Come sapete, da qualche anno, con l’aiuto di tante associazioni del Rione, mi prendo la briga di organizzare gli eventi del CarnevalEsquilino
Anche quest’anno, ce l’abbiamo fatta e a breve, pubblicheremo la locandina. Alle nostre attività, quest’anno si affiancherà una novità, curata dalle Rete Sociale Esquilina: una sfilata di maschere che sabato 10 febbraio partirà da Piazza Vittorio, per percorrere via Conte Verde, via Santa Croce in Gerusalemme sino al Giardino di via Statilia, per poi concludersi a Centro Sociale Spin Time.
Un’occasione per festeggiare il Carnevale e per conoscere meglio questa realtà: purtroppo, avendoci comunicato in ritardo tale evento, non siamo riusciti a coordinarci al meglio con la RES.
Però, per evitare sovrapposizioni e favorire la partecipazione, abbiamo spostato alla mattina del sabato la tradizionale festa in maschera dei bambini.
Altra comunicazione di servizio, ricevuta grazie all’Associazione Abitanti di via Giolitti. Questa sera, 31 gennaio alle 17,30, ci sara’ un incontro presso il I Municipio a via della Greca relativo alla mobilita’ nel Rione Esquilino.
Purtroppo, causa SAL da un cliente, non potrò essere presente… Però, vi invito a partecipare numerosi, anche per reagire alle bislacche idee che purtroppo vengono alla nostra cara amministrazione capitolina
A scanso di equivoci plaudiamo all’iniziativa di Airbnb di pubblicare delle mappe di diversi luoghi di Roma elencando i punti di interesse culturale e le varie “eccellenze” nel campo della ristorazione, ma non possiamo evitare di menzionare alcune “dimenticanze eccellenti” che risultano dalla mappa del nostro Rione, guarda caso, tutte comprese non solo nel quadrante est ma addirittura in una sola strada, via Giolitti. Non vorremmo che tutto ciò fosse una conseguenza dello stato di questa zona che sicuramente avrebbe bisogno di una vasta opera di riqualificazione viste le condizioni di degrado e di assoluto abbandono in cui versa.
Per quanto riguarda i monumenti si sono dimenticati della chiesa di Santa Bibiana, opera del Bernini ed autentico gioiello del Barocco Romano (praticamente nascosta), e del cd. Tempio di Minerva Medica monumento oltre che importante per la storia dell’architettura tutt’altro che insignificante per le sue dimensioni visti i suoi 28 metri…
Sabato, come molti sanno, l’Esquilino è stato scenario di Stend/Art Stendardi di artista a piazza Vittorio, in cui numerosi artisti locali hanno decorato i portici con riproduzioni delle loro opere.
Ci sarà occasione per scrivere le mie riflessioni e perplessità su tale iniziativa: ma oggi vorrei parlare d’altro. Domenica sera, alle 18.50, uno degli stendardi, che rappresenta un’opera di Michel Bedouin, è stato rubato in circostanze poco chiare.
Di versioni ne sto sentendo tante, alcune romanzate, e ammetto che mi risulta difficile capire il perchè di tale gesto: ho molti dubbi sulla versione del complotto, su quella della bravata per ubriachezze e su quella di furto per lucro.
Sperando che le forze dell’ordine ne vengano presto a capo e che gesti del genere non si ripetano, esprimo la mia solidarietà sia a Michel Bedouin, sia all’associazione Arco di Gallieno che ha promosso Stend/Art
Giorno strano, questo, dedicato al ricordo dei propri morti. Giorno pieno di sentimenti contrastanti: dolore, malinconia e tante domande, su cosa farebbero se fossero qui…
Mia nonna, dinanzi al mio quotidiano nell’Esquilino, alzerebbe le spalle. Di fatto, il suo rione è poco diverso dal mio: meno multietnico, ma altrettanto incasinato. Come il sottoscritto, andava a fare spesa al mercato, si godeva il gelato di Fassi e il caffè di Ciamei.
Si lamentava della sporcizia, della delinquenza, dei marciapiedi ridotti male: insomma, i problemi a Piazza Vittorio non si risolvono mai, ma si sedimentano, trasformandosi in compagni di viaggio. L’unica differenza forse, era nella mancanza di Facebook, ma le chiacchiere delle comari erano degne sostitute.
Massimo poi… Avrebbe sorriso con amarezza, pensando al nostro presente. Spesso, leggendo le notizie e i commenti sui social media, mi tornano in mente le battute con cui mi sferzava. Il tempo li ha reso aforismi, taglienti come il bianco e nero delle sue foto.
“L’idiozia non è una soluzione”
mi ripeteva, quando, lamentandomi di tutto e tutti, paventavo soluzioni semplicistiche. Tante volte, in questi giorni, sto dando ragione al suo
“Non ti fidare di chi dice non combatto battaglie, perché lo fa, senza il coraggio di metterci la faccia”
Oppure quando citava Mario Quintana, quando mi invitava a non arrendermi mai
Il segreto è non correre dietro alle farfalle. È curare il giardino perché loro vengano da te.
E più passa il tempo, più gli do ragione, sul fatto che il mondo si comincia a cambiare dalle piccole cose…
Dopo una piccola pausa, torno a parlare dei potenziali eroi dello steampunk italiano, raccontando la vita di un avventuriero ferrarese, Giovanni Finati, più noto in Gran Bretagna che da noi.
Giovanni, primo di quattro figli, nacque a Ferrara nel 1786 da Giovanni e Anna, di cui non si conosce il cognome, “non ricchi ma rispettabili”, come scrive nelle sue Memorie. Suo padre aveva una piccola proprietà terriera, con abitazione, a Zello, sulle rive del Tartaro, ed un’altra casa a Trecenta.
I suoi genitori, resosi conto che il loro primogenito non è che fosse una cima, per farlo campare, dato che avevano uno zio prete alquanto bacchettone, lo spedirono in seminario. Diciamo che Giovanni non è che fosse un allievo modello, anzi, diventò più famoso per gli scherzi goliardici che per l’amore per la religione e lo studio, però la sua vita sarebbe trascorsa tranquilla, se non ci avesse messo lo zampino il solito Napoleone.
Giovanni fu chiamato alle armi, per la coscrizione obbligatoria introdotta dal regno d’Italia: la famiglia, preferendo avere in casa un pessimo prete a un buon soldato, come si usava all’epoca, pagò un morto di fame locale per prendere il suo posto.
Morto di fame, che però, alla prima fucilata, si diede alla macchia: così, controvoglia, Giovanni fu costretto a prendere lo schioppo in spalla. Non è che all’inizio gli andò così male, essendo messo di guarnigione al Castello Sforzesco: però, a causa di una boccaccesca beffa ai danni di un ricco mercante milanese, fu spedito a combattere contro i ribelli tirolesi. Capita l’antifona, Giovanni provò a disertare, ma ripreso per le orecchie, fu spedito via mare, a Cattaro, e poi a Budoa, a 30 km a sud di Ragusa, dove si combatteva una stranissima guerra, con improvvisi e giornalieri cambi di alleanza e
fronti, tra francesi, inglesi e briganti locali, sia greci, sia turchi.
Giovanni, approfittando del caos e con l’aiuto di alcuni mercanti riusci a fuggire in Albania, che all’epoca era sotto il comando di un altro personaggio da romanzo, la cui storia fu narrata anche da Dumas ne Il Conte di Montecristo: Ali Pascià Tepeleni
Alì era un brigante che, dopo aver conosciuto un sufì, si trasformò in un signore della guerra, il cui dominio, nel momento del massimo fulgore, comprendeva l’Epiro, l’Albania meridionale, la Focide, la Macedonia occidentale, l’Acarnania, Prevesa ed Arta, con più di due milioni di sudditi.
Aveva un harem con più di seicento concubine e nella sua corte, in cui si parlava greco, era un’accozzaglia di pope, di eretici islamici e di illuministi e nazionalisti ellenici. Giovanni, appena arrivato a Giannina, chiese di entrare al servizio di Alì, spacciandosi per ufficiale napoleonico. Alì disse che lo avrebbe accettato volentieri, a patto che si convertisse all’Islam.
Giovanni evidenziò il suo rifiuto in termini coloriti, era sempre un ex seminarista e fu così spedito a spaccare pietre: cosa che gli fece cambiare rapidamente opinioni in ambito religioso. Così, Giovanni divenne Mohammad e intraprese una rapida carriera nell’esercito di Alì, finché ahimè non ne combinò una delle sue: mise incinta la favorita del suo signore, una georgiana di nome Fatima. Conoscendo il labile concetto che aveva Alì dei diritti dell’imputato, il Pascià era noto per avere l’hobby di festeggiare il venerdì ammazzando a martellate in capo un paio di detenuti, Giovanni si diede rapidamente alla fuga.
Nel marzo del 1809, vestito da sufì si imbarcò a Scrutari su una nave di un contrabbandiere veneziano, che lo portò a Corfù e a Rodi e poi ad Alessandria d’Egitto. Qui, data la sua esperienza e conoscendo qualche parola di albanese, si arruolò in una compagnia di mercenari provenienti da Tirana: dato che il capobanda soffriva di improvvise amnesia quando si trattava di pagare il soldo, Giovanni si congedò per trasferirsi al Cairo, dove, millantando sempre il suo essere ex ufficiale napoleonico, entrò invece al servizio diretto del governatore Mohammed Ali, col grado di “belik-bash”, corrispondente all’incirca a quello di caporale in un esercito europeo.
Nel 1811, Giovanni fu coinvolto in quaella che fu la notte dei lunghi coltelli dell’epoca: Mohammed Alì, per liberarsi del fastidio dei mamelucchi, il 1º marzo 1811, invitò i loro capi ad una celebrazione tenuta alla Cittadella del Cairo in onore di suo figlio Tusun, che era stato incaricato di guidare una spedizione militare in Arabia contro il movimento armato dei wahhabiti. Appena entrati, dopo aver percorso il dedalo di viuzze che conducevano alla Cittadella, gli uomini di Muhammad Ali chiusero i cancelli alle spalle dei mamelucchi, che furono abbattuti a colpi d’arma da fuoco dai soldati che si
erano posizionati all’interno nei palazzi che s’affacciavano sui vicoli. Quando gli spari finirono, i soldati uccisero quanti erano ancora in vita con spade e asce.
Giovanni partecipò a questo massacro: rimasto ferito e incosciente, fu soccorso da una zitellona locale, la quale, in men che non si dica, convocò l’imam e senza fargli dire asino o bestia, lo sposò a tradimento. Essendo la mogliettina una sorta di arpia, finita la convalescenza, corse a raggiungere l’esercito di Tusun, impegnato nella campagna araba, al grido meglio il deserto,gli scorpioni, la fame e la sete al talamo nuziale.
Così Giovanni partecipò alla sconfitta di Bjedid, dove si salvò dalla strage wahabita fingendosi morto: travestito da cammelliere, tornò al Cairo, dove ottenne il divorzio e unirsi 1814, ad un contingente di truppe albanesi che stava per partire alla volta di Gedda per prendere parte alle operazioni militari di Qunfidhah e di Turabah
Truppe albanesi che finirono vittime di un’imboscata nei pressi di Konfoda. Nella fuga precipitosa, Giovanni prima perse le scarpe nella sabbia, poi rubò un cavallo a un wahabita. Dopo aver vagato per giorni senza meta nel deserto, si aggregò a una tribù di beduini diretti in pellegrinaggio a la Mecca. Così l’ex seminarista colse l’occasione per visitarla.
Subito dopo, per puro caso, incrociò di nuovo il buon Muhammad Alì, che, minacciando di fuciliazione, lo fece rientrare nei ranghi delle truppe egiziane. fu testimone, successivamente alla sconfitta di Tusùn pascià a Turabah, della decisiva vittoria di Bessel he inferse un colpo decisivo al prestigio e alla potenza dei Wahhabiti.
Dopo un soggiorno di tre mesi a Turabah, la guarnigione alla quale apparteneva Giovanni venne trasferita prima alla Mecca e poi a Gedda, dove allora imperversava una violenta pestilenza. Tornato al Cairo stanco e malandato, si dimise dal servizio militare per concedersi un periodo di riposo e tranquillità, ma ahimé bisognava trovare qualcosa per riempirsi lo stomaco.
Giovanni, imitando i suoi commilitoni, decisi di trasformarsi in un ladro: così entro in una prese un baule assai pesante, per scoprire poi, dopo un’immonda faticata nel trasportarlo, che conteneva soltanto maioliche. Insomma, non era portato per tale mestiere; per cui, nel settembre del 1815 accolse di buon grado la proposta di un ricco gentiluomo inglese, Bankes, che si proponeva di compiere ricerche archeologiche nell’Alto Egitto, di porsi al suo servizio come interprete. La comitiva risalì il corso del Nilo, visitando poi, nel viaggio di ritorno, località di estremo interesse, come Abu Simbel, Korn Ombo, Tebe.
Seguì il Bankes anche l’anno successivo in un viaggio alla volta della Palestina e della Siria: dal Cairo, attraverso la zona costiera della penisola del Sinai, questa spedizione raggiunse prima El Arista e poi Ghaza e Giaffa, per dirigersi infine verso Gerusalemme, Gerash, Tiro, Sidone, Damasco, Palmira ed Antiochia.
Mentre il Bankes si imbarcava per Cipro, Giovanni, rimasto disoccupata, entrava, per un breve periodo, al servizio del pascià di Aleppo, allora in guerra contro i Curdi, per tornare poi al Cairo, dove, dopo aver cercato di farsi assumere ancora come guida ed interprete da qualche spedizione, si arruolava nuovamente nell’esercito; ma, in seguito alla morte dell’ufficiale albanese dal quale dipendeva, passò ben presto al servizio del console inglese, l’ottimo Salt.
Il quale, ormai diventato un’agenzia di collocamento per italiani disperati, gli diede l’incarico di recarsi nell’Alto Egitto per raggiungere l’inglese H.W. Beechey e il buon Belzoni, che dovevano recarsi ad Abu Simbel per compiere scavi nella zona dei templi.
Ma Giovanni non era tagliato per far l’archeologo: così Belzoni, per toglierselo dalle scatole, gli fece accompagnare la moglie Sarah nel suo pellegrinaggio a Gerusalemme, dove incontrò il suo vecchio daore di lavoro Bankes.
Assieme, travestiti da beduini, visitarono il Mar Morto e Petra; tornati al Cairo, si aggregarono alla famigerata spedizione diretta in Nubia ed ebbero a che fare con il buon Agapito Libianchi. Giovanni e Agapito, nelle loro peripezie, si erano incrociati un paio di volte: così grazie anche al ferrarese, i componenti della spedizione non fecero una pessima fine e riuscirono a salvarsi le penne dopo qualche lavoro socialmente utile…
Tra le tante imprese di questo viaggio, Giovanni, con l’aiuto di Belzoni, riuscì a scavare fino ai piedi una delle quattro colossali statue di Ramsete II ad Abu Simbel. Alla fine del 1819 il Bankes decise di rientrare in Europa e affidò Giovanni. l’incarico di curare il trasporto della base di un obelisco da Assuan.
Fatto questo, per campare tornò a prestare servizio presso Salt, ricevendo spesso l’incarico di fare da interprete e da guida agli europei che desideravano inoltrarsi lungo il corso del Nilo. Con questo compito, nel 1821 fu aggregato alla nuova spedizione nubiana, dove assieme ad Agapito, si dedicò di catturare animali esotici per arricchire il serraglio di Muhammad Alì.
Libro che fu un bestsellers dell’epoca: nel 1824, tornò in Egitto per aprire un albergo per viaggiatori europei, occupazione che lo tenne impegnato sino alla morte, nel 1832 e che fu ereditato dall’ex moglie.
Originally posted on Esquilino's Weblog: Nelle scorse settimane abbiamo pubblicato un post in cui si sottolineavano le carenze e i ritardi del Comune per porre rimedio a crolli in edifici di sua proprietà nel Rione Esquilino. Ci si limita…
L’integrazione fra arte e natura, fra naturale e costruito, la volontà di intervenire sulla natura trasformandola ma al contempo lasciando che l’intervento umano si integrasse in essa quasi fosse un’unica essenza è una delle caratteristiche più originali dell’arte ellenistica. Si presentano qui alcuni esempi – realizzati o rimasti a livello progettuale – di questa tendenza lasciando aperta la riflessione dei lettori su alcuni casi ancora incerti presenti sia in Oriente che in Occidente. Si tratta di pochi esempi di un’insieme molto più vasto e articolato di testimonianze alcune delle quali purtroppo irrimediabilmente perdute (pensiamo al rapporto con l’acqua che doveva caratterizzare la Tyché di Antiochia) altre così complesse e particolari da meritare una più approfondita trattazione di dettaglio (Sperlonga, Arsameia sul Nymphaios).
L’Alessandro di Deinokrates
Un possibile precedente a questa tendenza si può forse ritrovare nell’incontenibile fantasia di Deinokrates contemporaneo di Alessandro e autore del piano regolatore di Alessandria…
Ogni tanto, qualche mi amico mi chiede un parere sull’ ehm saggio di Felice VinciOmero nel Baltico, saggio sulla geografia omerica, che in passato ha avuto notevole visibilità sui media.
Secondo l’autore, gli Achei sarebbero vissuti agli inizi del II millennio a.C. sulle coste del Baltico e alla metà del millennio, in seguito ad un irrigidimento del clima individuato in quest’epoca dalla paleoclimatologia, si sarebbero spostati verso sud lungo il corso del fiume Dnepr, giungendo al mar Nero e al mar Egeo. I nuovi venuti avrebbero fondato le città miceneee avrebbero quindi dato alle nuove sedi i nomi delle località nordiche, ma in modo non perfettamente rispondente alla loro collocazione geografica originaria, a causa delle differenze di conformazione delle due regioni.
Con la migrazione avrebbero inoltre portato con sé i propri tradizionali racconti orali, una saga poetica ambientata nelle località della patria originaria, tra il mar Baltico e il mare del Nord. La guerra di Troia si sarebbe svolta dunque non intorno al XIII secolo a.C., come normalmente ritenuto, ma intorno al XVIII secolo a.C. Dopo ottocento o novecento anni di trasmissione orale, i poemi sarebbero quindi stati trascritti tra l’VIII e il VII secolo a.C.
Ovviamente, la realtà è molto diversa, ma la questione è interessante da affrontare per due motivi: il primo per mostrare come un abuso superficiale del metodo linguistico, senza il supporto del dato archeologico, possa generare dei mostri. Il secondo è perché una tesi così bislacca possa avere avuto successo nella cultura popolare.
Per fare questo, dobbiamo per prima cosa tradurre in lingua storico archeologica quanto affermato da Vinci: ciò significa come nell’Antico Elladico II, in cui in Grecia è presente una popolazione indeuropea di tipo non greco e dai forti caratteri anatolici, che sperimenta la metallurgia, inventa una specifica forma torno da vasaio e la casa a megaron in Scandinava è presente una civiltà capace di un’elevata capacità di lavorare il bronzo, di un’organizzazione statale paragonabile a quella delle polis dell’età classica e impegnata in guerre di ampio respiro.
All’inizio del Medio Elladico, quando in Grecia si sviluppa la cosiddetta cultura minia, una catastrofe climatica li costringe a prendere armi e bagagli e andarsene verso sud, portandosi dietro una storia orale, finché non invadono la Grecia all’inizio del Tardo Elladico, dove rifondano la civiltà micenea. Il loro corpus di miti sopravvive al collasso dell’età del bronzo, per qualche secolo passano da un dialetto greco all’altro, finché non vengono trascritte in ionico.
E per giustificare tutto questo, Vinci si basa sulle incongruenze tra descrizione omerica e geografia reale, sulle somiglianze tra i nomi scandinavi e greci, nella descrizione del clima dell’Iliade e nelle usanze, nella mitologia e nella letteratura, tra il mondo descritto nei poemi omerici e quello nordico di epoca medioevale.
Il tutto infiorettato da considerazioni e deduzioni linguistiche. Ma i fatti, invece, che dicono ?
1) Nel periodo in cui in Grecia si sperimenta la lavorazione del Bronzo, in Scandinavia sono ancora in pieno neolitico, con la cultura dei vasi a imbuto, i cui popoli vivevano in piccoli villaggi costituite da case per famiglie singole impastate di paglia e argilla, di 12 m x 6 m ca., in cui vi dimoravano gli animali d’allevamento, pecore, bestiame, maiali, capre, ma si praticava anche la caccia e la pesca. Il frumento primordiale e l’orzo venivano coltivati su appezzamenti di terreno che si impoverivano velocemente, per cui la popolazione frequentemente doveva spostarsi per brevi distanze. La tecnologia era basata sulla selce e importavano asce di rame dal sud Europa. Insomma, una civiltà che non aveva una complessa organizzazione statale, non andavano oltre lo stato chiefdom e più di qualche scaramuccia legata al fregarsi le pecore a vicenda, non potevano andare
2) Nel periodo della presunta migrazione, non c’è nessuna peggioramento climatico: questo invece, avverrà al termine dell’età del bronzo, contribuendo al collasso delle civiltà dell’epoca. Anzi, intorno al 2000 a.C., in Scandinavia vi è l’optimum, con una temperatura intermedia tra l’attuale e quella del periodo caldo medievale
3) Dalle analisi archeologiche, non appare nessuna rottura culturale tra il Medio e il Tardo Elladico. La nascita della civiltà micenea è quindi più legata a una progressiva immigrazione, che a un’improvvisa invasione. In più, date le somiglianze tra proto greco e proto armeno, è più probabile che i coloni elladici abbiano una provenienza anatolica/caucasica, piuttosto che scandinava
4) Grazie ai documenti ittiti e luvi, abbiamo idee abbastanza chiare sulle vicende della tarda eta del bronzo anatolica. In tale scenario, le vicende omeriche, con tutte le modifiche dovute alla trasmissione orale, si incastrano perfettamente.
Per cui, perché, pur essendo basate sul nulla, hanno avuto così successo ? La cultura storica, anche di persone colte, è incentrata sull’età del ferro in poi; la poca conoscenza e interesse per quello che accade prima, rende facile la manipolazione delle informazioni.
Specie se la pseudoscienza è basata su un pregiudizio culturale, che risale il romanticismo, del cosiddetto “modello ariano”, in cui, per motivi anche inconsciamente razzisti, per giustificare la prevalenza sociale ed economica della Germania, avviene l’espulsione della civiltà greca dal contesto levantino, mediterraneo e aperto alle culture anatoliche, medio-orientali, fenicio-semite ed egizie (il cui debito era invece riconosciuto dai greci stessi e dagli studiosi precedenti dai romani al ‘700, ex oriente lux) per introdurla in una mitologico nondo nordica.
Pregiudizio, che Marx direbbe appartenente alla sovrastruttura, che si ripete ciclicamente nella nostra storia recente
Oggi vi segnaliamo i più attesi film Sci-Fi del 2018 raccolti in un video che Looper ha pubblicato sulla pagina YouTube. Si tratta ovviamente di immagini tratte da vari trailer, ma grazie a questo video possiamo farci un’idea chiara di come sarà l’anno fantascientifico al cinema. Un anno che, con titoli come Annihilation, promette di sorprendere e stupire. Segue il video:
Ci sono due diverse filosofie, nel rapportarsi con l’Esquilino: la prima è considerare il Rione un palcoscenico per eventi spot, utili per farsi pubblicità o per promuovere cause contingenti, che poco hanno a che vedere con i problemi di chi lo vive ogni giorno
Filosofia lecita, senza dubbio, ma che non cambia le cose e che, spesso e volentieri, spente le luci della ribalta, lascia l’amara sensazione del
Passata la festa, gabbato il santo
Inoltre, dato che è l’espressione di interessi specifici, tende a escludere chi vi è estraneo. L’altra, più complessa, faticosa e che di certo garantisce meno titoloni sui giornali, si pone l’obiettivo di aumentare la vivibilità dello spazio urbano e il rafforzamento del tessuto sociale.
Ciò implica visione di lungo periodo, lavoro continuo, inclusivo, che con le azioni, semina idee, che a loro volta generano altri progetti. Questa è la filosofia che portano avanti le Danze di Pizza Vittorio, con il CarnevalEsquilino, dopo un lungo parto, possiamo dire che ci sarà anche quest’anno.
Allo stato attuale, ma potrebbero esserci dei piccoli aggiustamenti in corso d’opera, ci sarà la sera del Giovedì Grasso il tradizionale concerto de Il Coro di Piazza Vittorio nel Palazzo del Freddo, la mattina del Sabato Grasso la festa dei bambini organizzata da Paola Morano e infine, Martedì Grasso, le Danze di Piazza Vittorio e il gruppo del Savoy Swing, terranno la loro festa spettacolo nell’inedita cornice di Ciamei.
Filosofia che è anche alla base l’impegno nella street art.
Impegno che ha spinto all’emulazione. Da una parte, vi è il contest organizzato da RomaID, Terminididentità, che vuole utilizzare la Street Art per rafforzare il legame con il territorio, valorizzando l’ Esquilino e la Stazione di Roma come realtà di aggregazione sociale, che non senza le battaglie che abbiamo portato avanti, non sarebbe stato possibile.
Applaudiamo questa iniziativa, che si sposa bene con il progetto che stiamo portando avanti, basato sulla riqualificazione di via Giolitti e su una serie di interventi diffusi sul territorio, per creare una sorta di museo diffuso di arte urbana.
Dall’altra, l’ottimo lavoro voluto da dei commercianti di Via Labicana, per riqualificare con la bellezza il loro angolo di strada… Purtroppo, per colpa dei regolamenti non aggiornati, il loro impegno, potrebbe metterli paradossalmente a rischio di multa. Proprio per questo, ribadiamo come Roma, che si sta configurando come una delle capitali mondiali della street art, debba dotarsi di un insieme di norme che la tuteli e favorisca.
Per tutto questo, per un rione più vivibile e accogliente con tutti, continueremo a lottare: perché molti semi cadranno tra i sassi e tra i rovi, ma altri porteranno frutto.