La Storia come strumento di lotta politica

spagna-catalogna

In questi giorni, ho letto spesso questa obiezione, rivolta a chi cerca di riflettere in maniera approfondita sulla questione catalana

E nun scrivete saggi di Storia

Obiezione a cui è e facile rispondere: da una il Presente non nasce da sé, per improvvisa generazione spontanea, ma le sue radici nascono dal Passato e conoscerlo è necessario per comprendere ciò che ci accade accanto.

Dall’altra è che a Barcellona la Storia non è un racconto neutro, ma uno strumento di lotta e propaganda politica: gli indipendentisti, la usano come strumento per giustificare le loro azioni e conquistare l’approvazione interna ed esterna, nascondendo di questa i concreti ed egoistici interessi economici.

Tra le tante balle che sono propinate vi sono il fantomatico impero catalano, con mappe che mischiano territori che furono sotto il lasco controllo di Barcellona in tempi assai differenti, la storia che la Sicilia fosse catalanofona sotto Martino il Giovane o che l’indipendentismo fosse una costante della Storia.

In realtà, questo è un’invenzione assai recente: dalla guerra di successione spagnola al 1870, la borghesia catalana non è secessionista, ma regionalista, sostenitrice del decentramento amministrativo, secondo diverse e ampie declinazioni: si va da quella conservatrice e carlista, che sosteneva una sorta di ripristino delle autonomie medievali, e forme più moderne e liberali, ispirate al modello francese.

Regionalismo che da una parte la porta ad appoggiare il pretendente carlista nella guerra dei Matiners, dall’altra a elaborare una serie di proposte di riforme istituzionali, molto simili a quelle contenute nell’attuale costituzione spagnola, tanto contestata dagli indipendentisti.

Proposte elaborate nel 1843 dalla verdader catalá o da J.B. Guardiola, il padre nobile della proposta di riforma regionale proposta dell’Unìon Liberal del 1860, che non riguardava solo la Catalogna, ma tutta la Spagna.

Persino Joan Cortada, all’epoca considerato un pericoloso estremista, in Cataluña y los catalanes, pur considerando i “provenzali della Catalogna”, usa questo specifico termine, distinti dagli spagnoli, sosteneva come il decentramento amministrativo fosse il fondamento di una Spagna più solida e unita… Probabilmente oggi a Barcellona sarebbe considerato un traditore.

L’indipendentismo è costruito a tavolino dal 1870 al 1880, al termine di un periodo di boom economico che aveva arricchito la borghesia, sia redditiera, sia imprenditoriale e impoverito operai e agricoltori: con la crisi economica, i borghesi, temendo che la politica economica e commerciale di Madrid possa danneggiare i loro interessi, ispirati anche dal nazionalismo che andava di modo all’epoca in Europa, si inventano una finta identità nazionale, prima come strumento di pressione politica nei confronti del governo centrale, poi come utopia secessionista, basata sull’idea che il resto della Spagna sia una zavorra e un rischio per il loro benessere

Si comincia, quindi a livello di alta borghesia e circoli intellettuali, a parlare di indipendentismo nel 1879,con la pubblicazione di Diari Català: da quel momento in poi vi è una sorta di valanga, con la nascita di Centre Català, la prima associazione indipendentista nel 1882 e la pubblicazione di Lo catalanisme di Almrall del 1886, con l’affermazione del fatto che la Spagna debba essere una duplice monarchia come quella austroungarica e il rifiuto dell’identità occitanica.

E in parallelo, visto che il nazionalismo si nutre di simboli, questi sono costruiti a tavolino: la bandiera catalana risale al 1880, Els Segadors è del 1882, si comincia a parlare dell’undici settembre come giorno della patria nel 1886, la presunta danza nazionale è inventata del 1892.

Al contrario le classi popolari si orientarono verso il movimento anarchico: le due posizioni a volte hanno avuto un alleanza tattica, come in questi giorni, a volte, come ne La semana trágica del 1909, quando la classe dirigente catalana, indipendentista, per difendersi dalle rivolte operaie chiese l’intervento dello stato centrale spagnolo e del suo esercito per soffocare i moti.

La buona borghesia di Barcellona non si limitò a reclamare la repressione, ma si chiese ed ottenne da Madrid, l’innalzamento dei dazi per l’importazione, favorendo così la fiorente industria tessile e chimica levantina. In cambio la Catalogna rinunciò al potere politico, accettando il titubante stato liberale castigliano a guida della nazione.

Per cui, la strada migliore per sedare un movimento fondato sull’egoismo di classe, non è dare bastonate a destra e manca, secondo la tradizione locale, anche se Puigdemont e seguaci se le meriterebbero tutte, ma distruggere l’innaturale alleanza tra interessi differenti, con una politica riformista e di rafforzamento del welfare a difesa delle classi popolari. Cosa che però Madrid, a causa dei vincoli dell’Europa, ha difficoltà a perseguire

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