Nihil sub sole novum, così diceva Qohelet nella Bibbia, riflettendo sull’eterno ripetersi degli eventi: questo vale per le persone, per le storie e per la città, specie per quelle come Roma, che cominciano ad avere parecchi secoli sul groppone.
Un esempio di ciò è nell’evoluzione del quartiere di porta Marina a Ostia: sino alla seconda metà del I secolo a.C. l’area tra quel tratto di mura e il mare non era che dune e macchia mediterranea: da quel momento in poi, a causa della aumento della popolazione di Ostia, anche questa porzione del territorio fu soggetta a una rapida urbanizzazione.
Sulla strada sterrata diretta verso la spiaggia in pochi anni furono costruiti edifici di carattere residenziale, commerciale, religioso e funerario.
Tra i primi spiccava la Domus Fulminata, che prende il nome da un piccolo tumulo in muratura cosiddetto bidental, dedicato alla sepoltura rituale di oggetti colpiti da un fulmine, identificato grazie alla targa di marmo con le lettere FDC : F (ulgur) D (ium) C (onditum)
Complesso che è costituito da taverne, negozi e un’ampia unità abitativa sulle quali da anni gli archeologi si stanno interrogando, per le sue stranezze, come la mancanza dell’atrio e per il fatto che si pranzasse all’aperto, dato che nel peristilio sono presenti tracce di letti triclinari.
Inizialmente si è pensato a una sorta di condominio di lusso, poi alla sede di una sorta di confraternita, i cui membri celebravano le festività con pasti comunitari nel cortile; ad oggi, sembra tornata in auge l’idea , anche a causa della ricca decorazione a mosaici, che si trattasse di una villa estiva, in cui vi si trasferiva nei mesi più caldi qualche ricco romano, come ad esempio Publius Lucilius Gamala, uno dei tanti amici di Cicerone, il quale, per sfuggire all’afa, amava pranzare all’aperto.
Accanto alla Domus Fulminata, vi era il santuario di Bona Dea, probabilmente l’equivalente latino della Signora dei Serpenti Micenea, identificata con la moglie di Fauno.
Secondo il mito, questa era molto abile in tutte le arti domestiche e molto pudica, al punto di non uscire dalla propria camera e di non vedere altro uomo che suo marito. Un giorno però trovò una brocca di vino, la bevve e si ubriacò. Suo marito la castigò a tal punto con verghe di mirto che ne morì
Che si trattasse di un culto residuale dell’età del Bronzo, lo testimoniano diversi indizi: il fatto che fosse un mysteria, con il rituali, da cui erano esclusi gli uomini, coperti da segreto, come a Eleusi… Da quello che sappiamo a spizzichi e bocconi, come vittima sacrificale veniva offerta alla dea una scrofa; la sala della festa si ornava di tralci di vite, mentre non doveva comparirvi il mirto; nel rito, accompagnato da musica e da danze, aveva larga parte anche il vino, il quale però veniva sempre ricordato con falso nome.
Il tempio di Ostia fu fatto costruire da Gamala, come dichiarazione di supporto politico a favore di Cicerone, visto che il suo nemico Clodio, era stato coinvolto in un brutto scandalo.
Nel 62 a.C. Clodio, amante di Pompea, moglie di Cesare, era stato eletto come questore per l’anno successivo (61 a.C.) e nel dicembre del 62 a.C. era in attesa di ottenere ufficialmente l’incarico di amministratore finanziario di una delle province dell’Impero. La notte tra il 4 ed il 5 dicembre si celebravano i Damia, le festività in onore della Bona Dea, che in quell’occasione venivano svolti nella casa di Cesare, che ricopriva la carica di Pontifex Maximus, ed erano ovviamente vietati agli uomini e officiati esclusivamente da donne. Non è ben chiaro per quale motivo lo fece, fatto sta che quella notte Clodio decise di travestirsi da donna per poter entrare in casa mentre si preparava ogni cosa per la cerimonia. Scelse le vesti da flautista per non essere riconosciuto e si presentò ad Abra, una delle ancelle di Pompea che era a conoscenza della loro relazione. La schiava andò ad avvertire la padrona della presenza di Clodio, ma nello stesso momento un’altra ancella lo vide e diede l’allarme. Tutte le donne presenti in casa accorsero, compresa la madre di Cesare, Aurelia Cotta, che cacciò via l’uomo.
E’ Cicerone in una delle sue lettere ad Attico (I, 12, 3) a ricordare l’evento:
“Publio Clodio, figlio di Appio, è stato colto in casa di Gaio Cesare mentre si compiva il sacrificio rituale per il popolo, in abito da donna, ed è riuscito a fuggire via solo per l’aiuto di una servetta; grave scandalo; sono sicuro che anche tu ne sarai indignato”.
Per quanto riguarda le ragioni che lo spinsero a tale gesto alcuni non ritengono sufficiente l’espediente amoroso per stare con l’amante, ma pensano che potesse essere un atto di sfida nei confronti dello stesso Cicerone, console, che l’anno precedente aveva avuto un auspicio favorevole proprio dalla Bona Dea.
In un primo momento la vicenda non ebbe grande risonanza ma il cesariano Quinto Cornificio, il 1 gennaio del 61 a.C. riportò l’accaduto davanti al Senato e fu quindi necessario istituire un processo contro Clodio e sia le Vestali che i Pontefici ordinarono che fossero ripetuti nuovamente i Damia, ritenuti non validi perché profanati.
Il giovane fu accusato di incestus ma si riuscì ad evitare che venisse processato fino alla metà di aprile. Le prove contro di lui erano comunque schiaccianti e a queste si univa la condotta sempre scellerata di Clodio. Egli si vide costretto a mandare via dall’Italia parte dei suoi servi per evitare che potessero essere interrogati, ma questo non bastò in quanto la sua colpevolezza fu confermata dalle testimonianze della madre e della sorella di Cesare, il quale però decise di non testimoniare. Cesare ripudiò Pompea che non venne ritenuta una teste attendibile e quindi non venne neanche chiamata. La difesa di Clodio provò a sostenere che durante le festività in oggetto il giovane fosse altrove, ma lo stesso Cicerone, che pure aveva con Clodio buoni rapporti, testimoniò di averlo incontrato a Roma poco prima che entrasse in casa di Cesare. La sua testimonianza fu inaspettata, ma la spiegazione del suo gesto si trova in un altro passaggio della lettera ad Attico (I, 16, 5):
“Constatato quanti pezzenti erano tra i giudici, ammainai le vele e nella mia testimonianza mi limitai a deporre quello che, essendo di dominio pubblico, non si poteva passare sotto silenzio”.
Clodio, nonostante la testimonianza di Cicerone potesse farlo condannare a morte, riuscì a essere assolto corrompendo gran parte della giuria e ad ottenere la questura in Sicilia.
Tornando a Ostia sia la Domus Fulminata, sia il santuario della Bona Dea si affaccianvano sul Foro di Porta Marina, dedicato al mercato, un recinto di forma quasi quadrata, con un lato di circa 40 metri, con un ingresso tripartito, circondato da un portico su tre lati e con un’ampia abside sul fondo.
Nell’area circostante sorgeva un enorme mausoleo, che, dalla decorazione marmorea ritrovata, doveva celebrare un ammiraglio. Mausoleo che, durante l’inverno, era spesso vittima delle mareggiate: la situazione cambiò in età flavia, quando la spiaggia si era leggermente ingrandita.
Sotto Vespasiano, fu realizzato il primo lungomare e al contempo, sotto Domiziano, l’area fu collegata all’acquedotto, cosa che le assicurò la fornitura dell’acqua corrente, il che la rese assai più appetibile alla speculazione edilizia, la quale raggiunse il culmine sotto Adriano.
Grazie al diretto interesse dell’imperatore, che forse aveva delle proprietà in zona, fu realizzata una vasta lottizzazione, centrata sulle terme della Marciana, che prendono nome dalla sorella di Traiano, di cui fu ritrovata una statua, nella cui decorazione spicca un mosaico con atleti e su quelle del Sileno, che traggono il nome da un frammento di rilievo con maschere dionisiache rinvenuto nel corso degli scavi.
Tale speculazione di fatto trasformava la zona in una sorta di quartiere dedicato al benessere, pieno di locali notturni e cosa che pare strana, di luoghi di culti esotici: nell’area infatti vi erano sia numerosi mitrei, sia quella che forse è la più antica sinagoga d’occidente.
Quest’ultima è orientata verso est (verso Gerusalemme), dove si trova anche l’ingresso. Da un vestibolo circondato da colonne di marmo si accede all’Aula, a destra del vestibolo c’è una stanza con un bacino che probabilmente serviva per le abluzioni, a sinistra dell’ingresso dell’aula si trova il particolare armadio in cui erano custoditi i rotoli della Torah. Davanti alla parete posteriore curvata dell’aula c’è un podio per la lettura della Torah ad alta voce.
Nella cucina si trovano resti di un tavolo di marmo e il forno per la preparazione del pane azzimo. I pavimenti sono decorati con mosaici geometrici in bianco e nero.
In età severiana, proprio per ribadire la vocazione turistica dell’area, il lungomare venne ristrutturato e selciato. Il boom della zona continua sino all’epoca dei Tetrarchi e di Costantino: Massenzio scelse Ostia come sede della zecca e molte famiglie patrizie vi si trasferirono, popolando anche il quartiere di Porta Marina.
Anche all’epoca dei Valentiniani, continuarono le costruzioni e le ristrutturazione degli edifici, ma a cominciare dagli ultimi due decenni del IV secolo, la crisi si fece sentire: se molti edifici furono abbandonati, furono al contempo costruiti diversi luoghi di culto cristiano e la straordinaria Domus dell’Opus Sectile, realizzata proprio a Porta Marina, la cui decorazione è conservata nel museo dell’Alto Medio Evo all’Eur.
Scoperta casualmente negli anni ’40 del Novecento, si impose da subito all’attenzione proprio per il rinvenimento di tante, troppe lastre sagomate in marmi policromi. Gli scavi, ripresi negli anni ’60, furono abbastanza complessi, perché consistettero nello scavare uno spesso e complicato strato di crollo relativo alle pareti di una grande aula che erano state decorate in marmi intarsiati (ciò che viene chiamato opus sectile, appunto). Nonostante le difficoltà, si capì che il crollo era avvenuto quando la decorazione dell’aula non era stata ancora completata, perché furono rinvenuti materiali da cantiere e perché parte della stanza non era ancora mai stata pavimentata; inoltre, grazie alle monete rinvenute, coniate sotto l’impero di Massimino (383-388 d.C.) e di Eugenio (392-394 d.C.) si capì che la realizzazione e immediato crollo dell’aula fossero avvenuti proprio sul finire del IV secolo d.C.
Secondo l’ipotesi ricostruttiva, la decorazione dell’aula si articolava in zone sovrapposte: a partire dal basso si succedevano una fascia a specchiature e lesene, un grande fregio floreale, un fregio minore con elementi vegetali e geometrici, una zona con gruppi di animali in lotta (leoni sulla parete destra e tigri sulla sinistra), simile alla decorazione della basilica di Giunio Basso all’Esquilino, e infine una fascia di coronamento con specchiature e dischi.
Con effetto di sorprendente contrasto, la decorazione dell’esedra di fondo era di tipo geometrico, con un motivo a scacchiera minuta di tessere di colore giallo, bianco, verde e rosso in basso e un falso prospetto architettonico nella parte alta.
Probabilmente l’esedra aveva funzione di triclinio, ossia della zona destinata al banchetto, che di solito si trovava nella parte più interna della sala di rappresentanza ed era arredata con letti per gli invitati (klinai) e tavolini per appoggiare vivande e stoviglie.
Un elemento originale dell’opus sectile è la presenza sulla parete destra di due ritratti maschili, un giovane aristocratico con la tunica bordata di porpora e un adulto con lo sguardo penetrante e un nimbo intorno alla testa. L’interpretazione tradizionale vede nell’adulto Cristo benedicente, pur in mancanza di segni di identificazione certi (croce, lettere A e Ω nel nimbo); una ipotesi più recente, basata sul ritrovamento in domus tardoantiche della Grecia e dell’Asia Minore, di cicli decorativi con filosofi e poeti classici raffigurati con i loro allievi, interpreta il personaggio ostiense come il maestro “divinamente ispirato” della pratica filosofica neoplatonica molto diffusa nel IV secolo. E’ quindi necessaria una grande prudenza nell’interpretare in senso pagano o cristiano l’ “uomo divinamente ispirato” in assenza di un contesto inequivocabile.
Sul soffitto si deve immaginare un mosaico di pasta vitrea verde-azzurra con tralci di vite ricoperti d’oro, recuperato solo in piccola parte e ora esposto accanto all’aula.Il pavimento, composto da quaranta formelle intarsiate con motivo a stelle unite per i vertici, crea l’effetto di un grande tappeto policromo (32 mq) che accresce la sontuosità della sala
Domus che però è il canto del cigno del quartiere: nel V secolo Ostia risentì delle guerre e di una serie di cataclismi naturali, il terremoto del 442 d.C. o numerose esondazioni del Tevere, legate al cambiamento climatico in corso all’epoca.
Così il quartiere di Porta Marina fu abbandonato e diverse statue, portate nel centro della città: il suo destino fu il preludio alla morte di Ostia, che nel VIII era diventata una città fantasma, per poi essere abbandonata definitivamente nel IX secolo.