Chiacchierando sul Tucci

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Nelle chiacchiere da bar sport che in questi giorni si sono scatenate sul destino del Museo Tucci, alcune preoccupazioni emerse sono di indubbio valore: si va dal sospetto che il trasloco all’Eur possa essere causa di un danno erariale, al timore che la nuova sede espositiva non risolva, anzi peggiori i problemi di quella vecchia, essendo inadatta per un allestimento moderno o incapace di attrarre nuovi visitatori, la preoccupazione per i tempi di chiusura o il dubbio che il modello “isola dei musei” possa, a differenza di altre capitali europei, essere adatto anche a Roma.

Poi, ovviamente, come sempre accade in questi casi, vi sono perle di sublime stupidità: mi limito a citarne un paio, entrambe sparate da un paio di presunti intellettuali esquilini. La prima è

“Con il Tucci chiude l’unico museo d’arte orientale d’Italia”

che fa sorridere per la sesquipedale ignoranza. In Italia e potrei sbagliarmi, perché qualcuno potrebbe sfuggirmi, ne esistono almeno quattro. L’ Edoardo Chiossone di Genova, la cui collezione surclassa di gran lunga quella del museo esquilino, il MAO di Torino, dallo splendido allestimento, il MAO di Venezia, alla Ca’ Pesaro, che è tutto dire e il Civico di Trieste, il più piccolo tra i quattro.

Se volessimo classificarli per visitatori, nel 2016, ma i dati, secondo me, provenienti da fonti diverse, sono poco attendibili, avremmo

Tucci 14211

Civico 17849

Chiossone 22317

Venezia 96136

Torino 105323

Il che introduce la seconda perla

“I musei non sono baracconi da lunapark, non si possono valutare per il numero di visitatori”.

Certo, i musei non sono macchine per generare incassi, ma neppure gabinetti privati per la contemplazione dell’Arte. Sono strumenti per la rievocazione e riattivazione della memoria, come stimolo per indagare e comprendere sia passato che presente, per riattualizzare e trasformare in eredità vivente il patrimonio culturale.

Ossia in poche parole, stimolano e diffondono idee

Le idee sono democratiche, non gli importa se sei colto o ignorante, un artistoide fallito o un filosofo e hanno la strana dote, una sorta di legge di Metcalfe intellettuale, che più si diffondono, più acquistano valore, che consiste nella loro capacità di cambiare il mondo.

Un museo che non ha visitatore, non crea e diffonde idee, autoreferente e chiuso al mondo, ha fallito nel suo compito.

E il Tucci è stato un fallimento. Il problema è che la cura proposta potrebbe anche essere  peggiore del male..

San Polieucto

Capitello

La basilica di San Polieucto era un’antica chiesa di Costantinopoli, eretta inizialmente da Eudocia, moglie di Teodosio II, santa e pessima poetessa, per custodire il cranio dell’omonimo martire, soldato della XII Legio Fulminata stanziata a Melitene, in Armenia, ucciso sotto l’imperatore Decio (249-251) attorno al 250, sia per la sua fede cristiana, sia per la sua opposizione alle complesse regole della burocrazia imperiale: si narra infatti che all’ennesimo modulo da compilare in triplice per ottenere il libellus, certificato che attestava il rispetto degli antichi culti e quindi la fedeltà a Roma, abbia
cominciato a insultare e fare gestacci ai funzionari preposti.

Essendo Eudocia, nonostante la sua spropositata ricchezza, anche alquanto tirchia e avendo quindi lesinato sui materiali e sulla manodopera, la chiesa crollò in poco tempo: così la nipote Anicia, figlia dell’inutile imperatore d’Occidente Olibrio, decise di ricostruirla.

Il motivo era semplice: Anicia, come discendente di Teodosio, riteneva che il marito Areobindo meritasse la porpora imperiale: il fatto che lui non fosse d’accordo, quando nel 512, la plebe di Costantinopoli, in rivolta contro la politica religiosa e le tasse di Anastasio I, lo andò a prendere a casa per incoronarlo,  lui si diede alla macchia, per non avere rogne, era un particolare insignificante.

Ambizione sempre frustrata: così, quando Anastasio nominò Giustino, un soldato tanto valoroso, quanto ignorante,  Anicia la prese sul personale: per cui divenne lo scopo primario della sua vita dimostrare come la famiglia imperiale fosse costituita da caproni privi del minimo buon gusto, cosa che, tra l’altro provocò numerosi mal di testa e complessi di inferiorità al povero Giustiniano.

Quando lui costruì la chiesa di San Sergio e Bacco, dedicata tra l’altro, benché la cosa faccia fischiettare con aria alquanto imbarazzata pope ortodossi e parroci, a due santi dichiaratamente e orgogliosamente gay, lei per ripicca riedificò la chiesa di famiglia, surclassando l’opera di Giustiniano.

Per di più, per gettare sale sulla ferita, decorò la chiesa con un epigramma di 76 versi, di cui tornerò a parlare, Anicia si paragonava agli imperatori del passato Costantino I e Teodosio II come costruttrice di edifici, e affermava di aver superato il tempio di Salomone, sulle cui proporzioni il tempio sarebbe stato eretto. Scriveva infatti

Dopo Costantino che ornò così bene la sua Roma, dopo la santa ed aurea luce di Teodosio, dopo una così lunga serie di antenati imperiali, non ha essa compiuto un’opera sublime, degna della sua stirpe, e in pochi anni?

Insomma, mancava solo un Giustiniano tieh e il pubblico spernacchiamento sarebbe stato completo.

Tra l’altro, racconta quel pettegolo di Gregorio di Tours poco dopo la sua ascensione al trono, Giustiniano chiese all’anziana Anicia di contribuire al tesoro statale con una gran parte della sua fortuna; dopo aver temporeggiato un po’, Giuliana fece fondere il proprio oro e forgiare dei piatti, con i quali adornare l’interno del tetto della chiesa di San Polieucto, sottraendolo così alle mire dell’imperatore

In ogni caso, Giustiniano alla fine l’ebbe vinta, con la ricostruzione di Santa Sofia; il giorno della sua inaugurazione, l’imperatore esclamò

“Salomone, ti ho superato!”

aggiungendo forse, ma qui le cronache tacciono, un gesto dell’ombrello in direzione della tomba di Anicia.

La chiesa fu utilizzata fino all’XI secolo, quando fu abbandonata; da quel momento in poi fu spogliata delle sculture e degli altri elementi architettonici, sia dai bizantini che, dopo il sacco della città del 1204, dai crociati. Diversi pezzi provenienti da San Polieucto furono riutilizzati nel Monastero di Cristo Pantocratore (la moderna moschea di Zeyrek), mentre altri pezzi, come i capitelli, furono riutilizzati a Vienna, Barcellona e Venezia, tra cui i cosiddetti «Pilastri acritani» della basilica di San Marco a Venezia.

Da quel momento in poi, della chiesa si perse la memoria. Il sito, nel quartiere Saraçhane (l’antico Constantinianae), fu gradualmente occupato da case e da una moschea nel periodo ottomano.

Nel 1940 l’area fu demolita e nel 1960, durante la costruzione dell’incrocio tra le vie Sehzadebasi Caddesi e Atatürk Bulvari, iniziarono gli scavi. Furono scoperte volte di mattoni e sculture in marmo , tra cui frammenti del famigerato epigramma monumentale che adornava la chiesa.

Questi frammenti, insieme a citazioni sulla posizione approssimativa della chiesa nei testi bizantini che riguardano le processioni imperiali lungo la via Mese, permisero un’identificazione sicura dell’edificio. Il sito fu scavato estensivamente tra il 1964 e il 1969, sotto la guida di Nezih Firatli, dei Musei archeologici di Istanbul e di Roy Michael Harrison, del Dumbarton Oaks Institute.

Scavi che hanno permesso di ricostruire chiesa come una basilica di pianta all’incirca quadrata, con lato di 52 metri, una navata centrale e due laterali, con un nartece sul davanti preceduto da un atrio di 26 metri di lunghezza. A nord dell’atrio sono stati ritrovati resti di un altro edificio, identificato come il battistero della chiesa o con il palazzo di Anicia.

Altre informazioni, confermate dagli scavi, sono tratte dall’epigramma, che secondo Paul Beck si tratterebbe del mix di due composizioni poetiche indipendenti: la prima delle quali (vv. 1-41) correva lungo il fregio interno della chiesa mentre la seconda (vv. 42-76) accompagnava i mosaici di un ciclo costantiniano che decoravano le pareti dell’atrio.

Dalla prima parte, in cui sono presenti i versi

Dai due lati dell’andito centrale, colonne rizzate su colonne incrollabili sostengono i raggi di una cupola dal soffitto dorato, mentre, a destra e a sinistra, dalle incavature che si aprono in archi di cerchio, nasce un chiarore sempre cangiante come quello della luna

Appare come la cupola centrale fosse sostenuta da due semi cupole poggianti su altrettante esedre, il che ne farebbe un antecedente di Santa Sofia, composte da tre nicchie con un collegamento tra loro e situate sui lati settentrionale e meridionale dell’ambone. Lo spazio intorno alle campate occidentali della cupola dovrebbe essere stato voltato a botte o a crociera.

Dalla seconda parte, invece con i versi

E scorgerà sulla volta del nartece una grande meraviglia: alcune composizioni sacre, che mostrano come il saggio Costantino, fuggendo gli idoli, spense in sé il fuoco dell’empietà e trovò la luce della Trinità purificando le sue membra nelle acque

si intuisce come il nartece fosse decorato con mosaici rappresentanti la leggenda degli acta Silvestri, gli stessi che furono fonte di ispirazione della decorazione dell’oratorio di San Silvestro nella nostra chiesa dei Quattro Coronati.

Secondo questa leggenda, Costantino contrasse la lebbra nel corso di un’epidemia che imperversava sulla città di Roma. I sacerdoti di corte (Capitolii Pontifices), raccolti attorno al suo capezzale, sentenziarono che l’imperatore si sarebbe salvato bagnandosi nel sangue caldo di 300 fanciulli. I soldati cominciano a sequestrare i fanciulli ma, dinanzi al pianto delle madri, l’imperatore si commuove e da ordine di lasciarli. Durante la notte gli apostoli Pietro e Paolo appaiono in sogno all’imperatore e gli dicono che guarirà dalla lebbra se convocherà il vescovo di Roma Silvestro, rifugiatosi sul monte
Soratte, e sradicherà il paganesimo dall’Urbe, rigettando nell’abisso i falsi dei che lo hanno abbandonato.

Silvestro gli impone una settimana di digiuno purificatore, poi lo conduce là dove un tempo sorgeva il tempio dei Dioscuri, tra le mura diroccate ed i marmi corrosi dove ancora sgorga l’acqua sacra della fonte Giuturna. Costantino si immerge per tre volte nelle acque mentre l’eremita lo battezza consacrandone l’anima all’unico vero Dio.

Più che celebrare la vittoria sul paganesimo, in giro di credenti in Zeus ce ne erano rimasti pochini, Anicia esaltava il suo ruolo nel favorire la ricomposizione del cosiddetto scisma acaciano celebrata ufficialmente nel marzo del 519 sotto Giustino I, che costituiva il trionfo dell’ortodossia sancita dal Concilio di Nicea.

A questi mosaici si affiancava una decorazione che definire esuberante è poco: negli scavi sono stati trovati frammenti di avorio, ametista, vetro dorato e colorato. Forse influenzata dal marito, che aveva combattuto a lungo contro la Persia, Anicia introdusse nella decorazione elementi decorativi tratti dall’arte sasanide: pavoni che fanno la coda, alberi, racemi, vasi da cui fuoriescono strane forme vegetali.

Il tutto accompagnato dieci placche a rilievo con le immagini di Cristo, della Vergine Maria e degli apostoli, sopravvissuti agli iconoclasti, gli antenati della consigliera Cinque Stelle del I Municipio Giusi Campanini, nemica giurata della street art che non sia dipinta da psedo artisti grillini, e da due busti, il ritratto di Anicia e della nonna Eudocia.

Ora, Il bizantinista e studioso della tarda antichità Rod Kalemin, invece, sostiene una tesi “eretica” e alquanto bislacca, che ha poco a che fare con la storia, ma che è divertente citare, visto che ha a che fare con l’Esquilino: partendo da una serie di dati storiografici (da pare che Olibrio dimorasse negli Horti Liciniani), da analisi stilistiche (basate sul confronto con il Tesoro dell’Esquilino e il materiale tardo antico riconducibile agli scavi di fine Ottocento) e di analisi chimiche (sostiene che il marmo non sia del Chersoneso, ma di Luni), ritiene che una parte della decorazione marmorea della chiesa sia stata
realizzata dalle officine imperiali del rione, poste nelle adiacenze del Sessoriano, e poi trasportata nel Bosforo…

In più, sostiene, sempre basandosi sull’analisi stilistica (derivazione dei capitelli di Santa Maria in Dominica da quelli di San Poliecto e la diffusioni di un apparato decorativo simile in Gallia, nel regno visigoto e nell’Africa Bizantina) e sulla chimica, che queste officine abbiano continuato a lavorare per buona parte dell’Alto Medioevo, rilavorando i capitelli dei palazzi imperiali della zona (Horti Liciniani, Lamiani etc) ed esportandoli come beni di lusso nel Mediterraneo Occidentale…

Il che se fosse vero, ma ci credo poco, assieme agli studi più seri e fondati sulle fondazioni ecclesiastiche dell’epoca, suggerisce l’idea che il rione fosse più “popolato” ed attivo economicamente di quanto si potesse sospettare…

Il ragioniere Compatangelo

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Tempo fa, parlando dei prigionieri trentini in Siberia nella Prima Guerra Mondiale, accennai ad Andrea Compatangelo… Dato che però la sua storia non sfigurerebbe in un mio romanzo, mi diverto a riprenderla.

Compatangelo era un ragioniere di Benevento, che per i casi della vita si era trovato a Samara, in Russia, la città dove si era rifugiato Tolstoj.

Il ragioniere, che si occupa di commercio di pellicce e di grano, non si annoia certo: sfruttando il suo fascino latino, è un noto dongiovanni, galante e intraprendente. Ama andare a teatro, suona il pianoforte, pare sia un discreto baritono, quando può, corre a fare i bagni di zolfo alle terme della città.

Poi, per non farsi mancare nulla, si diverte a fare il corrispondente dell’Avanti, dove racconta, a modo suo, le vicende della Russia Zarista.

Con lo scoppio della guerra, gli affari tracollano: in più con la cacciata di Mussolini, diventato interventista, dal quotidiano socialista, Compatangelo non si può neppure dedicare al suo hobby.

Così, per campare, fa quello che farebbe qualsiasi italiano nella sua situazione: apre un ristorante, in cui appioppa a ricchi russi pallide imitazioni della cucina napoletana. Neppure la Rivoluzione Russa lo scuote troppo: in fondo, anche i bolscevichi piacciono la pizza e i maccheroni.

Tutto cambia con la pace di Brest-Livost; la guerra è finita, ma da quelle parti ci sono tanti ex soldati italiani dell’esercito austroungarico. A Vienna e a Roma, poco importa di loro e visto la situazione, rischiano o di morire di stenti o di essere fucilati da bolscevichi o dai russi bianchi.

Compatangelo ha un’idea geniale: tira fuori dal magazzino di un teatro un vestito di scena, da generale napoleonico, lo adatta un poco, lo indossa, si autoproclama capitano capitano del Battaglione Savoia che inventa “per darsi autorità” e spacciandosi rappresentante ufficiale del governo di Roma, tratta la liberazione dei prigionieri con le autorità locali. Grazie al loro desiderio di liberarsi di inutili bocche da sfamare, alla sua faccia tosta e alla sua parlantina, ci riesce, radunandone 300.

Saccheggiando tutti i teatri di Samara, riesce a dare loro una divisa, su cui fa cucire le mostrine rosse. Così, il fantomatico Battaglione Savoia diventa una realtà. Il problema però, è dove portare quei 300 poveri cristi.

Andare verso Occidente non ne parla, si rischiano le cannonate. Così, dopo tanto pensare, Compatangelo ha un’idea: Tien-Tsin, la colonia, pardon concessione, italiana in Cina.

Ai tempi della rivolta dei Boxer, l’Italia spedì un corpo di spedizione, accroccato alla male e peggio, seguendo la solita idea di volere vincere le guerre, facendo combattere gli altri. E dato che a Roma, la Cina la conoscono solo dal Milione di Marco Polo e dai romanzi di Salgari, i nostri soldati andavano vestiti con una divisa in tela, elmetto di sughero coloniale e stivaletti; un’uniforme adatta alle guerre d’Africa, non al gelo di Pechino.

Tanto che, per non finire congelati, saccheggiarono interi magazzini di palandrane cinesi di tela variopinta; insomma più che militari, sembravano le comparse della Turandot. Nonostante questo, si fecero onore e così, Roma, abituata a prendere sole nei trattati di pace, fu premiata con un appezzamento paludoso, lungo un chilometro e largo cinquecento metri, in cui vi era pure un cimitero. Persone con un poco di cervello, l’avrebbero lasciato a se stesso, ma dato che ne andava dell’onore nazionale, fu tutto bonificato e lottizzato, per costruire graziose villette umbertine, con tanto di giardino, simile a quelle di via Luzzatti all’Esquilino.

Villette, che nonostante le numerose agevolazioni fiscali concesse ai nostri connazionali, furono comprate dai ricchi cinesi; d’altra parte, non che gli Italiani in zona abbondassero…

Però, per Compatangelo è il pezzo d’Italia più vicino come andare: per arrivarci,però, bisogna prima percorrere tutta la Transiberiana, arrivare a Vladivostock e imbarcarsi. Ma il nostro ragioniere non si perde d’animo: Nel luglio 1918 alla testa dei suoi 300, si dirige alla stazione di Samara, dove sequestra un treno e parte. Con lui vi sono due crocerossine. Pare che una, la sua amante e futura moglie fosse una granduchessa dei Romanof.

Il treno parte e comincia così questa anabasi moderna: strada facendo, Compatangelo e suoi arraffano tutte le mitragliatrici, i fucili e le munizioni che possono, per aprirsi la strada combattendo. Rubano locomotive, riparano binari, si allea con la Legione Ceca, altri poveri cristi, che per tornare a casa, dichiararono guerra all’Armata Rossa.

Lo stesso fa Compatangelo: ad un certo punto arriva a Krasnojarsk, città dove gli zar confinavano le teste pericolose, uno dei nodi ferroviari della Transiberiana, sconquassata dalla guerra civile. Dato che uno degli ufficiali della Legione Ceca gli racconta la balla che l’Italia ha spedito truppe per soccorrerli, decide di fermarsi, per aspettarle. Così, occupando il municipio, si autoproclama dittatore. I russi,
invece che prenderlo a cannonate, gli danno retta.

Compatangelo governa, decide, stringe alleanze, riattiva l’ospedale e la stazione del telegrafo, finché contattando Vladivostock, scopre che la storia dell’esercito italiano di soccorso era campata in aria: per cui riparte la folle corsa del suo treno. Rifiuta di mettersi al servizio dell”ataman Grigorij Michajlovič Semënov e sconfigge in battaglia Roman Nicolaus von Ungern-Sternberg, che cercava di fermarlo.

Attraversando la Manciuria, i militari cinesi vogliono sequestrare il treno e lo circondano in armi, ma il capitano Compatangelo spaventa gli ufficiali per le conseguenze di un gravissimoincidente internazionale.

Intanto, a Tien-Tsin cominciano ad arrivare le notizie di questo treno di folli, armati sino ai denti. All’inizio pensano che sia una sorta di leggenda, poi cominciano a sospettare che qualcosa di vero ci sia. Mandano una delegazione militare a Vladivostock.

Il treno si avvicina all’agognata meta. Dalla locomotiva, Compatangelo scorge il mare: ricordando Senofonte, comincia a gridare

Thalassa, thalassa

I suoi soldati cominciano a pensare che sia impazzito. Il treno ferma nella stazione di Vladivostock, dopo sei mesi di viaggio. Gli ufficiali italiani accolgono Compatangelo con tutti gli onori, gli urlano come pur essendo la Grande Guerra sia finita da due mesi, bisogna tornare a combattere contro l’Armata Rossa.

Lui si toglie la divisa, manda tutti al diavolo, sposa la sua crocerossina e si ritira in un albergo di lusso, per godersi il meritato riposo… Poi scompare nel nulla, senza citazioni o riconoscimenti né richiesti né tanto meno concessi.

ll suo battaglione però rimane, diventando il battaglione “rosso”, per distinguerlo dai Battaglioni Neri (nero era il colore delle mostrine da arditi). Riorganizzati a Tien-Tsin, i suoi soldati combattono di nuovo contro i bolscevichi. Al termine delle operazioni, è concesso loro di rientrare via mare in Italia, senza clamore, nel 1920.

I Dori che non invasero

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Qualche tempo fa, quando ho parlato dell’ipotesi sul fatto che i Popoli del Mare fossero una sorta di confederazione luvia, accennando al collasso interno del mondo miceneo, qualcuno mi ha espresso la sua perplessità, citando l’invasione dei Dori come causa della sua distruzione.

Come detto altre volte, io sono assai scettico su questa storia. Come Martin Bernal, la ritengo una costruzione ideologica, sia come proiezione delle tesi razziste, inconsce o consapevoli, del mondo accademico tedesco di fine Ottocento, che voleva sostituire la visione “mediterranea” della civiltà greca, con una “pseudo ariano”, dandole un’origine non levantina, ma figlia di ipotetici invasori del Nord, alti, biondi e con gli occhi azzurri.

In più, vi era anche il riproporre un modello ciclico della storia, basato sulle corrispondenze

  1. Minoici e Greci classici (all’epoca si ignorava come a Creta si praticassero sacrifici umani e il cannibalismo rituale, cosa che sotto certi aspetti, era ricordata nel mito del Minotauro e di Teseo);
  2. Micenei e Romani, entrambi popoli guerrieri, che prendono la civilità da vicini più evoluti;
  3. Dori e Barbari, i nordici che distruggono un mondo in decadenza;
  4. Medioevo ellenico e Medioevo vero e proprio, la cosiddetta età oscura, in cui si perde la cultura precedente;
  5. I Greci classici, per chiudere il cerchio e il Rinascimento, in cui Cultura e Civiltà risorgono.

Per contestare questa costruzione ideologica, ci sono numerosi argomenti. I Micenei parlavano una forma di greco: ipotizzare che a migliaio di chilometri di distanza, nell’alto corso del Danubio, vi fossero genti della cultura dei campi di urne che parlassero una lingua molto simile, sembra poco realistico.

In più, in diverse tavolette in Lineare B vi sono forme linguistiche di origine dorica, come la desinenza verbale in onti, per prima persona plurale del futuro, differente dall’onsi del miceneo: il che farebbe pensare come se questa invasione si fosse verificata, sarebbe accaduta molto prima della crisi dell’età del bronzo e che i presunti invasori si fossero integrati completamente con la civiltà achea, invece che distruggerla.

Inoltre, se si guardano i dati archeologici, non vi è nessuna prova concreta di discontinuità della cultura materiale. Le ceramiche continuano a essere realizzate e decorate in maniera identica. Lo stesso accadere per gli oggetti in bronzo. L’incinerazione, che sarebbe la prova principe dei sostenitori dell’invasione, era praticata come rituale di sepoltura anche nel mondo miceneo.

Ciò che invece evidenziano gli scavi è il collasso di una sovrastruttura gentilizia, che costruisce la propria identità con i palazzi, le grandi tombe, la burocrazia: collasso che può avvenire anche per cause interne, piuttosto che esterne.

Le stesse tavolette di Pilo, usate che prova del fatto che i micenei temessero un’invasione, nella loro interpretazione sono viziata dal fatto che essendo un campione temporalmente ristretto, non sappiamo se quanto raccontato riguardasse un’emergenza, oppure fosse semplicemente una procedura standard, per combattere la pirateria o il contrabbando.

In fine gli storici antichi, a cominciare dallo stesso Erodoto, sono concordi nel considerare i Dori come abitanti della Grecia e non come provenienti dall’esterno: quindi, a mio avviso, è probabile che fossero una delle tante popolazioni del Commonwealth miceneo. Nulla vieta poi, che nei secoli intercorsi tra la fine dell’età del Bronzo e il protogeometrico, abbiano potuto migrare, anche in una modalità simile al ver sacrum, dalle loro sedi originali ad altre località della Grecia, il che spiegherebbe la loro dispersione geografica.

Terminati gli argomenti seri contro l’invasione dorica, passo a quelli più sciocchi: questa presunta invasione dagli storici è spesso legato al mito del ritorno degli Eraclidi, i fin troppo numerosi discendenti di Ercole, che tra l’altro, sempre secondo la tradizione greca, erano micenei, non dori.

Gli storici dell’antica Grecia, tramite un complesso e contorto conto basato sul numero delle generazioni, erano riusciti a stimare la data della presa di Troia al 1250 a.C., data che, anno più, anno meno, corrisponde con quanto datato per Wilusa.

Se consideriamo questa data come valida, il 1225 a.C. il momento in cui gli stati anatolici registrano il crollo dello stato miceneo, non coincide con le vicende degli Eraclidi, che gli storici antichi datavano intorno al 1100 d.C., ma con le vicende successive ai cosiddetti Nostoi, il ritorno a casa degli eroi omerici.

I quali, a dare retta ai miti, si trovarono davanti un caos enorme, che qualcuno domò a fatica, come Ulisse e che travolse tanti altri, come Agamennone, ucciso dalla moglie o Diomede, spedito in esilio. Il che potrebbe essere un ricordo simbolico delle guerre civili dell’epoca.

E al contrario, il mito degli Eraclidi, è forse la narrazione dei ver sacrum dorici: nulla vieta di pensare che qualche loro capo, per giustificare il suo potere, sia inventato un’ipotetica parentela con le precedenti classi dominanti…

L’esedra di Termini, tra storie e leggenda

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…L’inaugurazione di questa fontana, avvenuta a Roma il 10 settembre 1870, fu l’ultimo atto pubblico ufficiale di un “Papa Re”, dieci giorni prima che la breccia di Porta Pia decretasse la fine dello Stato Pontificio e Sua Santità Pio IX si ritirasse sdegnosamente nella cittadella Leonina del Vaticano; e già questo basterebbe per consegnare questa fontana alla Storia!
Ma per la “mostra” dell’Acqua Pia, Antica Marcia, che tutti oggi conosciamo come fontana delle Najadi, è solo l’inizio di una vita movimentata – di spostamenti, rifacimenti, polemiche, restauri – che arriva fin quasi ai nostri giorni. E’ stata anche l’ultima mostra d’acquedotto romano – la fontana monumentale che celebra l’arrivo dell’acquedotto in città

Sorgente: L’esedra di Termini, tra storie e leggenda

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Ascoltando Tommaso Pincio

gaza

Oscare era un pataccaro: per i non esquilini, un falsario di opere d’arte antica. Aveva il laboratorio dalle parti di piazza Manfredo Fanti, una vecchia carbonaia, strapiena di vasi pseudoattici, di similbuccheri e di marmi lavorati con amore, immensa perizia tecnica e tanta fantasia.

In altri tempi forse, sarebbe diventato un famoso scultore: invece, ai nostri giorni, campava , anche molto bene, benché la maggior parte dei denari andasse nelle tasche di tanti intermediari, tra cui un signore svizzero, magro e segaligno, con due baffoni ottocenteschi, che indossava sempre pantaloni a quadri, camicie dai colori vivaci e un cappello da cowboy, imitando il passato. Qualche critico, vista la sua malinconia delle sue citazioni, lo avrebbe definito postmoderno.

Oscare odiava visitare i musei, non per il timore di incrociare qualche sua opera. Preferiva visitare le galleria d’arte contemporanea, per confrontarsi, a volte litigare con gli artisti che vi esponevano.

“Bisogna avere il coraggio di imparare dai vivi. Celebrare i morti è il modo migliore di metterli da parte”.

mi ripeteva sempre, con la voce roca per le troppe sigarette. Amava i libri, anche se non ne possedeva molti.

Aveva dipinto, su una parete del laboratorio, i versi di Borges

Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto;
io sono orgoglioso di quelle che ho letto.

Mi diceva sempre, che, quando sarebbe andato in pensione, si sarebbe trasferito in qualche sperduto paesino di mare della Puglia o della Calabria e avrebbe passato le sue giornate in spiaggia, a leggere e a bere menta e orzata, di cui era golosissimo. Purtroppo, non ha realizzato questo sogno.

Non so per quale motivo, ma ascoltando Tommaso Pincio, mi sono tornati in mente questi ricordi. Forse perché entrambi, in un gioco di specchi, ci confondono su ciò che è vero e su ciò che è falso, su ciò che è reale e ciò che è virtuale.

O forse perché, nelle parole di Pincio, ho rivissuto le atmosfere di quei giorni: il degrado che c’era nel Rione, che fingiamo di dimenticare, per non perdere il gusto di lamentarci del presente. O i momenti in cui il Rione appariva un pigro e addormentato paesone, con i vecchi che spettegolavano o giocavano a briscola per strada. E la creatività diffusa, nascosta, ostinata come un’erbaccia infestante, che ancora vive nelle strade dell’Esquilino e spunta fuori nelle tante, piccole cose che riempiono il nostro quotidiano, dal coro alle danze, dalla street art alla presentazione di libro.

Non sarà il Greenwich Village o la Carnaby Street, come sognavo da ragazzo, quando provavo, con la mia posse, a riempire i muri con i miei mediocri graffiti… Ma è qualcosa di dannatamente meglio; è la mia casa e non la scambierei con nessun altro luogo

Caporetto

caporetto

Sono passati cento anni dalla battaglia di Caporetto e in questi giorni sul tema si è detto di tutto e di più. Così, più per gioco, che per altro provo a buttare giù qualche mi considerazione. La prima, che può sembrare strana è come sia stata figlia di tanti errori di interpretazione, sia tattici, sia strategici, da parte degli alti comandi austriaci e italiani.

I primi, dopo le numerose perdite dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, erano convinti di essere al limite del collasso del fronte, sottovalutando però sia il logoramento dei reparti italiani, sia i limiti della loro logistica: da un punto di vista oggettivo, le truppe di Cadorna non erano in grado di sfondare in nessun modo.

Vienna avrebbe potuto, senza troppi problemi, non dico vincere, ma ottenere uno stallo indefinito nella guerra d’attrito; però, presi dal panico, chiesero aiuto ai tedeschi, per ottenere un’offensiva limitata, che avrebbe alleggerito il fronte, consistente un attacco concentrato sull’alto Isonzo, per sfruttare l’importante testa di ponte di Tolmino, a ovest del fiume, minacciare le retrovie del nemico sul basso Isonzo e costringerlo a ripiegare sulla linea di confine.

I vari generaloni tedeschi, che conoscevano meglio il loro mestiere rispetto ai viennesi, si resero conto di due cose: come il fronte italiano, nonostante tutte le offensive, fosse per disposizione tattica, molto fragile e come i comandi italiani, come del resto quelli francesi e inglesi, non erano preparati a contrastare efficacemente le tattiche di infiltrazione. Inoltre, ritenevano, a ragione, come il nostro innato amore per la burocrazia e la moltiplicazione delle poltrone, rendendo la comunicazione degli ordini molto lenta e le decisioni farraginose, rendesse i nostri reparti poco reattivi ad attacchi improvvisi.

Per cui ritenevano possibile una battaglia di annientamento, la quale, avrebbe potuto far uscire l’Italia dall’Intesa, costringendo così gli Anglofrancesi a dislocare parte delle truppe a difesa delle Alpi… Il che avrebbe reso le cose più facili a Ludendorff, quando avrebbe lanciato la sua offensiva finale sul fronte occidentale, la Friedensturm, ossia la “Battaglia per la pace”, alla conquista di Parigi e delle coste della Manica, per tagliar fuori da ogni rifornimento le forze anglo-francesi impegnate sul continente, in modo che,sulla base di una situazione strategica così favorevole, sarebbe stato possibile per gli Imperi Centrali intraprendere trattative di pace da una posizione di grande vantaggio.

Al contempo, Cadorna era ben consapevole delle condizioni del fronte italiano ed era convintissimo della necessità di ritirarsi in una posizione più favorevole: ma per le pressioni dei politici romani, che avrebbero interpretato il cedere terreno come una sconfitta, e dei comandi alleati, che chiedevano offensive ad oltranza, aveva le mani legati. In più, memore della Battaglia degli altopiani, avrebbe messo la mano sul fuoco sul fatto che gli austriaci avrebbero tentato una limitata controffensiva nella primavera del 1918.

Così, per limitare i danni, decise di abbandonare i nuovi progetti offensivi e di organizzare le forze per “la difesa ad oltranza” delle posizioni raggiunte. Il problema è che Cadorna aveva affidato il comando, nei punti cardine del fronte, a due militari che la pensavano in maniera molto diversa da lui: Capello e Badoglio.

Entrambi, invece di credere nella difesa elastica, sostenevano il fatto che le truppe nemiche sarebbero dovute essere bloccate in una battaglia d’incontro, poi seguita da una controffensiva. E se forse la storia della trappola di Volzana è pura leggenda, perché presuppone un acume tattico di cui Badoglio non ha mai dato prova, l’avere ammassato le truppe in prima linea e gli ordini non dati o dati male all’artiglieria, furono la causa del crollo di Tolmino

E paradossalmente, anche se Badoglio avesse dato l’ordine ai cannoni di sparare, poco sarebbe cambiato: lo sfondamento sarebbe avvenuto nella conca di Plezzo, dove la direttrice Saga-Udine risultava comunque totalmente scoperta e sguarnita. Il il Comando Supremo non disponeva di alcuna riserva in zona.

Attaccando con i gas e le artiglierie nella conca di Plezzo, con grande sorpresa degli italiani, gli austro-tedeschi si trovarono quasi subito aperta e totalmente incustodita la principale via d’accesso alla pianura friulana (direttrice Plezzo-Saga-Udine); l’arretramento conseguente di tutta la Seconda e Terza Armata italiana fu allora, solo un gran bene, che riuscì anche evitare l’aggiramento sul fianco nord-orientale dell’intero fronte.

Arretramento che però nell’immediato, a causa dell’esitazioni di Cadorna di ordinare l’arretramento sul Tagliamento e della disorganizzazione di Robilant, che però sbagliando strada, confuse i tedeschi e riuscì a evitare l’accerchiamento tedesco, porto il caos.

Però, la fase successiva del piano tedesco, sopravvanzare le truppe italiane in ritirata per occupare i ponti sul Tagliamento prima di loro imbottigliandole così in una enorme sacca, per annientarle, fallì miseramente.

La causa non fu solo la resistenza ostinata di alcuni reparti, ma la tradizionale ignoranza dei comandi tedeschi nei confronti dei problemi logistici, che li perseguitava dai tempi del piano Moltke. Le loro fanterie avanzavano molto più velocemente delle loro artiglierie e quindi non vi era abbastanza potenza di fuoco per annientare le postazioni difensive italiane.

Nonostante questo dato di fatto, il comando austro tedesco continuava a pensare in grande, prevedendo uno sfondamento in val Frenzela e in val Benta verso Valstagna e Bassano, e uno sfondamento lungo le pendici orientali del Grappa (Monte Tomba e Monfenera) per prendere d’infilata la linea di resistenza italiana sulla sponda destra del Piave. Obiettivi immediati: Vicenza, Padova e Venezia; obiettivi successivi: Verona, l’Adige, il Mincio e, presumibilmente – arrivati a quel punto -, il crollo definitivo dell’esercito italiano. Dopo di che, attraverso la Pianura Padana e, forse – pare che la cosa fosse allo studio – attraverso la neutrale Svizzera (ma anche il Belgio era stato neutrale nel 1914, e a nulla gli era giovato), un attacco contro la Francia sul fianco destro del suo schieramento.

Però sul Piave i nodi logistici vennero al pettine:il tempo perduto aveva dato la possibilità a Robilant di organizzare una difesa elastica. In più, nonostante l’apparente superiorità numerica, un milione di soldati con 4500 cannoni tra tedeschi e austriaci, a fronte di 700.000 italiani e 3000 cannoni, la scarsità di rifornimenti di munizione rendeva il rateo di fuoco degli attaccanti di gran lunga inferiore a quello dei difensori, il che rendeva estremamente complicato vincere una battaglia d’arresto.

E i tedeschi il 3 dicembre, se ne resero conto a malincuore, ritirando le truppe e lasciando la patata bollente nelle mani degli austriaci. Che si trovarono in una condizione strategica totalmente opposta rispetto all’inizio: con le linee di rifornimento troppo lunghe e con un fronte troppo fragile, in caso di una spallata nemica..

Nostoi – Incontro con Tommaso Pincio

 

Venerdì 27 ottobre, alle ore 18:30, presso la Sala Giuseppina della gelateria Fassi, lo scrittore Tommaso Pincio e il critico letterario Umberto Rossi e forse il sottoscritto, se riesce a sopravvivere alla tempesta perfetta che si sta scatenando al lavoro, vi intratterranno con una chiacchierata informale sul rione Esquilino e la sua storia, in una camminata nei suoi spazi immaginari e reali

Un dialogo colto, vivace e affascinante tra uno scrittore straordinario e un critico di immensa cultura, per fare un poco il punto, senza pretese di verità assolute, partendo dal nostro quotidiano, su cosa sia il nostro Rione, da dove sia partito e verso dove stia andando…

Detto fra noi, alcuni hanno definito l’Esquilino come metafora della complessità della vita, altri come cyberpunk realizzato o specchio dell’Italia del futuro… Per me, che sono un tizio alquanto terra terra, il rione è casa; può avere i peggiori difetti di questo mondo, a volte può sembrarmi insopportabile, ma non saprei vivere in un altro luogo… E sono fortunato, poiché tutte le volte che la vita mi ha allontanato da Piazza Vittorio, alla fine mi ci ha sempre riportato

Comuque lasciando perdere le mie boiate, per chi non lo conoscesse, ecco una breve presentazione di Tommaso

Tommaso Pincio, pseudonimo di Marco Colapietro, ha vinto nel 2015 il primo premio degli editori indipendenti SINBAD, della città di Bari, con il libro Panorama.

Dopo aver frequentato l’Accademia delle Belle Arti, ha esordito come fumettista, ha diretto per dieci anni una galleria d’arte internazionale e vissuto tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90 a New York come assistente di un famoso pittore; è in questo periodo che ha cominciato ad approcciarsi alla scrittura. Ha esordito come romanziere nel 1997 con M.. Successivamente ha pubblicato Lo spazio sfinito (2000) e Un amore dell’altro mondo (2002), un libro che ha diviso la critica letteraria e con il quale l’autore ha acquistato una certa notorietà. Vi si narra la vita di Kurt Cobain, leader del gruppo rock Nirvana, attraverso lo sguardo di un suo amico immaginario.

La ragazza che non era lei, pubblicato nel 2005, traccia un bilancio su ciò che è andato perduto e ciò che è rimasto dei sogni di amore e libertà degli anni Sessanta. È invece del 2006 Gli alieni, un’indagine su come l’ipotesi dell’esistenza di civiltà extraterrestri sia diventata uno dei grandi miti dell’era moderna. Di più recente pubblicazione sono le opere Cinacittà. Memorie del mio delitto efferato (2008), romanzo ambientato in una Roma colonizzata dai cinesi e abbandonata dai romani a causa dell’eccessivo innalzamento della temperatura globale; Hotel a zero stelle (2011) saggio autobiografico di dialogo con alcuni grandi della letteratura; Pulp Roma (2012) incentrato sempre sulla città di Roma, il romanzo Panorama (2015) e la raccolta di saggi Scrissi d’arte (2015), accompagnati da una postfazione di Andrea Cortellessa.

Tommaso Pincio collabora regolarmente alla rivista Rolling Stone e alle pagine culturali de la Repubblica e il Manifesto, occupandosi perlopiù di letteratura statunitense.

Per cui, alla faccia degli scioperi, fatevi vivi, mi raccomando…