di Mauro è diventato un motore immobile di altre iniziative volte a riqualificare il mercato.

Ora,  come già detto in passato, l’idea è di continuare su questa strada, portando l’Umana Pietà di Beetroot nel Rione, come simbolo della nostra capacità di accogliere e integrare il Nuovo e il Diverso, restaurare e ampliare i murales di via Giolitti e infine di rendere il Mercato Esquilino un nuovo grande polo della Street Art romana, iniziativa per cui diversi artisti si sono messi a disposizione con ammirevole generosità…

Speriamo che tra un anno, si possa cogliere il frutto di quanto seminato…