Circo Variano

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Oggi grande risultato! Manu è scesa al bar sotto casa per fare colazione… Cosa che una settimana fa, pareva impossibile…

Per festeggiare, continuo a parlare del Palazzo Sessoriano… Ora, a noi moderni può sembrare strano, ma le corse nel Circo avevano, oltre a una dimensione sportiva e ludica, anche una sacrale.

La corsa, infatti, rappresentava, nella visione cosmologica dell’epoca, il giro dei pianeti e della sfera delle stelle fisse attorno alla Terra… E il Magistrato o l’Imperatore che supervisionava i giochi diventava garante dell’ordine cosmico.

Così il Circo non era solo un spazio architettonico, ma anche uno dei simboli dell’Imperium: per cui, l’architetto a cui Settimio Severo diede l’incarico di progettare il suo buon retiro ad Spem Veterem dovette fare i salti mortali per costruire nell’area l’equivalente del Circo Massimo, il Variano, dal nome della famiglia di Eliogabalo.

Circo, completato da Caligola, grande appassionato di corse, che era addirittura più grande dell’originale ed orientato lungo l’asse est/ovest, con il lato curvo ad est ed i carceres, da dover partivano i carri, ad ovest.

La parte occidentale del circo, il lato della partenza dove si trovavano i carceres, è stato ritrovato all’interno delle mura, in pratica sotto il museo dei granatieri, mentre il lato orientale incurvato si trovava all’altezza di via Alcamo; il lato settentrionale del circo ha fornito poi il sostegno per l’ultimo tratto dell’Acquedotto Felice (1585-1589) che, nel tratto extraurbano fino alla congiunzione delle attuali via Ozieri e via Nuoro.

Eliogabalo, travolto dalle manie religiose, cambiò funzione al Circo, da luogo di corse di carri a sede di processioni. Ciò impatto anche sulla struttura architettonica del complesso: fu ridotta , rispetto al progetto originario, l’estensione del circo verso ovest arretrando i carceres e caratterizzandoli con due torri alle estremità, secondo la tipologia introdotta in quel periodo nel Circo Massimo. In questa fase, il circo aveva una lunghezza di m 547 circa.

In più, l’obelisco di Antinoo, quello del Pincio, per capirci, fatto trasportare dall’Egitto da Adriano ed eretto sulla via Labicana in onore dell’amante dell’imperatore che Settimio Severo aveva fatto spostare in modo che decorasse la spina del circo fu spostato fuori dalla struttura, o per significati simbolici, un richiamo al dio solare di Emesa di cui Eliogabalo era sommo sacerdote, o per fungere da decorazione dell’ingresso.

Dopo il colpo di stato contro Eliogabalo, il circo fu sfruttato per parate militari, finchè venne tagliato a metà, con la costruzione delle mura Aureliane, che lo rese inutilizzabile.

La cose cambiarono con la ristrutturazione di Massenzio e Costantino che riempirono il circo con ambienti di servizio, di collegamento e forse di residenza della servitù della corte imperiale. Poi, dopo la pestilenza del 590 d.C. fu tutto abbandonato, per essere ridotto nel Medio Evo a vigna del convento di Santa Croce in Gerusalemme, famosa per il vino, fornitrice della corte papale al Laterano

Sessoriano

Sessoriano

Oggi prima giornata di lavoro, meno traumatica del previsto, dato che i giorni scorsi, nonostante le ferie, mi ero portato avanti con la gare che stavo seguendo, per avere più tempo da dedicare a Manu.

Manu, che a quanto pare, grazie alla fascia elastica che le ha consigliato l’ortopedico, pare rinata… Così, per stasera, posso senza troppi problemi, parlare dell’estrema propaggine dell’Esquilino, la cosiddetta Spei Veneris, dal tempio edificato nel 477 a.C. per celebrare la vittoria della Repubblica Romana su Veio. Zona che coincide con la nostra Porta Maggiore e Santa Croce in Gerusalemme. Sì ipotizza che fosse ben poco urbanizzata e che la speculazione edilizia promossa da Mecenate la impattasse in maniera molto limitata. La cosa cambio con Settimio Severo che decise di erigervi una dimora imperiale, una sorta di buen retiro per quando si era stancato degli affari del Palatino, acquistando la proprietà da Sesto Vario Marcello, padre di Eliogabalo.

Da quanto si riesce a capire dai bolli laterizi, la struttura severiana era costituita da una sala di rappresentanza, che poi diverrà Santa Croce in Gerusalemme, da un paio di padiglioni privati, da un portico dalle terme, forse ad uso pubblico, terminate poi da Alessandro Severo e dal Circo Variano, lungo 630 m e largo 125 m, più grande del Circo Massimo, completato da Caracalla, grande appassionato di corse di carri.

Quando salì al trono Eliogabalo, per ovvi motivi sentimentali, il complesso fu totalmente ristrutturato: ampliò i padiglioni privati, modificò il circo variano, accorciandolo e adattandolo a scenario per le processioni religiose di cui era grande appassionato, costruì l’anfiteatro castrense e raddoppiò le aule di rappresentanza, creando il cosiddetto Tempio di Venere e Cupido.

Tutto il palazzo si sviluppava per circa 12.000 mq. Il collegamento e l’unificazione tra i vari nuclei monumentali e residenziali e tra questi ed il parco era offerto da una lunga carrabile coperta, elemento caratteristico del giardino romano imperiale. L’inedita formulazione dell’associazione circo-palazzo proposta negli Horti Spei Veteris sarà ripresa più tardi nella Villa di Massenzio ed in seguito diventerà una costante dei palazzi imperiali tardo antichi, come testimoniato dai complessi palaziali di Antiochia, Milano, Tessalonica, Treviri e Costantinopoli.

Qui, secondo l’Historia Augusta, avvenne l’ammutinamento della guardia pretoriana, quando Eliogabalo ordinò l’assassinio di Alessandro Severo: ammutinamento che portò alla morte dell’imperatore.

Il palazzo, pur rimanendo di proprietà imperiale, fu trascurato nel III secolo, tanto che la sua struttura architettonica fu impattata dalle mura aureliane, che inglobarono l’Anfiteatro Castrense e il perimetro degli appartamenti privati dell’Imperatore e divisero a metà il circo variano.

Il tutto cambiò con Massenzio che decise di integrare in un unico complesso architettonico il palatium liciniani e lo spei veteris, lanciando una ristrutturazione globale dell’area, dando così origine al Sessorianum.

Nome dall’incerta origine: secondo alcuni proviene da “sedes” soggiorno, secondo altri dalle sfrenate attività sessuali degli imperatori, secondo altri ancora, deriverebbe da Sus sorianum, ovvero porco siriano, il soprannome dato ad Eliogabalo, nato in Siria, di cui Cassio Dione Cocceiano narrò

riservò una stanza nel palazzo e lì commetteva le sue indecenze, standosene sempre nudo sulla porta della camera, come fanno le prostitute, e scuotendo le tende che pendevano da anelli d’oro, mentre con voce dolce e melliflua sollecitava i passanti

Secondo ulteriori studiosi il nome deriva dal sessorium, un pupazzo su cui i gladiatori si allenavano nel vicino anfiteatro Castrense, oppure da consessus o palatium consessorianum, il luogo in cui si tenevano le riunioni plenarie, che dovrebbe coincidere con la nostra Santa Croce in Gerusalemme

Costantino, dopo la vittoria su Massenzio continuò i lavori, dando poi il palazzo in appannaggio alla madre Elena, che non voleva trasferirsi a Costantinopoli, la quale, oltre a commissionare una nuova decorazione dei padiglioni privati, simile a quella degli affreschi della domus faustae, ristrutturò le terme e trasformò una della aule di rappresentanza nell’Ecclesia Hierusalem , con una parte aperta al pubblico e una parte invece dedicata al culto privato della cappella imperiale.

Con la morte di Elena, il palazzo continuò a essere utilizzato: è probabile che vi abitasse Valentiniano III, che lo volle come sede del Sinodo convocato nel 433 da Sisto III, fosse sede del governatore ostrogoto, data che vi avvenne l’esecuzione di Odoino nel 500 e il concilio tenuto da papa Simmaco nel 510.

Con la conquista bizantina e il trasferimento della sede del dux nel Palatino, il palazzo fu però abbandonato: nella memoria collettiva rimase soltanto la valenza religiosa voluta da Elena

Mosaico della Caccia

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Oggi è arrivato il giorno fatale della visita di controllo… E udite, udite, si può dire come il tutto sia andato meglio del previsto. La rotula si è stabilizzata meglio di quanto ci si aspettasse, non c’è più dolore e l’edema è molto ridotto…

L’unico problema è che domani dovrò tornare al lavoro, con due gare sul groppone, che spero non complichi la logistica dei prossimi giorni: comunque, per festeggiare, un piccolo excursus su cosa ci fosse al posto di casa mia ai tempi dell’Esquilino, ossia gli Horti Liciniani, dal nome della gens di origine etrusca che li possedeva: gens che nel III secolo espresse due imperatori, Valeriano e Galerio, che ne approfittarono per arricchire questi giardini.

Li ampliarono comprando gli Horti Tauriani, vi realizzò una lussuosa residenza imperiale extraurbana, ricordata come Palatium Licinianum in documenti del IV e V secolo, da localizzarsi presso la chiesa di Santa Bibiana. Doveva trattarsi di un complesso di edifici che permetteva all’imperatore di ospitare l’intera corte e che comprendeva sale per banchetti e piscine; sembra strano, ma molte delle delle citazioni vengono da cronache, più o meno leggendari, del martirio di santi (act. S. Bibianae, cod. Vat. 6696: ad caput tauri iuxta palatium Licinianum ad formam Claudii; Mirabil. 27; 2 cf. LPD i. 249, vit. Simplic. I: fecit basilicam intra urbe Roma iuxta palatium Licinianum beatae martyris Bibianae ubi corpus eius requiescit; Passio SS. Fausti et Pigmenii, catal. codd. hagiogr. bibl. Paris. i. 522: in cubiculo Romano iuxta palatium Licinianum)

Tra l’altro, volendo imitare Nerone, nella zona sommitale degli horti Gallieno progettò di erigere una statua colossale raffigurante se stesso nelle vesti del Dio Sole invitto, ma l’opera non fu mai portata a termine… Una delle tante cose per cui dobbiamo ringraziare Aureliano

Di questo complesso non rimangono che il tempio di Minerva Medica, di cui nessuno ancora ben chiaro cosa fosse veramente, forse un triclinium hiermalis, e meno noto, il cosiddetto mosaico della caccia, conservato nel Museo della Centrale Montemartini.

Fu rinvenuto nel 1904, durante i lavori di costruzione del sottopassaggio ferroviario noto come “arco di Santa Bibiana” in ottimo stato di conservazione, ma è stato asportato solo per 3/5 della sua estensione perché il resto è rimasto sotto i binari ferroviari, che non potevano essere interrotti.

Il mosaico presenta tre scene di caccia: nelle prime due, sovrapposte ma senza alcuna preoccupazione prospettica, si vedono alcuni cacciatori a piedi, con indosso corte tuniche con sopra delle cappe e con calzari che proteggono la gamba sino al ginocchio; gli animali cacciati sono resi con grande efficacia visiva: si tratta di antilopi e gazzelle nella scena superiore e di orsi in quella inferiore; vengono descritti tutti i momenti della cattura, dalla battitura all’inseguimento alla cattura nelle gabbie, anche con l’ausilio di cani e di reti legate agli alberi, al fine di spingere gli animali nella direzione voluta.

La terza scena invece mostra un personaggio a cavallo, il cui abbigliamento ne denota il rango elevato, intento ad inseguire un cinghiale, verso il quale sta per scagliare la lancia la barba corta lo rende simile ai filosofi e ai sapienti. Riguardo alla sua identificazione, è sicuramente un vir clarissimus, membro della classe senatoria e che voleva apparire sia come intellettuale, sia come uomo d’azione: caratteristiche in cui si rispecchierebbe perfettamente lo stesso imperatore Gallieno, seguace del Neoplatonismo.

Altro punto in sospeso, è la collocazione del mosaico: inizialmente, si pensava fosse in un portico connesso a un peristilio, però, i confronti con decorazioni analoghe della tarda antichità, hanno fatto pensare a un un luogo aperto alla frequentazione del pubblico (un’aula di rappresentanza o un vestibolo) in cui l’imperatore concedeva udienza.

Basandosi su questo, alcuni archeologi hanno formulato un’ipotesi, reinterpretando quanto scritto nel Liber Pontificalis, sull’origine della chiesa di Santa Bibiana: in analogia a Santa Croce in Gerusalemme, sala delle udienze dell’Imperatore, questa doveva essere quella degli uffici del Prefectus Urbis che poi la leggende trasformò nella casa di Flaviano, padre di Bibiana.

Sala che papa Simplicio, in analogia con la basilica di Giunio Basso, trasformò in chiesa, continuando il processo di recupero all’ortodossia del rione eretico di Roma, incominciato una cinquantina d’anni prima da Papa Anastasio che nei giardini eresse il cimitero Ad Ursus Galeatum, da non confondere con quello delle catacombe di Ponziano, dal nome molto simile.

Tra l’altro, data la presenza nella zona del Vicus Orsi Pileati (che corrisponde con il tratto di via Bixio che incrocia via Giolitti), è possibile che la toponomastica della zona faccia riferimento al mosaico della caccia.

Cristianizzazione che poi proseguì, sempre riutilizzando gli ambienti del Palatium, con la costruzione della chiesa di San Paolo, poi distrutta nel Settecento nella ristrutturazione di Raguzzini

Basilica di Giunio Basso

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Ridendo e scherzando, siamo arrivati alla vigilia della visita di controllo per il ginocchio di Manu. Vedendo i progressi che ha fatto, mi sento ottimista, però, per scaramanzia, incrocio le dita: domani sapremo come andato il decorso e i prossimi passi…

Speriamo bene, perché da mercoledì torno a smadonnare al lavoro. E visto che la vita cerca di tornare alla normalità, a quanto pare a settembre si discuterà in I municipio della furia iconoclasta dei 5 stelle contro la Street Art di Mauro Sgarbi, mi limito a raccontare uno dei luoghi “dimenticati” dell’Esquilino, la Basilica di Giunio Annio Basso, dove oggi è il Seminario pontificio di studi orientali in via Napoleone III.

Giunio fu prefetto del pretorio per 13 anni, dal 318 al 331, quando tenne anche il consolato; diverse leggi contenute nel Codice teodosiano sono indirizzate a lui. Dato la spropositata ricchezza raccolta durante quegli anni, si può ipotizzare come forse, in termini di incorruttibilità, avesse poco da invidiare con i nostri politici della nostra Prima Repubblica.

E la Basilica, o meglio, una sale per udienze e ricevimenti, era la dimostrazione concreta di questa ricchezza, decorata in opus sectile, ossia utilizzando tarsie marmoree per rappresentare scene naturalistiche; dai disegni di Sangallo, abbiamo un’idea abbastanza chiara della sua decorazione.

La parte bassa era occupata da una zoccolatura che il Sangallo riempì di completamenti di fantasia, presumibilmente perché molto rovinata e quindi suscettibile di essere reinventata con l’estro dell’artista; seguiva la zona a specchiature separate da pilastri, in corrispondenza dei piedritti delle finestre. In ciascuna delle specchiature, divise verticalmente in tre sezioni, si potevano vedere motivi a pelta, un tipo di scudo a forma di crescente.

Sotto le finestre, più in alto, correva un fregio continuo di archetti pensili su mensole. Tra le finestre e sopra di esse, entro riquadri bordati da fasce con tripodi delfici, si trovavano poi altre due serie di pannelli figurati. Queste grandi scene erano contornate in basso da finti drappi, coi bordi ricamati e con scenette mitologiche, e in alto da lotte tra animali e centauri e immagini del processus consularis, il corteo con cui il neo nominato console prendeva il possesso della carica, poi seguita da una distribuzione di denaro alla plebe, che nella Roma Cristiana divenne la processione di presa di possesso da parte del Papa neo eletto della Basilica Lateranense.

Più in alto, infine, il Sangallo disegnava scene di corteggio ufficiale e mitologico e pannelli con gorgoneia, molto probabilmente frutto della sua interpolazione.

Di tutto questo ben di Dio, rimane ben poco: al museo romano di Palazzo Massimo alle Terme, una lastra con un “drappo” inferiore ornato da scene egittizzanti, un “vela Alexandrina” citato anche da Plinio e una scena principale del mito di Ila e le ninfe (il giovane amato da Ercole che recatosi a una fonte viene sedotto e rapito dalle ninfe). Poi una seconda lastra priva del velum, è quella del processus consularis di Giunio Basso, che è raffigurato su un cocchio, seguito da aurighi delle quattro fazioni circensi. E due lastre, in precedenza a Palazzo Del Drago e ora ai Musei Capitolini, che raffigurano simmetricamente due tigri che sbranano buoi.

Eppure, da questi frammenti, qualcosa riusciamo a capire… I motivi egittizzanti del drappo forse adombrano l’utilizzo di maestranze specializzate alessandrine e i temi rappresentati, oltre a esaltare la vanità di Giunio, ne evidenziato, con la simbologia della lotta tra ragione e passioni, il suo neoplatonismo.

Con il passare del tempo, la basilica e la relativa domus, per una serie di complesse vicende matrimoniali e di controverse eredità divenne proprietà del patrizio goto Valila: può sembrare strano, ma all’epoca la percentuali di “stranieri” dell’Esquilino era ben più alta dell’attuale. Essendo poi questi “extracomunitari” di origine germanica, vi è era anche il problema religioso, legato al fatto che fossero cristiani ariani, invece che ortodossi di obbedienza romana.

Per cui, molti degli sforzi della chiesa dell’epoca, erano finalizzati a ricondurre all’ovile queste pecorelle perdute: dato che Valila era un pezzo grosso della comunità ereticale, per celebrare la sua conversione, su suggerimento di papa Simplicio, decise di trasformare l’aula in una chiesa, dedicata a Sant’Andrea, che sarà nel Medioevo chiamata Sant’Andrea Catabarbara, la prima dedicata a tale Apostolo a Roma… Il che, visto che l’apostolo era il fratello di Pietro, aveva un valore simbolico molto importante.

Cosa tra l’altro abbastanza comune all’epoca: basti pensare a Santa Balbina o per rimanere all’Esquilino a San Marcellino, che dai recenti scavi archeologici pare sia derivato, nella sua fase iniziale da una sala di udienze decorata con marmi analoga a quella di Giunio Basso.

Così, se fu mantenuto l’impianto architettonico della sala delle udienze, tipico dell’architettura tardo antica, simile a Santa Bibiana e Santa Croce in Gerusalemme ( navata unica con un tetto a capriate lignee terminata un’ampia abside con volta a catino e con un atrio biabsidato, provvisto di un ingresso a trifora) Valila e Simplicio intervennero profondamente sulla decorazione.

Sovrapposero all’iscrizione originaria del catino absidale, dove Giunio Basso elencava il suo cursus honorum, una nuova, in cui si celebravano le virtù cristiane di Valila e contrapposero alla decorazione originale in opus sectile, rappresentante Junius Bassus, insieme con scene di un tripode apollineo e un’illustrazione del corpo esposto di Hylas rapito da due ninfe, un mosaico che influenzerà profondamente l’arte medievale romana.

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E’ uno dei primi esempi, poi ripreso in Santa Sabina e nella Basilica Lateranense, di composizione a a 7 figure con Cristo nimbato centrale, in piedi sul piccolo monte con i 4 fiumi simbolici, il braccio destro aperto in gesto oratorio, nella sinistra un rotolo. Intorno erano allineati 6 soli apostoli senza nimbo, con Pietro e Paolo nella posizione abituale. Il secondo apostolo di destra era frontale e benedicente con la barba e i capelli, bianchi o grigi, sempre arruffati potrebbe essere identificato come Sant’Andrea

Realizzato tra il 468 e il 483 dovrebbe essere poco successivo a quello fatto realizzare da Ricimero per Sant’Agata dei Goti, la chiesa ariana di Roma, a cui si contrapponeva, raffigurante Cristo sul globo, con il rotolo e la mano alzata, in mezzo ai dodici apostoli vestiti con il pallio e decorato con l’iscrizione

Fl. Ricimer. v. i. magister utriusque militiae patricius et excons. ord. pro voto suo adornavit

Tornando a Sant’Andrea,sotto Gregorio I, nei primi anni del Settimo Secolo, alla chiesa fu annesso un monastero, probabilmente fondazione della patrizia Barbara, figlia di Venanzio, amico del papa. Da questo, il popolino romano trasse fuori lo strano appellativo della chiesa All’inizio del XII secolo le finestre furono chiuse e le superfici ottenute furono decorate da un ciclo rappresentante le storie di Pietro e Paolo.La chiesa fu perduta completamente a seguito della demolizione avvenuta nel 1930 per la costruzione del Seminario Pontificio si Studi Orientali in Via Napoleone III.

Nella stessa occasione vennero alla luce i resti di una casa augustea con rifacimenti più tardi, nella quale furono trovati dei mosaici databili al III secolo: uno con soggetti dionisiaci e uno che riporta i nomi dei proprietari (Arippii e Ulpii Vibii). Oggi sono esposti nella sede del seminario

James S. A. Corey

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Ultima domenica di ferie, chiamiamole così, prima di tornare al lavoro: giornata tranquilla, con Manu abbastanza serena, in attesa di cosa ci diranno martedì, ma siamo ottimisti. Io passo il mio tempo anticipandomi il lavoro della prossima settimana, in modo da potermi dedicare più alla moglie e cucinando. Oggi ho improvvisato un finto ragù con speck e funghi e stasera mi dedicherò alle scaloppine.

E nel frattempo, butto giù qualche piccola riflessione su James S. A. Corey, o meglio la premiata ditta Daniel Abraham, che di solito scrive fantasy, e Ty Franck, l’assistente di George R.R. Martin e quindi complice di quel casino colossale che ormai sono diventate Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, i cui libri mi hanno tenuto compagnia in queste settimane.

Ora, sono un lettore e scrittore dai pensieri semplici: non considero la fantascienza come contorta narrativa d’avanguardia, ma letteratura pop, che per prima cosa deve divertire il lettore. E il duo, utilizza tutti gli strumenti del mestiere: per prima cosa, un’ambientazione accurata, coerente e sensata, che è qualcosa di diverso dal realistica, nata come scenario di un gioco ruolo, che cita, fonde e attualizza tanti spunti della fantascienza precedente.

Ma d’altra parte, la scrittura è come la cucina, non si butta mai nulla e se qualcuno ha avuto un’idea che funziona, è da scemi non farla propria. Poi, personaggi magari stereotipati, a volte privi di sottogliezza, ma che rimangone nella mente.

Infine storie, tratte dalla tradizione dell’hard boiled, che reggono bene, nonostante l’ipertrofia delle pagine, vizio, come il cambiare narratore a seconda del capitolo, ripreso da Martin, e che fanno digerire, grazie alla sospensione dell’incredilità, anche banali trucchetti da vecchi telefilm.

Insomma, non capolavori, ma libri divertenti e leggibili, migrabili con somma facilità in altri media… Insomma ciò che in parte manca nella fantascienza italiana..

Dibattito sulla Groenlandia

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Secondo giorno di convalescenza romana di Manu: la paziente brontola un poco, e a ragione, dato che si è stufata della fasciatura rigida, ma sembra migliorare sempre di più. Io mi sono portato avanti con il mio lavoro, anche sto perdendo la battaglia con un documento tecnico in inglese e prendo atto del piccolo dibattito scatenato dal post relativo ai vichinghi in Groenlandia.

Il primo tema riguarda la loro religione. al tempo della colonizzazione: benché sospetto che Jared Diamond abbia usato “cattolicesimo” solo perché “cristianesimo medievale di obbedienza romana” era troppo lungo e complicato da scrivere nel suo saggio, è interessante comprendere come la Groenlandia sia un perfetto esempio dei mutamenti culturali del mondo vichingo intorno all’anno Mille. Eric il Rosso, discendente di Naddoddr, uno dei primi coloni delle Fae Oer e scopritore dell’Islanda, era un convinto pagano e rispettava in pieno l’etica e la cultura guerriera dei suoi antenati.

Fu infatti esiliato dalla Norvegia per aver commesso un omicidio aiutato dal padre Thorvald, e dovette fuggire in Islanda. Qui si stabilì sulla costa occidentale, ma dopo poco tempo, intorno al 982 fu esiliato per tre anni dall’isola per un ennesimo omicidio, stavolta in una rissa.

Non sapendo dove andare, tenne alta la tradizione di famiglia, prese una nave, partendo alla ricerca delle isole che i pescatori islandesi dicevano si trovassero a nord-ovest. Nel 985 approdò sulla costa meridionale della Groenlandia e terminato il bando, convinse una parte della popolazione islandese a migrarvi, visto che vi era terra disponibile e buoni pascoli. E’ probabile che la maggior parte di questo coloni fossero pagani come Erik.

Suo figlio Leif Erikson, invece, se ne andò in Norvegia, per entrare al servizio del re Olaf I Tryggvason, il quale dopo una vita alquanto avventurosa, aveva deciso di cristianizzare la Norvegia, per motivi forse politici che religiosi: l’Europa nell’Europa dell’anno 1000,quasi completamente cristianizzata forniva solide e potenti amicizie e ricchezze e tendeva invece a relegare ai margini della società i barbari pagani.

Leif, diventato il capo della comunità groenlandese, fondando chiese, chiedendo preti, convertendo i coloni e organizzando la raccolta delle decime, non fece nulla più che replicare la politica di Olaf: avvicinare la nuova colonia all’Europa e ai suo commerci e costruire una forte identità condivisa.

E in parallelo, cercò di mantenere la tradizione di famiglia delle esplorazioni: partendo dalle racconti di Bjarni Herjólfsson, che sbagliando rotta nel cercare di migrare in Groenlandia, aveva avvistato le coste del Labrador e di Terranova, si imbarcò per scoprire Helluland, l’isola di Baffin,terra delle pietre piatte, Markland, il nostro Labrador e Vinland, forse Terranova o territori ancora più a Sud: e anche se il tentativo di colonizzazione fallì, forse più per le diatribe tra coloni che per l’opposizione dei locali, diede il la ai commerci tra Groenlandia e Nord America.

Commerci che forse diedero origine alla leggenda algonchina del Regno di Saguenay, situato nel grande Nord, suoi abitanti erano biondi, ricchi di oro e di pellicce.

Il secondo tema, è l’approccio eurocentrico che abbiamo sulla storia groenlandese: Diamond e altri studiosi si concentrano sulla vicenda dei colono vichinghi, quando invece di culture aborigene collassate per la variabilità delle condizioni climatiche, ve ne sono a iosa.

Dal 2500 a.C. al 1000 a.C. anche se le date variano a seconda degli studiosi, in Groenlandia vi erano due diverse culture: a Nord, la cosiddetta Indipendenza I, probabilmente costituita da Paleo Inuit, e a Sud nella zona dei futuri stanziamenti vichinghi, la Saqqaq, che da pochi anni, grazie alla genetica, siamo riusciti a capire che era associata a popolazioni di origine siberiana: la diminuzione delle temperature portò all’evoluzione della Indipendenza I, che con molta fantasia, divenne una nuova cultura chiamata Indipendenza II, i Proto Inuit, e la scomparsa della Saqqaq, sostuita dalla cultura Dorset, che basarono la loro economia sulla caccia dei mammiferi marini.

A differenza delle precedenti culture, non conoscevano infatti le slitte trainate da cani, le imbarcazioni sofisticate, gli arpioni basculanti e l’arco, ma avevano arpioni molto più efficaci di quelli costruiti dagli attuali Inuit e usavano a steatite nella fabbricazione di lampade da utilizzare durante il lungo periodo di buio stagionale, che utilizzavano come combustibile il grasso di foca.

Con il progressivo aumento della temperatura, se gli Inuit di Indipendenza II, fecero come i Vichinghi, ossia migrarono dalla Groenlandia verso il Canada, dove svilupparono la cultura Thule, i Tinuit, i popoli Dorset, migrarno sempre più a Nord, dove si ridussero al limite della sussistenza: si stima che intorno al 1200 ce ne fossero meno di 1000.

Nel 1250, quando terminò l’optimum climatico medievale, i Tinuit, invece di recuperare terreno, finirono schiacciati tra i Vichinghi, che predavano con maggior sussistenza le loro tradizionali fonti alimentari e la pressione migratoria degli Inuit, che sfruttavano con maggiore efficienza le risorse groenlandesi… Così, in poco generazioni, si estinsero…. Però, a quanto pare, non sono così affascinanti da colpire l’immaginazione di qualche studioso di antropologia..

Vichinghi in Groenlandia

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Come mi ha scritto un caro amico, l’aria di casa è un toccasana per tante cose: Manu si è ripresa con rapidità dallo sballottamento del viaggio e ogni tanto la vedo saltellare come un grillo per casa.

Però lontano da Palermo, mi ritrovo un poco in difficoltà su cosa scrivere, anche perchè, causa vacanze, la polemica sulla street art all’Esquilino si è un poco assopita… Per cui, riprendo un vecchio tema, la riflessione storica di Jared Diamond, grande intellettuale, che ha riproposto un sorta di marxismo 2.0, deproblematizzato e che utilizza l’analisi del Passato, non per proporre una visione della società, ma per denunciare i problemi del Presente.

Denuncia che riflette però tutta la problematicità dell’intellettuale marxista, condannato a interpretare la Struttura secondo la categorie della Sovrastruttura di cui è parte: in particolare, per Diamond la preoccupazione per il possibile collasso ecologico della società post industriale

E questa preoccupazione, è vista come filo conduttore del suo libro Collasso, in cui individua cinque fattori chiave che stanno all’origine del crollo di una civiltà: capacità delle società di gestire le risorse necessarie (acqua, suolo, foreste, fauna ittica, biodiversità), cambiamento climatico (dipendente ma anche no, dall’azione umana), rapporti con le popolazioni limitrofe (conflitti ma anche relazioni commerciali), capacità culturale e politica di affrontare e risolvere i problemi (“che cosa ha pensato il polinesiano che ha tagliato l’ultimo albero dell’isola di Pasqua?”).

E come esempio in negativo della sua tesi cita i vichingi in Groenladia, incapaci di adattare la propria cultura – in questo caso cattolica europea – alle diverse condizioni ambientali, condannandosi così all’estinzione.

Il problema è che la Struttura, tramite i dati provenienti dall’archeologia, sembra dire una cosa ben differente. Ora, come fosse la Groenlandia ai tempi di Erik il Rosso, è diventato una sorta di casus belli tra i sostenitori e i negazionisti dell’effetto antropico sul riscaldamento globale: i primi dicono che il buon Erik abbia mentito spudoratemente, è che la Groenlandia dell’anno 1000 facesse schifo quanto adesso. I secondi, invece la paragonano a una sorta di paradiso in terra, piena di alberi.

L’archeologia da torto a entrambi: dalle caratteristiche della fattorie e dei pascoli ritrovati, che permettevano l’allevamento di pecore e mucche, probabilmente il clima dell’epoca doveva essere analogo a quello delle Fae Oer, ossia con una temperatura media di un grado, un grado e mezzo superiore all’attuale.

Quando l’optimum climatico medievale passò, i vichinghi cambiarono il loro modo di vivere: smisero di allevare bovini e maiali, per passare prima alle pecore, poi, quando il freddo cominciò ad aumentare, alle capre, che riescono a mangiare qualsiasi cosa. Tentarono di allevare i caribù, con scarso esito, e cominciarono a mangiare le foche.

Poi, si inventarono una fonte di introiti, diventando fornitori di due beni di lusso per i nobili dell’Europa dell’epoca: l’avorio e le pellicce. Sul primo, la fonte era abbastanza immediata: la caccia al tricheco, che era anche una fonte di proteine. La seconda, invece, è molto più problematica: alcuni indizi, però fanno pensare che Markland e il Vinland, il Nord America, non sia stato dimenticato, ma che sia stato oggetto di spedizioni periodiche, per recuperare legno e le pellicce, con la caccia o forse con il commercio muto. Tra le prove di viaggi continuativi vi è il Maine penny, una moneta norvegese risalente al regno di re Olaf Kyrre (1067–1093) che si dice sia stata rinvenuta in un sito archeologico di nativi americani nel Maine, il che fa ipotizzare scambi culturali tra norreni e nativi anche dopo l’XI secolo; ed una citazione degli Annali d’Islanda del 1347 che fa riferimento ad un piccolo vascello groenlandese con una ciurma di 18 uomini che giunse in Islanda tentando di tornare in Groenlandia da Markland con un carico di legna.

Quindi, nonostante il gelo, che rendeva sempre più difficile il commercio con l’Europa e le spedizioni in Vinland e l’arrivo degli Inuit, con cui si litigava dalla mattina alla sera, perché i territori di caccia al tricheco coincidevano con quelli eschimesi di caccia alla balena, si andava avanti dignitosamente. Il problema fu quando, sia per la Peste Nera, che fece collassare il mercato dei beni di lusso, sia per l’apertura di nuove rotte commerciali, che inondarono l’Europa di avorio di elefante e di pellicce russe, queste fonti di reddito entrarono in profonda crisi. Riprova di questa recessione è la decisione papale del 1345, che esentò i groenlandesi dal pagare la decima ecclesiastica.

I vichinghi, come sempre tentarono di adattarsi, cercando di trasformarsi in pescatori di merluzzi e di aringhe e cacciatori di balene: ma entrambe i due mercati erano strasaturi, pieni di concorrenti pù capaci e radicati: così, dopo parecchi tentennamenti, per non ridursi alla fame, presero armi e bagagli e se ne tornarono in Europa, dopo il 1420, perchè il geografo Clavius, nel suo viaggio in Groenlandia, deve avere incrociato qualcuno, perchè i nomi che cita nella sua mappa fanno riferimento alle saghe e tradizioni locali.

Per cui, i groenlandesi, più che vittime della loro incapacità di adattarsi, furono tra i primi martiri della globalizzazione dei commerci…

Diario Palermitano- Ultimo Giorno

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Ultimo giorno del diario palermitano: siamo tornati a casa, Manu si è un poco stancata del viaggio, anche perché, a causa di un volo strapieno, la Ryanair non ha potuto supportarla al meglio. In compenso, debbo elogiare l’organizzazione del servizio di assistenza dell’Aeroporto di Palermo, encomiabile per la sua qualità.

Ora ci sono quattro giorni per recuperare la fatica del viaggio, in attesa cosa ci diranno alla visita di controllo: io da parte mia, sono abbastanza ottimista.

Per cui, per concludere il mio diario palermitano, se Dio vorrà lo riprenderò sotto Natale, se nelle prime puntate ho parlato di un Principe Mago, ora per concludere parlerò di un Principe Santo, che al di là delle proprie convinzione religiose, è da ammirare, perché diede tutti i suoi beni ai poveri, Francesco Paolo Gravina.

Per fare questo, facciamo due passi nel Kalsa, dall’arabo “al-Halisah” cioè l’eletta, dove vi era il Palazzo degli Emiri di Balarm. Tra via IV Aprile, via Alloro e vicolo Palagonia all’Alloro si trova il medievale palazzo Palagonia, dove Francesco principe di Palagonia e di Lercara Friddi, nacque nel 1800.

Palazzo, in cui fu ospite anche Nelson, Gravina. Sopravvissuto ai bombardamenti della primavera/estate del 1943 e ad un destino di demolizione previsto dal piano regolatore del ’68, in cui Francesco, nonostante i parenti bigotti, si comportava come un normale nobile palermitano, con le giornate dedicate alla bisboccia e alla nobile arte di far niente. Finchè, innamorato della principessa Nicoletta Filangeri e Pignatelli, figlia del principe di Cutò, la sposò il il 14 marzo del 1819. Però, poco tempo dopo, la principessa si invaghì di un giovanissimo vicino di casa, Francesco Paolo Notarbartolo e Vanni, principe di Sciara. Tra i due iniziò una relazione clandestina nel palazzo dei Notarbartolo, a pochi metri da quello dei Palagonia. La passione diventava sempre più travolgente, tanto che Nicoletta iniziò ad andare a trovare il suo amante anche di notte, ritornando a casa all’alba.

Invece di far fare alla moglie la fine della Baronessa di Carini, il principe cercò di tollerare e di riconciliarsi con la moglie finché, un giorno, le fece trovare il portone sbarrato e un servo in livrea che, a nome suo, la invita “a tornarsene da dove era venuta”.

Dopo questo episodio, Francesco si rintanò in casa, per uscirne dopo un anno: una persona normale, forse, si sarebbe dedicato alla pazza gioia, ma lui, scelse una strada differente. Va nei luoghi più disgraziati di Palermo, con borse piene di monete d’oro che regala ai poveri, dispensando alimenti e trasforma Palazzo Palagonia, in una sede di un ente benefico, destinato all’accoglienza dei senzatetto.

chiesa santa maria della pieta

Quattro passi e arriviamo al trionfo barocco di Santa Maria della Pietà, da cui parte ogni anno la processione dell’Immacolata, dove si trova la lapide che ricorda il battesimo di Francesco e la chiesa della Gancia, dal latino ganea, luogo solitario e isolato, fondata come ospizio e come ricovero per pellegrini, dall’Ordine dei Frati Minori Francescani arrivati in Sicilia intorno al 1212 e in cui pochi lo sanno, venivano seppelliti gli inquisitori spagnoli, tra cui Don Juan Lopez de Cisneros ucciso nelle segrete dello Steri “dall’eretico” frà Diego la Matina nel 1657, la cui vicenda è stata raccontata da Leonardo Sciascia nel suo libretto “Morte dell’Inquisitore”.

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Chiesa dove Francesco andava sempre a pregare e che è legata a un fatto drammatico: l’uccisione, il 4 aprile 1860, di quasi tutti i rivoltosi che stavano preparando una insurrezione antiborbonica con le armi nascoste nel convento.

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Si salvarono solo i due capi rivolta, Gaspare Bivona e Filippo Patti, nascosti per giorni al buio tra i cadaveri della Cripta. Come si legge nella lapide che riporta la data del 9 aprile 1860, i due riuscirono a fare un buco nel muro ed a comunicare con una popolana. La donna organizzò un piano per distogliere le guardie dalla Chiesa: simulando una rissa tutta al femminile creò un tale caos che i due capi rivolta riuscirono a fuggire tramite la Buca della Salvezza.

CHIESA-DELLO-SPASIMO-PALERMO

Più avanti, sempre nella Kalsa, vi è lo Spasimo, una volta sede del Brass Group, un’eccelsa scuola di jazz. Una chiesa che nel 1518 fu arricchita da un capolavoro di Raffaello, l’andata al Calvario o Spasimo di Sicilia, in cui si reinterpretano la Piccola e la Grande Passione di Dürer e che nel 1582 la chiesa venne adibita a sede di spettacoli pubblici, una specie di primo esempio di “teatro stabile” in Italia; successivamente un’epidemia di peste ne rese necessario l’utilizzo come lazzaretto per gli ammalati. Terminata l’epidemia, gli ambienti furono adibiti a granaio e a magazzino. A metà del settecento crollò la volta della navata centrale della chiesa, che non verrà mai più ricostruita.

Quando Francesco fu eletto pretore, ossia sindaco di Palermo, tentò di trasformare il tutto nell’equivalente del nostro San Michele a Ripa: il Deposito di Mendicità, un’opificio comunale in cui i poveri potessero trovare lavoro e formazione professionale.

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Usciti dalla Kalsa,ci rechiamo a corso Catalafimi, all’Albergo delle Povere, fondato nel Settecento da un antenato di Francesco e ampliato da Carlo di Borbone, che voleva replicare a Palermo quanto realizzato a Napoli dal Fuga, ossia un luogo in cui potessero essere accolti poveri inabili, storpi, giovani vagabonde ed orfane e potessero essere impiegate per tessitura di capi in tela ed in seta, che servivano al confezionamento di tende ed abiti per i palermitani. Tra l’altro, forse mio nonno sarà stato ospite qualche volta del rifugio antiaereo costruito sotto quel palazzo…

Comunque sia, durante la grande epidemia del colera, che fece 27.000 morti a Palermo, Francesco divenne amministratore dell’Albergo delle Povere, gestendo per come poteva l’emergenza sanitaria e mantenendo di tasca sua più di 1000 poveri.

Palatine Chapel, Palermo

Più avanti, Palazzo Reale, dove nella Cappella Palatina, accanto ai mosaici bizantini e i pavimenti cosmateschi, vi è il soffitto, un capolavoro dell’arte fatimide, in cui nelle muqarnas dei cassoni lignei, dipinte con immagini rare e iscrizioni cufiche, presentano ornamenti fitoformi e zoomorfi, uccelli, animali fantastici e mitologici e figure umane, impegnate scene di caccia, di guerra e d’amore, suonatori, danzatori e danzatrici del ventre, giocatori di scacchi.

E qui in occasione dellaa rivoluzione antiborbonica del ’48, Francesco si schierrò all’interno del parlamento siciliano (era membro della camera dei pari) in favore dell’indipendenza dell’isola. I Borboni ritorneranno nel ’49, ma lui per intima coerenza non farà abiura di quell’atto, a differenza di molti altri opportunisti, il che gli alienò le simpatie della corona.

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Un piccolo sguardo alla chiesa di Baida, dove fu sepolto nella nuda terra e un salto a Bagheria, dove un suo antenato, folle in modo differente, fece costruire la villa estiva della famiglia Palagonia, considerata dai viaggiatori Settecenteschi uno dei luogo più originali al mondo. Goethe ne rimase talmente impressionato da descrivere alcuni mostri della villa nella “Notte di Valpurga” del Faust. All’ingresso si legge: “Specchiati in quei cristalli e nell’istessa magnificenza singolar contempla di fralezza mortal l’immago espressa” riferendosi agli specchi che rovesciavano con un particolare gioco di sovrapposizioni, l’intera volta del soffitto, oltre che i lati nelle più complesse disposizioni.

Una villa che, con le sue statue, rappresenta una metafora potente delle varie fasi dell’opera alchemica, con il passaggio dal dominio della materia a quello dello spirito: cosa che Francesco fece semplicemente vivendo

Diario Palermitano – Penultimo giorno

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Penultima puntata del mio diario palermitano: domani pomeriggio si torna a Roma, sperando che il viaggio con la Ryan Air non sia troppo stressante per il ginocchio di Manu. Però, mi conforta come i miglioramenti diventino ogni giorno più sensibili… Insomma, incrocio le dita per il 29, quando farà la visita di controllo…

Per cui, prima di congedarmi, parlerò di un luogo di Palermo che mio nonno Otello amava molto: la chiesa di San Giovanni degli eremiti. Un luogo che è forse la sintesi perfetta della storia di Palermo.

Sorge su una fonte sotterranea e una grotta, che parecchi indizi fanno associare a un luogo di culto fenicio, data anche la vicinanza al fiume Kemonia, ora interrato, benché ogni tanto, quando le piogge sono eccessive, fa di nuovo capolino.

Nel 581 d.C. fu trasformato da San Gregorio Magno in un monastero benedettino, il primo in Sicilia, dedicato a Sant’Ermete, in cui vestì l’abito monastico papa Agatone, che se dovessimo dare retta al liber pontificalis, dovrebbe essere il più anziano ad essere eletto a tale carica: si narra si narra che al momento della sua elezione avesse centotré anni, e centosei al momento della morte.

Nonostante la sua veneranda età, si dedicò con energia a lottare contro l’eresia monotelica: fatto santo, anche se pochi ne se ricordano, in teoria dovrebbe essere uno dei copatroni di Palemo

Con la conquista araba di Panormus, il monastero fu trasformato parte in moschea, riutilizzando la chiesa, parte in ribat: proprio il suo essere sede di ghazi, combattenti per la fede, lo rese una continua fonte di problemi per gli emiri, visto che parecchie delle rivolte di Balarm ebbero origine in questo luogo.

Con la conquista normanna, re Ruggero decide di rifondare il monastero, dedicandolo non più a Sant’Ermete, martire romano di cui poco si sa, tranne che fu sepolto nella catacomba di Bassilla sulla Salaria vetus, ma al più noto San Giovanni Evangelista.

La vicinanza del monastero con la residenza regia ne fece subito luogo privilegiato, destinato anche alla sepoltura degli alti dignitari della corte normanna: il suo abate, che era anche il confessore privato del re, godeva del titolo di primo cappellano della cappella reale e di numerosi privilegi. Dopo un lungo periodo di abbandono, nel 1464 il complesso monastico (ormai privo di religiosi) fu assegnato da papa Paolo II, su suggerimento del cardinale Giovan Nicolò Ursino, ai monaci benedettini di San Martino delle Scale e poi, nel 1524 per volontà dell’imperatore Carlo V, fu concesso come “Gancìa” (ospizio) ai monaci benedettini di Monreale e all’arcivescovo di quella diocesi per la propria abitazione. In questa occasione l’intero complesso venne profondamente trasformato.

Alla fine dell’800, l’architetto Giuseppe Patricolo, con parecchia fantasia, specie per la storia delle cupole rosse realizzò un esteso intervento di “liberazione” nel tentativo di restituire il complesso all’originario splendore, demolendo gli ampliamenti cinquecenteschi e creando lo strardinario giardino: in ogni caso, il risultato fu di intensa poesia.

Per citare F. Elliot, Diary of an Idle Woman in Sicily

Una chiesa normanna vicino al palazzo reale e alla Porta di Castro… riparata in un incavo, è del tutto orientale, e con le sue cinque cupole starebbe benissimo a Baghdad o a Damasco. Accanto, il campanile gotico a quattro ordini di logge è sormontato da un’altra cupola, singolare adattamento di costruzione araba ad un costume cristiano. La pianta della chiesa è a croce latina con tre absidi, la navata è divisa in tre campate ognuna delle quali è sormontata da una cupola con pennacchi, necessari perché la torre su cui poggiano è quadrata, le pareti sono in pietra intagliata come spesso se ne vedono nei monumenti arabi senza decorazione alcuna e l’insieme è illuminato da finestre ad arco acuto

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Ed è bello perdersi nella chiesa, che amplia e fonde la tradizionale architettura delle cube bizantine siciliane con le moschee fatimidi, con la purezza delle sue linee, in cui solo l’ombra e la luce costruiscono lo spazio, fondendo il quadrato, che rappresenta la terra, al cerchio, che rappresenta il cielo.

O meditare nel suo chiostro, con l’agile fuga di colonnine binate (simili a quelle del chiostro di Monreale) e le arcate gotiche a sesto acuto. Mi chiedo spesso cosa passasse nelle mente di mio nonno, quando vi trascorreva i pomeriggi, nei giorni della guerra. O perché, non degnasse di uno sguardo il vicino oratorio di San Mercurio, anche se sospetto che all’epoca fosse chiuso.

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Una delle prime opere del Serpotta, con la purezza del bianco e la turba di putti che giocano, litigano e si arrampicano sulle finestre borrominiane, la cui luce risplende sullo splendido pavimento di maioliche, realizzato tra il 1714 e il 1715 da Sebastiano Gurrello e Maurizio Vagolotta su disegno del sacerdote Giulio De Pasquale, uno dei pochi rimasti integri a Palermo…

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