Dopo una piccola pausa, torno a parlare dei potenziali eroi dello steampunk italiano, raccontando la vita di un avventuriero ferrarese, Giovanni Finati, più noto in Gran Bretagna che da noi.
Giovanni, primo di quattro figli, nacque a Ferrara nel 1786 da Giovanni e Anna, di cui non si conosce il cognome, “non ricchi ma rispettabili”, come scrive nelle sue Memorie. Suo padre aveva una piccola proprietà terriera, con abitazione, a Zello, sulle rive del Tartaro, ed un’altra casa a Trecenta.
I suoi genitori, resosi conto che il loro primogenito non è che fosse una cima, per farlo campare, dato che avevano uno zio prete alquanto bacchettone, lo spedirono in seminario. Diciamo che Giovanni non è che fosse un allievo modello, anzi, diventò più famoso per gli scherzi goliardici che per l’amore per la religione e lo studio, però la sua vita sarebbe trascorsa tranquilla, se non ci avesse messo lo zampino il solito Napoleone.
Giovanni fu chiamato alle armi, per la coscrizione obbligatoria introdotta dal regno d’Italia: la famiglia, preferendo avere in casa un pessimo prete a un buon soldato, come si usava all’epoca, pagò un morto di fame locale per prendere il suo posto.
Morto di fame, che però, alla prima fucilata, si diede alla macchia: così, controvoglia, Giovanni fu costretto a prendere lo schioppo in spalla. Non è che all’inizio gli andò così male, essendo messo di guarnigione al Castello Sforzesco: però, a causa di una boccaccesca beffa ai danni di un ricco mercante milanese, fu spedito a combattere contro i ribelli tirolesi. Capita l’antifona, Giovanni provò a disertare, ma ripreso per le orecchie, fu spedito via mare, a Cattaro, e poi a Budoa, a 30 km a sud di Ragusa, dove si combatteva una stranissima guerra, con improvvisi e giornalieri cambi di alleanza e
fronti, tra francesi, inglesi e briganti locali, sia greci, sia turchi.
Giovanni, approfittando del caos e con l’aiuto di alcuni mercanti riusci a fuggire in Albania, che all’epoca era sotto il comando di un altro personaggio da romanzo, la cui storia fu narrata anche da Dumas ne Il Conte di Montecristo: Ali Pascià Tepeleni
Alì era un brigante che, dopo aver conosciuto un sufì, si trasformò in un signore della guerra, il cui dominio, nel momento del massimo fulgore, comprendeva l’Epiro, l’Albania meridionale, la Focide, la Macedonia occidentale, l’Acarnania, Prevesa ed Arta, con più di due milioni di sudditi.
Aveva un harem con più di seicento concubine e nella sua corte, in cui si parlava greco, era un’accozzaglia di pope, di eretici islamici e di illuministi e nazionalisti ellenici. Giovanni, appena arrivato a Giannina, chiese di entrare al servizio di Alì, spacciandosi per ufficiale napoleonico. Alì disse che lo avrebbe accettato volentieri, a patto che si convertisse all’Islam.
Giovanni evidenziò il suo rifiuto in termini coloriti, era sempre un ex seminarista e fu così spedito a spaccare pietre: cosa che gli fece cambiare rapidamente opinioni in ambito religioso. Così, Giovanni divenne Mohammad e intraprese una rapida carriera nell’esercito di Alì, finché ahimè non ne combinò una delle sue: mise incinta la favorita del suo signore, una georgiana di nome Fatima. Conoscendo il labile concetto che aveva Alì dei diritti dell’imputato, il Pascià era noto per avere l’hobby di festeggiare il venerdì ammazzando a martellate in capo un paio di detenuti, Giovanni si diede rapidamente alla fuga.
Nel marzo del 1809, vestito da sufì si imbarcò a Scrutari su una nave di un contrabbandiere veneziano, che lo portò a Corfù e a Rodi e poi ad Alessandria d’Egitto. Qui, data la sua esperienza e conoscendo qualche parola di albanese, si arruolò in una compagnia di mercenari provenienti da Tirana: dato che il capobanda soffriva di improvvise amnesia quando si trattava di pagare il soldo, Giovanni si congedò per trasferirsi al Cairo, dove, millantando sempre il suo essere ex ufficiale napoleonico, entrò invece al servizio diretto del governatore Mohammed Ali, col grado di “belik-bash”, corrispondente all’incirca a quello di caporale in un esercito europeo.
Nel 1811, Giovanni fu coinvolto in quaella che fu la notte dei lunghi coltelli dell’epoca: Mohammed Alì, per liberarsi del fastidio dei mamelucchi, il 1º marzo 1811, invitò i loro capi ad una celebrazione tenuta alla Cittadella del Cairo in onore di suo figlio Tusun, che era stato incaricato di guidare una spedizione militare in Arabia contro il movimento armato dei wahhabiti. Appena entrati, dopo aver percorso il dedalo di viuzze che conducevano alla Cittadella, gli uomini di Muhammad Ali chiusero i cancelli alle spalle dei mamelucchi, che furono abbattuti a colpi d’arma da fuoco dai soldati che si
erano posizionati all’interno nei palazzi che s’affacciavano sui vicoli. Quando gli spari finirono, i soldati uccisero quanti erano ancora in vita con spade e asce.
Giovanni partecipò a questo massacro: rimasto ferito e incosciente, fu soccorso da una zitellona locale, la quale, in men che non si dica, convocò l’imam e senza fargli dire asino o bestia, lo sposò a tradimento. Essendo la mogliettina una sorta di arpia, finita la convalescenza, corse a raggiungere l’esercito di Tusun, impegnato nella campagna araba, al grido meglio il deserto,gli scorpioni, la fame e la sete al talamo nuziale.
Così Giovanni partecipò alla sconfitta di Bjedid, dove si salvò dalla strage wahabita fingendosi morto: travestito da cammelliere, tornò al Cairo, dove ottenne il divorzio e unirsi 1814, ad un contingente di truppe albanesi che stava per partire alla volta di Gedda per prendere parte alle operazioni militari di Qunfidhah e di Turabah
Truppe albanesi che finirono vittime di un’imboscata nei pressi di Konfoda. Nella fuga precipitosa, Giovanni prima perse le scarpe nella sabbia, poi rubò un cavallo a un wahabita. Dopo aver vagato per giorni senza meta nel deserto, si aggregò a una tribù di beduini diretti in pellegrinaggio a la Mecca. Così l’ex seminarista colse l’occasione per visitarla.
Subito dopo, per puro caso, incrociò di nuovo il buon Muhammad Alì, che, minacciando di fuciliazione, lo fece rientrare nei ranghi delle truppe egiziane. fu testimone, successivamente alla sconfitta di Tusùn pascià a Turabah, della decisiva vittoria di Bessel he inferse un colpo decisivo al prestigio e alla potenza dei Wahhabiti.
Dopo un soggiorno di tre mesi a Turabah, la guarnigione alla quale apparteneva Giovanni venne trasferita prima alla Mecca e poi a Gedda, dove allora imperversava una violenta pestilenza. Tornato al Cairo stanco e malandato, si dimise dal servizio militare per concedersi un periodo di riposo e tranquillità, ma ahimé bisognava trovare qualcosa per riempirsi lo stomaco.
Giovanni, imitando i suoi commilitoni, decisi di trasformarsi in un ladro: così entro in una prese un baule assai pesante, per scoprire poi, dopo un’immonda faticata nel trasportarlo, che conteneva soltanto maioliche. Insomma, non era portato per tale mestiere; per cui, nel settembre del 1815 accolse di buon grado la proposta di un ricco gentiluomo inglese, Bankes, che si proponeva di compiere ricerche archeologiche nell’Alto Egitto, di porsi al suo servizio come interprete. La comitiva risalì il corso del Nilo, visitando poi, nel viaggio di ritorno, località di estremo interesse, come Abu Simbel, Korn Ombo, Tebe.
Seguì il Bankes anche l’anno successivo in un viaggio alla volta della Palestina e della Siria: dal Cairo, attraverso la zona costiera della penisola del Sinai, questa spedizione raggiunse prima El Arista e poi Ghaza e Giaffa, per dirigersi infine verso Gerusalemme, Gerash, Tiro, Sidone, Damasco, Palmira ed Antiochia.
Mentre il Bankes si imbarcava per Cipro, Giovanni, rimasto disoccupata, entrava, per un breve periodo, al servizio del pascià di Aleppo, allora in guerra contro i Curdi, per tornare poi al Cairo, dove, dopo aver cercato di farsi assumere ancora come guida ed interprete da qualche spedizione, si arruolava nuovamente nell’esercito; ma, in seguito alla morte dell’ufficiale albanese dal quale dipendeva, passò ben presto al servizio del console inglese, l’ottimo Salt.
Il quale, ormai diventato un’agenzia di collocamento per italiani disperati, gli diede l’incarico di recarsi nell’Alto Egitto per raggiungere l’inglese H.W. Beechey e il buon Belzoni, che dovevano recarsi ad Abu Simbel per compiere scavi nella zona dei templi.
Ma Giovanni non era tagliato per far l’archeologo: così Belzoni, per toglierselo dalle scatole, gli fece accompagnare la moglie Sarah nel suo pellegrinaggio a Gerusalemme, dove incontrò il suo vecchio daore di lavoro Bankes.
Assieme, travestiti da beduini, visitarono il Mar Morto e Petra; tornati al Cairo, si aggregarono alla famigerata spedizione diretta in Nubia ed ebbero a che fare con il buon Agapito Libianchi. Giovanni e Agapito, nelle loro peripezie, si erano incrociati un paio di volte: così grazie anche al ferrarese, i componenti della spedizione non fecero una pessima fine e riuscirono a salvarsi le penne dopo qualche lavoro socialmente utile…
Tra le tante imprese di questo viaggio, Giovanni, con l’aiuto di Belzoni, riuscì a scavare fino ai piedi una delle quattro colossali statue di Ramsete II ad Abu Simbel. Alla fine del 1819 il Bankes decise di rientrare in Europa e affidò Giovanni. l’incarico di curare il trasporto della base di un obelisco da Assuan.
Fatto questo, per campare tornò a prestare servizio presso Salt, ricevendo spesso l’incarico di fare da interprete e da guida agli europei che desideravano inoltrarsi lungo il corso del Nilo. Con questo compito, nel 1821 fu aggregato alla nuova spedizione nubiana, dove assieme ad Agapito, si dedicò di catturare animali esotici per arricchire il serraglio di Muhammad Alì.
Rientrato al Cairo nel luglio del 1822, accettò l’invito del Bankes di tornare momentaneamente in Europa per rendere una testimonianza in suo favore in tribunale, fermandosi qualche tempo nel Galles, a campare a scrocco nella villa del suo ricco amico, e a Londra, dove dettò le sue memorie. Queste, raccolte in dodici piccoli quaderni, vennero poi tradotte in inglese dal Bankes e pubblicate in due volumi, nel 1830 a Londra col titolo Narrative of the life and adventures of G. Finati, native of Ferrara, who, under the assumed name o Mohamet, made the campaigns against the Wahabees for the recovery of Mecca and Medina., and since acted as interpreter to European travellers in some of the parts least visited of Asia and Africa.
Libro che fu un bestsellers dell’epoca: nel 1824, tornò in Egitto per aprire un albergo per viaggiatori europei, occupazione che lo tenne impegnato sino alla morte, nel 1832 e che fu ereditato dall’ex moglie.
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