Non so oggi, ma ai miei tempi, quando i professori di letteratura italiana, in terzo liceo, attaccavano a parlare delle origini e della Scuola Siciliana, la raccontavano pressappoco così:
“Dunque, insomma, c’era Federico II, con tutti i suoi cortigiani, che si misero a imitare i trovatori in lingua d’oc, ma non era cosa loro… Poi sono arrivati i toscani”.
Sintesi scarna, che ha il difetto di nascondere agli studenti un mondo di scambi culturali e interazioni tra mondi diversi, che permetterebbe di guardare con occhi diversi il Medioevo. Così, provo a raccontare questa storia, partendo dal lavoro di Samuel Miklos Stern, orientalista che si accorse come alcune poesie di Al Andalus, avevano i versi finali che pure essendo scritte con caratteri arabi, corrispondevano a parole spagnole arcaiche, o meglio mozarabiche.
Così, sì arrivò a ipotizzare come i cristiani spagnoli che vivevano sotto l’emirato di Cordova, oltre a sviluppare una loro lingua e una loro liturgia, avevano anche una loro poesia popolare, dipendente da quella tardo latina, caratterizzata da versi molto brevi e che su ispirazione delle composizioni in versi arabe, utilizzava la rima.
Questa poesia, fu di ispirazione, secondo la testimonianza dello scrittore arabo-ispanico Ibn Bassam di Santarem, al poeta Muhammad ibn Mahmud, che alla fine del IX secolo, presso la corte di Cordova, inventò dal nulla un nuovo genere poetico: la muwassah. Pur mantenendo i temi classici del Nasib, poesia amorosa incentrata sull’assenza dell’amata, introduceva due grosse novità, forse dipendenti dalla lirica mozarabica.
L’uso di versi brevi e non rispondenti a quelli della tradizione poetica araba e la divisione in strofe del componimento: l’ultima di queste era l’harga, i versi in lingua mozarabica, che fungevano da contrappunto al contenuto procedente della poesia. Come in una villanella, ad esempio, poteva per esempio descrivere le parole dell’amata, che deridevano il tentativo di corteggiamento del poeta.
In poco poco più di un secolo, la muwassah divenne la forma poetica prediletta delle classi colte di Al Andulus, arabe, ebree e forse, dato che mancano prove testuali, cristiane. Intorno all’anno 1000, si compì un avvenimento fondamentale per la storia della letteratura europea: qualcuno tradusse le muwassah dal mozarabico al protocatalano. Ora, non si ha la più pallida idea di chi sia tale o tali traduttori, però qualche ipotesi potremmo farla.
Data la mancanza di prove testuali nei codici dell’epoca, non doveva appartenere all’ambito ecclesiastico. Doveva vivere in un’area di frontiere tra Al Andalus e la Contea di Barcellona e frequentare l’alta società di entrambi gli stati. Nei successivi cinquanta o sessant’anni, avvennero due fenomeni significativi: da una parte alle poesie di origine araba si sovrapposero le suggestioni provenienti dalla poesia medievale in latino, arricchendo la versificazione e sovrapponendogli diversi artifici della retorici, dall’altra cominciò, sfruttando anche la contiguità linguistica tra catalano e occitanico, cominciarono a migrare verso nord, finché non capitarono all’attenzione di Guglielmo d’Aquitania, che, anche per la sua partecipazione alla Prima Crociata, una conoscenza di massima della cultura araba doveva averla..
Guglielmo, essendo anche poeta, riprese la muwassah, che divenne la base dell’ideologia dell’amor cortese e la base del movimento trobadorico. Quando alla corte Svevo Normanna giunsero le composizione dei poeti in lingua d’oc, sia per i loro rapporti continui con il mondo arabo, sia per la tradizione locale, fu facile accorgersi della loro. Così i poeti locali, a cominciare da Jacopo da Lentini, decisero di compiere altre due operazioni determinanti per la lirica italiana e occidentale.
Ispirati dalla poesia araba della tradizione locale, che prediligeva i versi lunghi, normalizzarono la metrica trobadorica, un miscuglio di quella proveniente dalla muwassah e quella tardo latina, creando i versi lunghi italiani, settenario, ottonario e endecasillabo ( forse gli equivalenti ritmici del tawil, del munsarih e del mutaqarib), strutturarono le strofe delle canzoni e del sonetto e introdussero l’allitterazione e rime regolari.
Struttura ritmica che divenne la base della lirica toscana, benché i copisti di Firenze e dintorni, nella traduzione dal siciliano di corte al volgare locale, abbiano compiuto una serie di tradimenti del testo originale. Non solo vennero toscanizzate certe parole più aderenti al latino nel testo originale (cfr. gloria > ghiora in Jacopo da Lentini), ma per esigenze fonetiche il vocalismo siciliano fu adattato a quello del volgare toscano. Mentre il siciliano ha cinque vocali (discendenti dal latino nordafricano: i, è, a, o, u), il toscano ne ha sette (i, é, è, a, ò, ó, u). Il copista trascrisse la u > o e la i > e, quando la corrispondente parola toscana comportava tale variazione. Alla lettura, quindi le rime risultarono imperfette (o chiusa rimava con u, e chiusa con i, mentre anche quando la traduzione permetteva la presenza delle stesse vocali, poteva accadere che una diventava aperta, l’altra chiusa) e il ritmo del verso zoppicante.
Così, i poeti successivi, a cominciare da Guittone d’Arezzo, intervenendo e sperimentando su ritmo e rima, contribuirono a nascondere le complesse e mediterranee origini della lirica italiana…