Antonio Giovanni Lebolo

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Sempre in ambito delle potenziali vicende dello steampunk italiano, riprendo la strana vicenda di Antonio Giovanni Lebolo.

Antonio era nato il 22 gennaio del 1781 a Castellamonte, nel Canavese; il papà era un ricco commerciante di granaglie e la sua vita sarebbe corsa lungo binari usuali, se come tanti piemontesi dell’epoca, non si fosse innamorato dell’epopea napoleonica. Cosa non gradita dal padre, codino e grande sostenitore dell’Ancien Régime.

Così desideroso di avventure e stanco di litigare con il padre, a diciotto anni Antonio, si arruolò volontario nell’esercito napoleonico, dove conobbe Drovetti, all’epoca segretario del Comitato di sicurezza generale del governo provvisorio di Torino il quale prendendolo in simpatia per l’origine canavese, gli diede l’incarico di sovraintendere all’arruolamento di truppe in Piemonte. Compito che Antonio portò avanti con più entusiasmo che risultati concreti.

In compenso, si rafforzò l’amicizia con Drovetti; entrambi divennero il gatto e la volpe di filonapoleonici piemontesi: militarono nella 1ademi-brigade piemontese, parteciparono alla battaglia di Marengo, dove fu testimone dell’eroico salvataggio compiuto da Drovetti nei confronti di Murat, poi infine si accasarono nello squadrone negli ussari piemontesi, dove Antonio fu ferito in un’azione contro gli austriaci

Dato che il suo amico Drovetti aveva smesso di dedicarsi alla vita militare, Antonio decide di imitarlo. Però, visto che il padre lo considerava un traditore della causa savoiarda e gli aveva tagliato i viveri, fu costretto a trovarsi un lavoro.

Grazie alla raccomandazione del solito generale Colli, Antonio entrò nella polizia, visse a Milano, dove, trasformandosi in una specie di Sherlock Holmes, divenne l’incubo della ligera dell’epoca, e fu fedele alla causa di napoleonica sino alla caduta dell’impero. Dopo Waterloo, come molti altri, si ritrovò intorno terra bruciata e decise di cambiare aria: il problema era dove andare, visto che a casa continuavano a non volerlo. Fortuna volle che, mentre oziava in un’osteria a Porta Comasina, per caso scoprì come il suo vecchio amico Drovetti fosse diventato console in Egitto.

Per cui, presi armi e bagagli, decise di andare a trovare Drovetti,che avendo fatto carriera, sicuramente gli avrebbe dato una mano a sistemarsi in terra straniera; ahimè, quando arrivò ad Alessandria d’Egitto, trova il suo amico nella stessa situazione, senza arte né parte.

Entrambi, però, non si perdono d’animo, trasformandosi in cacciatori e commercianti di anticaja e petrella egizie. Proprio per il rapporto con Drovetti, Antonio, più che un impiegato, fu una sorta di socio di minoranza. Drovetti lo autorizzò a scavare parecchio per conto suo e, alla fine, gli diede in dono una schiava africana che l’esule di Castellammonte convertì al cristianesimo e sposò qualche anno più tardi.

E in uno di questi scavi autonomi, un giorno non precisato fra il 1819 e il 1821 Antonio uscì dal suo antro nella Valle dei Re per il consueto giro a caccia di antichità egizie. Come quasi tutti nel distretto di Gurna, abitava una tomba arredata alla meno peggio e combatteva l’umidità bruciando pezzi di sarcofago. Fuori, fra le asperità della necropoli tebana, lo attendeva il suo squadrone di operai pronto per una nuova tornata di scavi. Sembrava una giornata come tante altre, almeno sino a che le urla eccitate dei fellah egiziani non annunciarono la grande scoperta. Fra le pieghe del terreno era stato trovato un sepolcro intatto. All’interno, oltre a qualche povero oggetto di legno, c’era un mucchio polveroso di corpi bendati, undici mummie.

Antonio ne fu tanto contento, che sulla parete di quella tomba, che gli archeologi hanno poi classificato con il numero 32, tracciò la sua firma. Ma ahimè, l’entusiasmo per la scoperta svanì rapidamente. Nessuno voleva comprare quelle mummie. Preso dalla disperazione, tento di piazzarle anche alla concorrenza, a Salt, a un prezzo iperscontato, ma non vi fu verso

Gli rimasero sul groppone, sino a che, nel 1825, dopo la morte del padre e stanco di scavare tombe nel deserto, Antonio se ne tornò a Castellammonte, dove passò gli ultimi anni, morì nel 1830 a dedicarsi alla bella vita, in uno straordinario lusso orientale.

Per liberarsene, Antonio le appioppò a uno spedizioniere di Trieste, Albano Oblasser, perché li mettesse in vendita. La transazione avvenne nel 1833, e l’acquirente fu tale Michael H. Chandler di New York. Le undici mummie così varcarono l’Atlantico e per cominciare una tournée nel nuovo mondo. Chandler, che si spacciava per un nipote di Antonio, le espose per la prima volta a Philadelphia dell’aprile del ‘33 e, strada facendo, prese a venderne una dopo l’altra (il che immagino, in qualunque luogo dell’oltretomba sia finito, abbia fatto rosicare alquanto il buon piemontese)

Nel febbraio del 1835 l’insolita carovana arrivò a Hudson nell’Ohio che le spoglie egizie erano ridotte a quattro, numero sufficiente per attrarre l’attenzione di un personaggio fuori dal comune come Joseph Smith, il profeta della Chiesa dell’Ultimo Giorno. Per il padre della religione dei mormoni fu un’illuminazione: acquistò le antiche reliquie e da queste trasse undici frammenti di papiro che tradusse a modo suo e nei quali riconobbe il «Libro di Abramo», volume destinato a diventare uno dei testi sacri fondamentali della Chiesa.

Questi papiri furono in seguito venduti, finirono in un museo, si credettero perduti nel grande incendio di Chicago del 1871, e sono infine riapparsi nel 1966 nel Metropolitan Museum of Arts di New York che, senza pensarci due volte, li ha restituiti ai mormoni. Ora sono conservati con tutti gli onori nello Utah

Il paradosso è che, se nel Canavese pochi conoscono la storia di Antonio, a Salt Lake City, capitale dei mormoni, è invece una mezza celebrità. E ogni tanto qualcuno dall’Utah, parte a visitare la sua casa…

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