Il tesoro del Partenone ?

Partenone

Per non lo ricordasse, la lega di Delo fu un costituita da Atene e da varie città-stato greche, come ad esempio Efeso, Mileto, Focea, Alicarnasso, Anfipoli, Olinto, Metone e Troia, le isole di Lesbo, Rodi, Samo, Delo e la penisola Calcidica.

Tale lega prendeva il nome dall’isola di Delo, celebre per il culto di Apollo, dove si tenevano i congressi annuali delle città della lega e inizialmente si custodiva il tesoro ed era una sorta di federazione i cui membri mettevano in comune la politica estera e di difesa.

Le poleis contraenti il patto federativo si impegnavano a contribuire alla difesa con il versamento di un tributo annuo alle casse federali, amministrate da appositi magistrati (gli ellenotami dal 478-477 a.C., e i tamiai dal 435 a.C.) oppure con la fornitura di navi e mezzi, recapitato nell’isola sacra di Delo.

Solamente gli stati in grado di assicurare l’invio di navi, come Atene stessa, Chio, Samo e Lesbo, erano esentati dal versamento del tributo annuo, stabilito da Aristide in 460 talenti, al quale erano invece soggette le città minori dell’Asia minore, delle Cicladi e dell’Eubea.

Nata per combattere i persiani e liberare le città della Ionia dal loro giogo, con il tempo si trasformò in uno strumento per rafforzare l’egemonia ateniese. In particolare, al seguito dal fallimento di una bislacca spedizione in Egitto, per appoggiare la ribellione di Inaros, con la scusa che l’Egeo non poteva più considerarsi un mare del tutto sicuro, nel 454 il tesoro fu trasferito ad Atene per iniziativa di Pericle che, nonostante i discorsi inventati di Tucidide, aveva un’idea della democrazia assai bislacca, tanto da far apparire Trump un pacato e sincero progressista. e l’assemblea di Delo venne abolita.

Il tesoro ebbe una destinazione ben diversa dall’originale: servì a finanziare l’imperialismo attico, a una politica keynesiana di opere pubbliche e a introdurre un qualcosa di molto simile al reddito di cittadinanza grillino.

Ora, dal decreto di Callia, sappiamo che tale tesoro consisteva in 3000 talenti, che nella valuta corrente dell’epoca, i tetradrammi, consisteva in circa 4 milioni e mezzo di monete, pari a 68000 Kg. Per cui, da qualche parte, ad Atene, doveva esistere una sorta di deposito di zio Paperone, che sappiamo essere chiamato opisthodomos, termine di solito associato alla parte del tempio dietro la cella, che conteneva gli arredi sacri e che era protetta da una cancellata, a cui potevano accedere solo i sacerdoti. Però, visto le quantità in gioco, tale termine doveva essere considerato più una metafora, che
un’indicazione reale.

Sempre dagli storici dell’epoca, sappiamo che parte del tesoro di stato di Atene era conservato nell’Eretteo e nella Calcoteca, per cui è ipotizzabile che anche quello della lega di Delo fosse da quella parti. Partendo da questi indizi, abbiamo uno spazio di grandi dimensioni, dall’accesso facilmente controllabile, legato in qualche modo a un tempio dell’Acropoli. Diversi studiosi americani, partendo da quanto sappiamo su alcuni tempi della Magna Grecia, quello di Eracle ad Agrigento, di Athena a Siracusa e Nike ad Himera, in cui l’attico serviva anche per custodire le finanze cittadine, hanno ipotizzato
come opisthodomos coincidesse con l’attico del Partenone.

Luogo che, retto da possenti travi lignee ed elaborati cassettoni marmorei, di grandi dimensioni, 90×43 m, e molto sicuro e controllabile, essendo accessibile solo da una scala costruita nel muro della cella est, potrebbe rispecchiare tutti i requisiti richiesti da un deposito di tutta quella ricchezza….

Insomma, altro che civette di Gilippo, nascoste sotto le tegole !

Il Colombario di Pomponio Hylas

Archeologia Sottosopra

Colombario_di_Pomponio_Hylas_altaL’ipogeo di Pomponio Hylas si trova in prossimità della via Latina, a poca distanza dalle Mura Aureliane. Esso fu costruito probabilmente già in età tiberiana e fu utilizzato a lungo accogliendo, in età flavia, le ceneri del liberto Pomponio Hylas e della moglie Pomponia Vitalinis. Si giungeva alla tomba da un diverticolo della via Latina e vi si accedeva per mezzo di una ripida scala ancora conservata, che rasenta una parete totalmente occupata da loculi. Scendendo la scala in alto vediamo una nicchia e sotto di questa un pannello a mosaico di paste vitree, inquadrato da una cornice di conchiglie, che raffigura due grifi affrontati ai lati di una cetra e una targa con un’iscrizione, inquadrata da un motivo a treccia. Nell’iscrizione all’interno della targa leggiamo, al genitivo, i nomi di Pomponius Hylas e di Pomponia Vitalinis.

Di fronte a questa scala d’accesso sono poi due edicole sicuramente più…

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Il fascino indiscreto di Cerere

Cerere

Parlando di Giuseppe Piazzi, ho accennato all’ondivago status di Cerere: ai tempi della scoperta, fu classificata come pianeta.

Questo perché, all’epoca, si pensava che fosse sempre valida la cosiddetta legge di Titius-Bode,  che afferma come le distanze dei pianeti seguano una sequenza numerica ben definita, secondo la formula

D = 0.4 + 0.075 * 2n

dove D è la distanza del pianeta in Unità Astronomiche e n è un valore numerico attribuito arbitrariamente ad ogni pianeta (legge che, con le dovute accortezze, essendo probabilmente conseguenza  del meccanismo di risonanza orbitale, negli ultimi tempi sta cominciando a essere rivalutata)

Ora, secondo questa legge un pianeta doveva esistere tra Marte e Giove e per i casi della vita, la posizione di Cerere coincideva con tale previsione.

Per cui, Cerere fu assunta al ruolo di pianeta: il problema è che dopo un annetto circa, Heinrich Olbers individuò un secondo candidato a quel ruolo (Pallade) e altri due ne spuntarono negli anni seguenti per opera di Karl Ludwig Harding (Giunone) e dello stesso Olbers (Vesta).

Insomma, invece di trovarsi davanti a un solista, ci si era imbattuti in un’orchestra. Per ovviare a questo inconveniente e salvare la legge di Titius-Bode, Olbers propose una soluzione molto democristiana: il pianeta c’era stato e lo chiamò Fetonte e che per un misterioso cataclisma cosmico, si fosse spezzato in quattro frammenti

Ma ahimè, in quella zona, di oggetti cosmici ne saltarono fuori a bizzeffe, per cui l’idea di Olbers doveva essere cestinata: quindi per classificarli, venne coniata da Herschel una nuova definizione, quella di asteroide.

E Cerere, Pallade, Vesta e Giunone vi furono infilati dentro, benché Piazzi, volendone evidenziarne la differenza rispetto a delle rocce sparse nel cosmo, proponesse di chiamarli Pianetino.

Il tutto cambiò nel 2005, quando, nella fascia di Kuiper furono scoperti Quaoar, Makemake, Sedna ed Eris, di dimensioni comparabili con Plutone. Per cui o i pianeti del nostro sistema solare si sarebbero moltiplicati come conigli, oppure bisognava trovare un altro artificio dialettico per classificare i nuovi corpi celesti.

Così dopo uno sproposito di litigate, ispirata forse da ragionamenti di Piazzi, all’ Unione Astronomica Internazionale decisero di inventarsi la definizione di Pianeta Nano che, cito testualmente

un “pianeta nano” è un corpo celeste che:

  • è in orbita intorno al Sole;
  • ha una massa sufficiente affinché la sua gravità possa vincere le forze di corpo rigido, cosicché assume una forma di equilibrio idrostatico (quasi sferica);
  • non ha ripulito le vicinanze intorno alla sua orbita;
  • non è un satellite.

Qualcuno si accorse del fatto che Cerere, a differenza di Pallade e di Vesta, rispettasse in pieno questi requisiti: così, per magia, non solo si divenne un pianeta nano, ma per di più, ebbe l’onore del primo a essere scoperto.

Ora il fatto che si trovasse fuori posto, ossia non alla periferia del sistema solare, riaccese l’attenzione degli studiosi su Cerere: fu formulata l’ipotesi che Cerere si fosse formato nella fascia di Kuiper, per poi migrare nell’attuale posizione. A questo si aggiunse la volontà di approfondire alcune stranezze geologiche di Vesta.

Per cui il 27 settembre 2007 la NASA, l’ESA e l’ASI, la nostra tanto sottovalutata e poco finanziata agenzia spaziale, lanciarono la missione DAWN.

Il 16 luglio 2011; un lungo cammino, per il quale Dawn poté contare sull’innovativo motore a ioni di cui era equipaggiata, la sonda raggiunse Vesta, dopo verificò come il corpo celeste avesse subito un processo di differenziazione analogo ai pianeti rocciosi, cosa che la rende più simile alla Luna, che a Plutone

Con un nucleo di ferro, formatosi sin dai primi giorni del sistema solare è sopravvissuto all’interno della fascia degli asteroidi a forti e frequenti impatti. Accanto ai risultati sulla mineralogia della superficie, si ha avuto la conferma, grazie allo spettrometro Italiano VIR-MS, come le meteoriti HED provengano proprio da Vesta.

Il 6 marzo 2015 con l’inserimento nell’orbita di Cerere e da quel momento in poi, sono cominciata tante, notevoli scoperte.

Per prima cosa, si è chiarito il mistero dell’atmosfera, ipotizzata in funzione delle osservazioni dell’Osservatorio spaziale Herschel dell’ESA : esiste, ma è variabile. Dipende infatti dalla sublimazione del ghiaccio d’acqua presente sulla superficie di Cerere: più la sua orbita si avvicina al sole, più la sublimazione aumenta, più si allontana, più questa diminuisce, creando una variabilità stagionale

Poi, si è verificato, grazie alla scoperta di criovulcani e di depositi di carbonato di sodio arricchito da cloruri e carbonati di ammonio, frutto dell’attività termale, come Cerere sia geologicamente vivo e che quindi possa avere un nucleo roccioso.

Infine la clamorosa scoperta, sempre dovuta agli italiani,in particolare un team di ricercatori coordinati da Maria Cristina De Sanctis dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, che grazie alle osservazioni del nostro spettrometro VIR, hanno identificato su Cerere la presenza di molecole organiche, ossia composti alifatici (praticamente degli idrocarburi dove non sono presenti delle strutture cicliche come il benzene).

Sulla loro origine, vi sono due scuole di pensiero: la prima è che sia trasportato su Cerere da un altro corpo celeste, per esempio una cometa.

La seconda è che si sia formato proprio su Cerere, dell’interazione tra le sue attività idrotermali e il terreno argilloso, che avrebbe svolto il ruolo di catalizzatore delle reazioni chimiche… Insomma, dai tempi di Palermo, se ne è fatta di strada.

The Terror: l’inquietante trailer della nuova serie Tv tratta dal romanzo di Dan Simmons

KippleBlog

The Terror (La scomparsa dell’Erebus) è uno dei più noti successi dell’autore statunitense di fantascienza Dan Simmons, insieme al Ciclo dei Canti di Hyperion. Ora il romanzo, un mix fra horror e fantascienza, diventerà una serie TV dell’emittente televisiva via cavo AMC diretta da Ridley Scott. La storia racconterà le peripezie del famoso comandante inglese sir John Franklin, che nel 1849 si avventurò alla ricerca del Passaggio a Nord-Ovest senza successo. Sia lui che il suo equipaggio, infatti, scomparirono senza lasciare tracce. Segue il trailer.

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Neve all’Esquilino

Neve1

Piccola premessa: benché, per una volta, fossi d’accordo con la Sindaca sulla chiusura delle scuole, anche solo per evitare che bambini e ragazzi battessero le brocchette per la neve, ero assai scettico sul fatto che potesse nevicare.

Tanto che ieri sera, quando dal lavoro è arrivata una mail, in cui, ridotto all’osso il senso era

Se nevica, lavorate pure da casa

Ho alzato le spalle… Per di più, stanotte, fossero le due, quando mi sono alzato per vedere i primi fiocchi, ero convinto che non attaccassero… Quindi di conseguenza potete capire la mia sorpresa, quando mi sono alzato questa mattina, con un Esquilino innevato

Per mantenerne il ricordo, condivido qualche foto, rubata da amici e conoscenti, perché ahimè ho lavorato come un dannato

 

Però alla fine, non ho resistito e un pausa pranzo, una corsetta, per guardare l’ultima neve l’ho fatta…

 

Poi, vedremo che accadrà domani… Intanto, tre cosine… Qualcuno, che l’Esquilino lo conosce solo da lontano, ha negato come il rone sia a dimensione d’Uomo, solo perché non rispecchia le sue paturnie radical chic…

Ebbene, la nostra migliore risposta è nei fatti… Oggi, citando Paola Morano ed Emiliano Monteverde è successo questo

Alle 11,30/11,40 e per un’oretta circa (se riesco qualcosa in più) chi vuole contribuire, con coperte e sacchi a pelo, può venire vicino al Mercato Centrale di via Giolitti. Farò un cartello con scritta “Raccolta Esquilino”, cosi mi riconoscete e stessa cosa oggi pomeriggio alle 16, ci sarà un’altra persona, Paolo con un cartello simile.

Comunque per chi non potesse negli orari proposti, coperte e sacchi a pelo possono essere sempre consegnati a Binario 95 in via marsala 95 o all’ostello della caritas sempre di via Marsala 109

Non saremo a misura d’Uomo, ma a differenza di tanti, non ci scordiamo di essere umani

Poi come sapete, ho tante perplessità su Stend/Art… Però, visto tutta la sfiga che li sta perseguitando, non voglio infierire e sparare sulla Croce Rossa… Oggi si è toccato il fondo: poverini, si sono beccati una multa per la cosiddetta tassa sull’ombra, che io sapevo essere stata tolta da Marino, su uno spazio, quello dei Portici, che è privato… Insomma, massima solidarietà !

Infine, massimo onore al mio eroe di oggi ! Il tizio che in bici, sotto la tormenta, sventolando una bandiera della Repubblica Cinese, si è fatto su e giù per una decina volte Viale Manzoni.. Ignoro chi tu sia o il motivo, ma fratello, hai tutta la mia ammirazione…

Giuseppe Piazzi, astronomo

Piazzi

Parlando di Plutone, ho accennato al fatto che in realtà, il primo vero pianeta nano scoperto dovrebbe essere Cerere Ferdinandea, la cui scoperta avvenne a Palermo. Dato che di questa vicenda, anche a Balarm, se ne parla pochino, butto giù un post sul suo scopritore, Giuseppe Piazzi, che non sfigurerebbe in nessun romanzo steampunk italiano.

Giuseppe non era siciliano, ma valtellinese: nacque a Ponte in Valtellina, in provincia di Sondrio, il 16 luglio 1746, nono figlio di Bernardo Maria e di Antonia Maddalena Artaria. A differenza di tanti personaggi di cui ho parlato nel blog, era tutt’altro che un morto di fame: il padre apparteneva a uno dei maggiori casati di Ponte, mentre la madre discendeva da una nobile famiglia di Postalesio. Di certo, ebbe un parto difficile: Fu battezzato appena nato, ob imminens vitae periculum; due anni dopo, il 29 ottobre 1748, ricevette il sacramento nella chiesa di S. Maurizio martire di Ponte.

Per ex voto da parte della madre e perché all’epoca era destino dei figli cadetti, Giuseppe fu destinato alla vita ecclesiastica, così nel 1757 entrò nel seminario di Como: cosa che non prese male, sospetto più per amore della cultura che per fede religiosa. Nel 1763 si trasferì a Milano per proseguire gli studi presso il collegio Calchi, a Porta Vigentina, ora sede di una biblioteca e diciamolo così, con qualche piccolo problema strutturale, e la scuola dei gesuiti a Brera, dove fu allievo di quell’immenso erudito che era Gerolamo Tiraboschi, l’autore della prima Storia della Letteratura italiana.

In quel periodo, in cui l’osservatorio astronomico di Brera era diretto Boscovich, gesuita, matematico e astronomo tanto eclettico, quanto dal pessimo carattere, che nonostante tutti i piagnistei dei nazionalisti croati, che tentano di appropriarsene come stella del loro pantheon nazionale, si definiva orgoglioso di essere veneziano, tanto da sfidare a duello un paio di nobili milanesi che gli avevano suggerito di adottare la grafia slava del suo nome; ora a Giuseppe fu affidato il compito di fargli da garzone, doveva tenere pulire e sistemare l’osservatorio, dato che il concetto di ordine di Boscovich era
alquanto peculiare, e da quel momento in poi, nacque la sua passione per le stelle.

Il 16 marzo 1765, nella chiesa di S. Antonio Abate, vestì l’abito dei chierici regolari teatini. In seguito i suoi superiori, interessati più ad avere in casa un mediocre teologo che un ottimo astrologo, lo inviarono a Torino per studiare filosofia sotto la guida di Gregorio Pereira, tomista, soprannominato dai contemporanei padre Sbadiglio, che un cronista dell’epoca così definiva

Frate di nazionalità portoghese,uno di quegli sciagurati che hanno giurato odio mortale a qualsiasi novità nelle scienze e che faceva professione di caldissimo partigiano delle dottrine scolastiche, nascondendo la ignoranza propria collo splendore della cattedra

Giuseppe si salvò da tale condanna grazie padre Giovan Battista Beccaria, che lo indirizzò verso la matematica e la fisica: Beccaria, per chi non lo conoscesse, era un padre Scolopio, corrispondente di Franklin e un poco scienziato pazzo. Intuì la legge di Faraday sulla resistenza elettrica, progettò i parafulmini della Basilica di San Marco a Venezia, del Quirinale e del Duomo di Milano, fece numerosi esperimenti sui condensatori, spesso conclusi con spettacolari esplosioni e fu l’autore del Gradus Taurinensis (misurazione di una porzione di meridiano terrestre che passa dal Piemonte).

Grazie a Beccaria, quando nel 1768 si recò a Roma per stabilirsi nel convento dei padri teatini di S. Andrea della Valle, dove completò gli studi teologici, Giuseppe ebbe una raccomandazione per essere preso come allievo da François Jacquier, gran matematico, astronomo ed esperto in idraulica e prospettiva

Nel 1769 fu ordinato sacerdote e inviato a Genova, dove trascorse tre anni insegnando filosofia ai novizi del suo ordine. Dato che Giuseppe come insegnante se la cavava molto bene, nel 1772, dopo un breve soggiorno romano, si recò a Malta, dove gli venne affidata la cattedra di matematica all’Università del sovrano ordine militare. L’anno seguente tornò in Italia e fu inviato a Ravenna come docente di matematica e filosofia nel Collegio dei nobili. Nel 1779, in qualità di predicatore ordinario, trascorse alcuni mesi dapprima a Cremona e poi a Venezia. Sul finire dello stesso anno fu richiamato a Roma per
ricoprire la carica di lettore di teologia dogmatica nel convento di S. Andrea della Valle. Qui ebbe modo di conoscere padre Barnaba Chiaramonti (futuro Pio VII) e il poeta Vincenzo Monti.

Questa noiosa e normale vita da ecclesiastico e professore cambiò nel 1780 si trasferì a Palermo, dove nel marzo del 1781 ottenne la cattedra di calcolo sublime (calcolo infinitesimale) della Reale Accademia degli Studi a Palermo dove insegnò per ben 46 anni. Nel 1786, Francesco Tomaso d’Aquino, principe di Caramanico, viceré di Sicilia e artefice della costituzione dell’Accademia palermitana, nel tentativo di svecchiare la cultura locale, sapendo della passione di Giuseppe per l’astronomia, gli affidò anche questa cattedra all’Università

Giuseppe colse la palla al balzo, evidenziando, come per i suoi allievi oltre che una formazione teorica, sarebbe servita anche una pratica: per cui, sarebbe stato utile costruire a Palermo un osservatorio astronomico. Il viceré rispose dicendo come tale richiesta, pure sensata, non sarebbe potuta essere esaudita, per la cronica mancanza di fondi. Ma tanto ruppe le scatole Giuseppe, che per toglierselo dalle scatole, il principe di Caramanico presentò la richiesta al re Ferdinando di Borbone, certo che fosse cestinata.

Ma entrambi ignoravano il fatto che il re fosse anche lui appassionato di astronomia: dinanzi a tale richiesta, gli brillarono gli occhi. Non solo Giuseppe ottenne carta bianca, ma spedito in giro per l’Europa per aggiornare le sue competenze di astronomia e comprare gli strumenti più all’avanguardia per la specola di Palermo

Così, nel febbraio 1787 Giuseppe giunse a Parigi e vi rimase per circa sei mesi, durante i quali frequentò le lezioni di Joseph Jérôme de Lalande al Collège de France ed ebbe modo di conoscere Pierre Simon de Laplace e Joseph Louis Lagrange. Nel settembre dello stesso anno partì alla volta di Londra, dove iniziò a collaborare con l’astronomo reale Nevil Maskelyne, con il quale osservò l’eclisse di Sole del 3 giugno 1788. A Londra conobbe anche Sir William Herschel, scopritore di Urano, frequentò l’officina dell’orologiaio svizzero Giosia Eméry per apprendere il funzionamento dei pendoli e
commissionò all’ottico Jesse Ramsden un cerchio verticale intero destinato all’erigenda specola di Palermo.

Il cerchio verticale intero era uno strumento innovativo nel suo genere che, rispetto agli usuali quadranti, permetteva una maggiore precisione nella determinazione della posizione degli astri. Lo strumento che venne richiesto da Giuseppe era formato da due cerchi (uno verticale del diametro di 150 cm e uno orizzontale con un diametro di 90 cm) e da un telescopio con obiettivo acromatico da 75 mm e 1500 mm di focale.Fu la sua testardaggine che consentì al prezioso strumento inglese di giungere in Sicilia: l’astronomo dovette recarsi personalmente a pungolare il costruttore e, in seguito, anche
far fronte a tutte le difficoltà burocratiche che si presentarono: il governo inglese infatti era restio a lasciar uscire dai propri confini uno strumento unico al mondo (che tale è rimasto, altro aspetto fondamentale che ne sottolinea l’altissimo valore attuale).

Pisana

Nel corso dell’estate del 1789 lasciò l’Inghilterra per far ritorno in Sicilia. Durante il viaggio si fermò a Milano per alcune settimane per incontrare Barnaba Oriani, direttore della specola di Brera. Alla fine dell’anno giunse a Palermo e nei mesi successivi si dedicò alla progettazione dell’osservatorio, che, voluto da re Ferdinando, fu costruito tra il 1790 e il 1791 sulla torre Pisana o di Santa Ninfa del Palazzo dei Normanni. Questa era il mastio del vecchio palazzo, costruzione destinata alla custodia dei tesori, manufatto edificato da Guglielmo II di Sicilia col contributo di maestranze pisane e decorata con
mosaici con scene da battaglia, realizzati da artisti arabi e greci.Secondo la tradizione, in epoca sveva con Federico II, la torre era probabilmente uno dei luoghi di riunione della scuola poetica siciliana.Tra le tante cose, comprendeva la Stanza dei Tesori, con doppia porta d’accesso, circondata da camminamenti di ronda coperti da volte maestose e le quattro giare murate nel pavimento che potevano contenere innumerevoli pezzi di monete d’oro.

In questo luogo, pieno di storie e leggende, Giuseppe cominciò un nuovo progetto incentrato sulla misurazione delle posizioni stellari già note per ottenere dati piu precisi sui quali poter lavorare. Collaborò con diversi assistenti tra i quali Nicola Cacciatore (proprio a lui, Nicolaus Venator, dedicò il nome di due stelle del Delfino, Sualocin e Venator, che altri non sono se non nome e cognome letti al contrario). Tra il suo 47° e il 67° anno di età fece 86.000 osservazioni al telescopio del cerchio e 30.000 allo strumento dei passaggi registrando 6748 stelle di cui 1600 osservate per la prima volta.
Grazie alle osservazioni del 1792 riuscì a pubblicare nel 1803 la prima edizione del catalogo “Praecipuarum Stellarum Inerrantium Positiones mediae ineunte Saeculu XIX“, che ripubblicò nel 1814, completato ed emandato con tutte le osservazioni compiute dal 1792 al 1813. Questo catalogo fu premiato dall’Acadèmie des Sciences di Parigi.

Il 1° gennaio del 1801 nella solita consuetudine di calcolare quotidianamente le osservazioni della precedente notte, Giuseppe scoprì un oggetto brillante non riportato nei cataloghi. All’inizio ipotizzò che si trattasse di una stella fissa ancora sconosciuta, ma nei giorni a seguire notò che la stella non si trovava più nella stessa posizione e sospettò che si trattasse di una stella “diversa”. Solo in seguito ad ulteriori osservazioni capì che il nuovo astro era dotato di moto proprio. Ne suo diario scrisse

Risultati delle osservazioni della nuova stella scoperta il dì primo gennaio all’Osservatorio Reale di Palermo – Palermo 1801. Già da nove anni travagliando io a verificare le posizioni delle stelle che si trovano raccolte ne’ vari Cataloghi degli astronomi, la sera del primo gennaio dell’anno corrente, tra molte altre cercai la 87.a del Catalogo delle stelle zodiacali dell’Abate La Caille. Vidi pertanto che era essa preceduta da un’altra, che secondo il costume, volli osservare ancora, tanto maggiormente, che non impediva l’osservazione principale. La sua luce era un poco debole, e del colore di Giove, ma simile a molte altre, che generalmente vengono collocate nell’ottava classe rispetto alla loro grandezza. Non mi nacque quindi alcun dubbio sulla di lei natura. La sera del due replicai le mie osservazioni, e avendo ritrovato, che non corrispondeva né il tempo, né la distanza dallo zenit, dubitai sulle prime di qualche errore nell’osservazione precedente: concepii in seguito un leggiero sospetto, che forse esser potesse un nuovo astro. La sera del tre il mio sospetto divenne certezza, essendomi assicurato che essa non era Stella fissa. Nientedimeno, avanti di parlarne aspettai la sera del 4, in cui ebbi la soddisfazione di vedere, che si era mossa colla stessa legge che tenuto aveva nei giorni precedenti

Seppur convinto di aver scoperto un nuovo pianeta, più prudentemente l’astronomo annunciò di aver individuato una cometa. In seguito, in una lettera indirizzata all’astronomo Barnaba Oriani, scrisse:

avevo annunciato questa stella come una cometa, ma poiché non è accompagnata da alcuna nebulosità, e inoltre il suo movimento cosi lento e piuttosto uniforme, mi è venuto in mente più volte che potesse essere qualcosa di meglio di una cometa.

Giuseppe non poté osservare a lungo l’orbita con i metodi esistenti, ma grazie ad un nuovo metodo per il calcolo delle orbite del matematico Carl Friedrich Gauss riuscì ad individuare di nuovo l’oggetto. Ora che l’orbita era perfettamente determinata si confermò la sua ipotesi, ossia che l’oggetto in questione era un piccolo pianeta, che, in onore del suo mecenate, battezzò Ceres Ferdinandea. Se il Borbone fu felicissimo di tale denominazione, tanto che assegnò in premio a Giuseppe una medaglia d’oro che egli rifiutò perché il premio fosse utilizzato per l’acquisto di altri strumenti, tra i quali un
equatoriale di Troughton che collocò nella seconda cupola dell’osservatorio, questa scatenò una sorta di tempesta diplomatica tra le varie cancellerie europee, tanto che alla fine, per fare tacere i mugugni, rimase solo Ceres, che in questi due secoli ha cambiato status più volte, da pianeta ad asteroide e da asteroide a pianeta nano.

palermo

Di seguito, Giuseppe si impegnò in un incarico, come dire, architettonico… L’Arcivescovo di Palermo era stato in visita a Roma, dove aveva ammirato la meridiana di Santa Maria degli Angeli. Tornato a casa, aveva deciso di replicarla nella sua cattedrale, imponendo a Giuseppe di lavorarci.

Progetto che si dimostrò son subito più difficile del previsto, dato che la meridiana doveva essere inserita in modo da poter essere consultata senza intralciare le funzioni e senza disturbare i fedeli in preghiera nella cattedrale. Inoltre, la meridiana a “camera oscura” (vale a dire, costruita in interno) doveva poter contare sull’apporto di luce durante tutto il periodo dell’anno e in ogni momento della giornata. Cosa che veniva impedita dalla prossimità degli altri edifici di quest’area di Palermo. Ulteriore impedimento strutturale era la presenza delle colonne che dividono la navata centrale dal quelle laterali.

La locazione scelta per la meridiana, alla fine, vanificò la il primo intento: quello di non intralciare le funzioni religiose. Infatti fu posta con orientamento sudovest – nordest proprio ai piedi dell’altare maggiore.La meridiana della Cattedrale di Palermo, inaugurata nel 1811, è lunga più di 21 metri. Lo gnomone, vale a dire lo strumento per misurare l’ora, è un foro situato in una cupola della navata laterale destra che proietta il sole lungo l’asse della meridiana, adornata con i simboli zodiacali.

Nel 1817, da aprile ad agosto, Giuseppe soggiornò a Napoli per sovraintendere ai lavori dell’erigendo osservatorio di Capodimonte. Nello stesso anno pubblicò in due volumi le Lezioni elementari di astronomia ad uso del real osservatorio di Palermo. Rientrato a Palermo, vi rimase pochi mesi e ripartì alla volta di Napoli nel gennaio del 1818. Nel 1819, anno in cui venne ultimata la costruzione della specola partenopea, Piazzi fu eletto socio dell’Accademia delle scienze di Parigi in qualità di membro pensionato. Nel 1822 fece ritorno a Palermo. Nel 1824 fu richiamato a Napoli per ricoprire la carica di presidente della Reale Accademia delle scienze e fu nominato membro della Commissione per la pubblica istruzione in Sicilia.

Dopo questa lunga vita al servizio della scienza, morì a Napoli il 22 luglio 1826 e secondo le sue volontà, le sue spoglie furono deposte nella Basilica di San Paolo Maggiore.

Uno sguardo a Plutone

Plutone

Anche se l’interesse americano per Plutone risulta essere più frutto di orgoglio nazionale, essendo questo pianeta nano stato scoperto dal loro connazionale Clyde William Tombaugh, se a Palermo si ragionasse così, via Maqueda sarebbe piena di negozi e b&b intitolati a Cerere Ferdinandea, senza dubbio alcuno la sonda New Horizons ci ha permesso di guardare quel corpo celeste sotto una nuova luce e capire tante cose sulla struttura della periferia del sistema solare.

Prima del suo viaggio, sapevamo come Plutone avesse un diametro di circa 2200 km, almeno cinque lune, con Caronte la più grande e Stige, Notte, Cerbero e Idra a fare da comparse, un’atmosfera tenue e una superficie rossastra, che ipotizzavamo essere composta di metano, azoto e monossido di carbonio, e forse una calotta polare. Il che a dire il vero, era assai di più di quanto si sapesse ai tempi in cui io poltrivo sui banchi di scuola.

New Horizons ha permesso, in maniera alquanto inaspettata, di scoprire un corpo celeste ben più complesso e attivo di quanto sospettassimo.

Per prima cosa, abbiamo avuto la conferma dell’esistenza di questa benedetta atmosfera, che però si comporta in maniera ben diversa da quanto sospettassimo: arriva all’altitudine di un centinaio di Km e pur avendo pochissime nubi, è costituita da decine di strati concentrici di foschia, una sorta di Val Padana cosmica.

Pur avendo una pressione atmosfera ridicola, 11 microbar, il suo tasso di perdita, ossia la sua percentuale di dispersione nello spazio, che dovrebbe essere altissima, è analogo a quello terrestre e non se ne capisce bene il motivo.

Plutone in teoria dovrebbe essere senza atmosfera, ma dei nostri modelli matematici se ne frega altamente, avendone una di uno splendido azzurro, con un cielo che ricorda il nostro.

Seconda cosa, abbiamo scoperto come Plutone sia lievemente più grande di quanto avessimo stimato, con un diametro di 2375 Km. Il che significa, essendo nota con certezza la massa, come la sua densità sia minore del previsto: per cui è probabile come sia costituito da un nucleo roccioso, circondato a centinaia di km di profondità, quando temperatura e pressione raggiungono il punto di fusione dell’acqua, da un immenso oceano, su cui galleggia un mantello di ghiaccio d’acqua, su cui è poggiata una sottile crosta di ghiaccio d’azoto.

Una crosta del genere, però, avrebbe dovuto avere una superficie liscia come una pista di pattinaggio: però New Horizons ha mostrato qualcosa di ben differente.

Una superficie tormentata, piena di montagne più alte delle nostre Alpi, con calotte di neve di metano, di terreni caotici e scarpate, vulcani di ghiaccio, all’equatore migliaia di pozze di idrocarburi liquidi, persino una pianura, dedicata alla Sputnik, grande quanto Spagna e Italia messe assieme. Tutta questa complessità è indipendente dal bombardamento meteoritico, per cui, Plutone deve essere geologicamente vivo e con u
nucleo caldo, anche se non abbiamo chiaro quale possano essere le fonti di energia che alimentano questi continui cambiamenti

In più le tracce di canali di drenaggio e di laghi congelati, fa pensare come in passato la pressione atmosferica doveva essere ben più elevata di quella di Marte.

Caronte

Inoltre, sempre grazie a New Horizons, abbiamo idee un poco più chiare sui suoi satelliti: abbiamo scoperto come Caronte, pur non avendo atmosfera ed essendo geologicamente morto, subito dopo la sua formazione, 4 miliardi di anni fa sia stato iperattivo, dando origine a vaste pianure ghiacciate, a canyon che farebbero invidia a quello della Morte Nera e montagne varie.

Abbiamo scoperto l’esistenza di una calotta polare rosso sangue: il che ci permette di spiegare che fine abbia fatto parte dell’atmosfera di Plutone. Un qualche cataclisma l’ha fatta depositare nei poli del suo satellite, dove gli ultravioletti hanno trasformato il metano e l’azoto in idrocarburi di quel colore.

satelliti

Parlando dei satelliti minori, sappiamo come siano contemporanei di Caronte, generati dallo stesso cataclisma cosmico che coinvolse Plutone quattro miliardi d’anni fa e che la loro presenza forse distrusse gli anelli che circondavano il pianeta nato, nei suoi tempi primordiali.

Abbiamo scoperto infine che, per colpa del balletto gravitazionale tra Plutone e Caronte, mancano della sincronizzazione tra rotazione e rivoluzione orbitale, tipica dei satelliti dei giganti gassosi, il che potrebbe rendere il sistema orbitale instabile…

Così raccolti questi dati e migliaia di altri, che saranno esaminati nei prossimi anni, New Horizons è pronti per il nuovo viaggio, dedicato alla fascia di Kuiper

George R.R. Martin: il prossimo libro non sarà I Venti dell’Inverno

KippleBlog

George R.R. Martin, l’autore fantasy creatore della saga Le Cronache del ghiaccio e del fuoco da cui è tratta la serie TV Trono di Spade, ha dichiarato ultimamente sul suo Livejournal Not a Blog che il prossimo libro non sarà I Venti dell’Inverno (The Winds of Winter), deludendo così i tantissimi fan che aspettano l’uscita del romanzo ormai da più di sette anni. Stando a quanto dichiarato dall’autore, il prossimo libro dovrebbe essere infatti il primo dei due volumi chiamati Fire and Blood che, seppur ambientati nello stesso universo narrativo di Le Cronache del ghiaccio e del fuoco, racconteranno una storia diversa. Sembra così essere molto probabile che I Venti d’Inverno non verrà pubblicato se non dopo il 2018. 

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Sussidiari medievali

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Nel Medio Evo, il percorso di studi, per chi poteva dedicarvisi, era molto simile al nostro: dopo una fase in cui si imparava a leggere, a scrivere e fare di conti, si approfondiva la grammatica e si dava un’infarinatura di cultura generale.

Con la fondazione delle università medievali, ciò parve insufficiente, per cui, per rendere i goliardi meno asini come avviene nei nostri Licei si cercò allora di offrire una preparazione a tutto campo nelle sette discipline ritenute fondamentali, e arti liberali descritte da Marziano Capella nel suo De Nuptiis Philologiae et Mercurii.

Queste erano distinte nel Trivio, Artes Sermocinales, studi finalizzati a preparare alla discussione, ossia la grammatica, la retorica e la dialettica e il Quadrivio, Artes Reales, studi finalizzati a preparare la vita reale, l’aritmetica, la geometrica, l’astronomia e la musica.

Che libri usavano però, gli studenti medievali ? I più diffusi erano quelli della raccolta detta degli degli Auctores Otto:

  • Disticha Catonis, una raccolta di sentenze morali in coppie di esametri latini, di paternità e origine incerte, probabilmente del 3° sec. d.C che veniva usata per l’insegnamento base della grammatica, sia per il contenuto moraleggiante, sia per la confusione tra Catone il Censore, Catone l’Uticense e il vero autore, tale Dionisio Catone;
  • Ecloga Theoduli, un componimento in 344 esametri leonini, risalente all’anno 1000, articolata come una tenzone fra il pastore Psèusti (la Menzogna), che difende il paganesimo, e la pastorella Alitìa (la Verità), che difende i dogmi cristiani. I due personaggi confrontano episodi e personaggi della mitologia classica con quelli della storia sacra: l’età dell’oro con il Paradiso terrestre, il diluvio pagano con quello cristiano, Ercole con Sansone, Orfeo con David, finché Fronèsi (la Ragione) assegna la vittoria ad Alitìa;
  • La Chartula di Bernardo di Cluny, in complicatissimi esametri dattilici in tre sezioni, privi di cesura, con rime finali ed una femminile rima leonina tra le due prime sezioni, che mettono paura solo a descriverli, che incitava gli studenti alle virtù ascetiche;
  • Il Facetus in esametri, che nonostante il nome non era che una raccoltad di noiosissime sentenze morali in versi;
  • Il Tobias di Matteo di Vendôme, una trascrizione in esametri dell’omonimo libro della Bibbia;
  • Il Liber parabolarum di Alano di Lilla, una raccolta di aforismi di quel teologo, che rispetto agli altri testi, per ironia ed agilità mentale dell’autore, capace stesso tempo sagace e spiritoso, era probabilmente l’unico che non faceva sbadigliare gli studenti;
  • Esopus, una raccolta delle fiabe di questo autore latino;
  • Il Floretus, un’antologia delle tante riflessioni di San Bernardo di Chiaravalle.

Un’alternativa a questi testi, diffusa soprattutto in Italia era De vita scolastica di Bonvesin de la Riva, instancabile poligrafo milanese, autore della prima guida turistica della città meneghina, esprime le sue teorie sull’educazione in 936 versi , disposti in distici elegiaci, altra opera di una noia mortale.

Nella prima quartina, infatti, che funge da proemio, il caro Bonvesin dichiara ciò che intende esporre, non senza l’aiuto di Cristo. Nell’introduzione, che occupa i successivi 18 versi, vengono descritti metaforicamente sia la sapienza che i benefici destinati a coloro che la raggiungeranno. La maggior parte dell’opera, (745 versi) è rivolta al discipulus, che dovrà acquisire le quinque claves sapiencie. La prima,descritta da Bonvesin in ben 468 versi, esorta al “timor di Dio” attraverso due vie, la rinuncia al male, come la lussuria, la gola e l’avarizia, e la pratica del bene, in particolare con un saggio eloquio ed una costante devozione a Dio e ai santi.

La seconda chiave, a cui l’autore dedica 214 versi, espone i cinque modi di riverire il maestro: condurre una vita onesta, studiare il più possibile, obbedirgli, ricompensarlo con prontezza, spontaneità e correttezza, e infine offrirgli anche piccoli doni. Alla terza chiave, che raccomanda di leggere costantemente, l’autore dedica solamente 32 versi; 18 sono riservati alla quarta, che raccomanda di porre domande sia al maestro che ai più piccoli; solamente dieci versi per l’ultima chiave, che stabilisce di imparare a memoria gli insegnamenti, leggendoli con assiduità e ripetendoli per sé e per gli altri

Al maestro, subito dopo, Bonvesin dedica 162 versi. Tre sono gli observanda che egli è tenuto a rispettare: al primo di essi vengono dedicati 30 versi, nei quali il maestro viene esortato a seguire una condotta “esemplare”; il secondo, descritto in 82 versi, prescrive di “conformare”gli scolari ai buoni costumi; il terzo, che occupa i 48 versi prima del “congedo”, suggerisce infine di “tramandare l’arte” con coraggio.

Insomma, la scuola, in fondo, poco è cambiata… E’ sospetto che i che i miei antenati nel Medioevo, si annoiassero tanto quanto il sottoscritto, quando erano costretti a stare seduti nei banchi !

La civiltà dell’Oxus

 

Una delle civiltà più affascinanti e poco conosciute dell’Asia nell’età del Bronzo è il cosiddetto Complesso archeologico battriano-margiano (BMAC, abbreviazione dall’inglese Bactrian–Margianan Archaeological Complex), nome alquanto bruttino, io preferisco Civiltà dell’Oxus, dal nome greco dell’Amu Darya, che designa una cultura dell’Asia centrale risalente all’età del bronzo, datata fra il 2200 e il 1700 a.C. ed estesa nei territori dell’odierno Turkmenistan, Afghanistan settentrionale, Iran nord-orientale, Uzbekistan meridionale e Tagikistan occidentale, che corrisponde approssimativamente all’area geografica dell’antica Battriana (area della moderna Balkh) e della Margiana, il nome greco che designava la satrapia persiana di Margu (la cui capitale era Merv).

Civiltà la cui scoperta cominciò subito dopo la Seconda Guerra Mondiale dagli archeologi sovietici con una modalità, come dire, ottocentesca, basata sullo

scava trincea, arraffa reperto e documenta se ti avanza tempo

e che raggiunse il suo culmine grazie a Viktor Sarianidi, archeologo russo di origine greca; i suoi genitori, di origine pontica, erano scappati in Crimea per sfuggire ai massacri turchi. Sarianidi era una figura che sembrava uscito da un racconto di Kipling: egocentrico, sognatore, mistico grande protagonista di un’archeologia dalla conduzione personalistica, convinto sostenitore del “fardello dell’Uomo Bianco“, uomo profondamente religioso e fervente comunista.

La sua prima grande scoperta è del 1979, nel Nord dell’Afghanistan, circa un anno prima dell’Invasione Sovietica Tillya Tepe (la «collina d’oro») porta alla luce sei tumuli funerari ricolmi di oltre ventimila gioielli d’oro appartenuti a una civiltà nomade del I secolo a.C., il famoso «tesoro della Battriana». Un altro ne sarebbe rimasto soddisfatto, ma Sarianidi ha ben altro per la testa. Lo affascinano infatti i siti protostorici dell’area.

Così comincia una serie ventennale di campagne archeologiche, in condizioni proibitive, che lo portano a scoprire oltre 200 insediamenti risalenti all’età del Bronzo e agli inizi dell’età del Ferro. Ricerche di cui in Occidente si sa ben poco: da una parte vi è la cortina di ferro, dall’altre le poche notizie che filtrano, sono considerate frutto della propaganda sovietica. Nel 1990, con il crollo dell’Urss, Sarianidi si ritrova senza un rublo di finanziamento.

Ma non demorde: vende tutto quello che ha, per finanziare un ultima grande spedizione archeologica e con pochi, fidati assistenti, sposta le sue esplorazioni più a nord, nel delta di un altro fiume, il Murghab, le cui acque scaturiscono dalle montagne dell’Hindukush e si sperdono nelle infinite sabbie del Karakum, non prima, però, di dare forma a un vasto reticolo di oasi.

In una di queste, uguale a tante altre per un profano, che i nomadi locali chiamano Gonur, la grigia, Sarianidi scopre una grande città, protetta da mura possenti: è la capitale di un’antica civiltà delle oasi, estesa – come sappiamo oggi – su un territorio di circa 1600 chilometri quadrati, contemporanea alle grandi culture fluviali protostoriche del Nilo, della Mesopotamia e dell’Indo.

La città aveva un palazzo centrale protetto da mura fortificate con torri rettangolari. Fuori da queste mura, sul lato orientale, è stato scoperto il più antico Tempio del Fuoco noto, il che fa pensare come nell’area si praticasse una sorta di proto-zorastrismo. Templi sacrificali erano stati costruiti lungo i lati meridionali e occidentali delle mura. Questi templi erano circondati da una seconda serie di mura monumentali rinforzate. A sud sono state ritrovate due piscine (una delle quali misura 100 metri per 60), in base alle quali si è ipotizzato che la popolazione di Gonur venerasse l’acqua.

L’identificazione con l’oggetto delle sue scoperte fu, per Sarianidi, totale:

«Nessuno credeva che qualcuno avesse potuto abitare questo luogo desolato, fino a quando non sono arrivato io»,

così si vantava.. E, confessando il suo attaccamento a una terra dura e inospitale, ma che gli aveva restituito la gloria, aveva aggiunto:

«Sono tra quelli che non possono vivere senza il deserto, non c’è un posto simile al mondo; né moglie, né bambini, solo il silenzio, Dio e le rovine»

Dopo la scoperta di Gonur, gli archeologi occidentali si convinsero su come le notizie su un’antica civiltà esistente sulla via della seta non fossero così campate in aria. Per cui, si dedicarono a una serie di campagne di scavo, che se da una parte rimisero in discussione alcune tesi di Sarianidi, specie quelle relative a un regno unitario, ci hanno permesso di comprendere meglio le dinamiche evolutive dell’area.

Allo stato attuale sappiamo come che in epoca eneolitica esistessero già dei villaggi in Margiana in quanto questa regione era allora vitalizzata dal delta interno del Murghab che consentiva, oltre all’allevamento del bestiame, anche lo sviluppo di una attività agricola vantaggiosa. Grazie all’accumulo di risorse e il rapporto ambiguo con kurgan, nomadi predoni da cui proteggersi costruendo i primi centri urbani fortificati, ma anche commercianti e immigrati capaci di portare nuove idee e conoscenze, si attiva un forte processo di sviluppo culturale.

Processo favorito, Verso la metà del III millennio, dallo sviluppo della Via delle Oasi (la futura “Via della Seta”) che raccordava la Valle dell’Indo al Mar Rosso e al Mediterraneo, conseguenza del fatto che Ur importava ingenti quantitativi di lapislazzuli e pietre semi-preziose dall’Afghanistan.

Per un insieme di fattori avversi, tra cui il declino della Civiltà dell’Indo e il progressivo abbandono delle rotte carovaniere a favore di quelle fluviali e marittime, per sopravvivere, Margiana e Battriana furono costrette a produrre oggetti appetibili dai mercati del Vicino Oriente Antico, sfruttando le risorse materiali e culturali di cui disponevano. Nacque la cultura Bactrio-Margiana che stimolò dal 2000 al 1750 a.C. la produzione degli ateliers di Adji Kui.

Con il collasso della fine dell’Età del Bronzo dei principali importatori dei beni prodotti in quell’area, cominciò un lungo periodo di crisi economica, così intorno al 900 a.C. nell’oasi di Merv si verificarono alcuni cambiamenti decisivi. La maggior parte dei territori prima abitati venne abbandonata dalla popolazione, e la vita si spostò più a Sud, non solo a causa di trasformazioni ambientali ma probabilmente anche per mutamenti etnici. Il sistema di popolamento rimase comunque lo stesso del periodo precedente, in oasi di modeste dimensioni. Il centro più importante in quest’epoca era il sito di Yaz Depe, il maggiore insediamento dell’oasi nella prima Età del Ferro. L’arte della glittica e della coroplastica fu completamente dimenticata, e l’architettura acquistò un carattere più primitivo. L’unica forma di arte figurativa era la pittura vascolare, ma anche questa esclusivamente geometrica.

Le cose cambiarono poi con l’arrivo di Alessandro Magno, ma questa è un’altra storia… Negli ultimi anni, ai lavori sul campo, gli archeologi hanno affiancato anche una ricerca filologica sui reperti di incerta provenienza presenti sul mercato antiquario, provenienti da scavi clandestini di necropoli. Lavoro che ha aiutato a scoprire parte di un universo “mitologico” dimenticato. I primi reperti associati da queste ricerche alla civiltà dell’Oxus sono i cosiddetti balafré, gli sfregiati, statuette alte una ventina di centimetri, in clorite, che rappresentano figure maschili stanti e muscolose, dall’espressione brutale, come vecchi soldati che hanno visto troppe battaglie, con una folta barba, un vaso stretto sotto il braccio e una pelle coperta da scaglie di rettile.

Il nome gli deriva dai profondi tagli, simili a ferite, che sfregiano loro il volto. Le labbra, sono attraversate da una coppia di fori cilindrici, come se vi fosse stato un piercing; inoltre, il personaggio è rappresentato come guercio. Tutti questi particolari, collegate anche alla venerazione dell’acqua testimoniata dagli scavi di Gomur, fanno pensare a un mito analogo a quello babilonese di Marduk e Tiamat, in cui un antenato mitico lotta contro un mostro primordiale, magari per liberare la pioggia, il versare il contenuto del vaso, dalle nubi.

Partendo da somiglianze stilistiche sia con i balafré, sia con le cosiddette principesse, di cui è certa la provenienza dalle tombe dell’Oxus, che potrebbero rappresentare la Madre Terra, resa viva dalle acque, si sospetta come la Leonessa Guennol, una delle più misteriose e costose statuine dell’antico Oriente, e opere simili, possano appartenere alla stesso ciclo mitico, rappresentando l’avversario, la signora del deserto e dell’aridità, sconfitta dall’eroe sacrale.

Così, i defunti dell’Oxus venivano accompagnati nel loro ultimo viaggio dalla rappresentazione del dramma sacro relativo al ciclo delle stagioni, che in vita condizionava i loro lavori agricoli e il loro benessere..