Tornando da Pescara

 

Allora, mettiamola così: quest’anno, sia per gli esami universitari di Manu, sia perché avevo intenzione di scendere in santa pace in Calabria, mi ero programmato di andare in vacanza a settembre: improvvise esigenze aziendali, però, sono stato costretto ad anticipare le ferie a fine giugno.

Per cui, di riffe e di raffe, ho dovuto trascorrere le scorse settimane a improvvisare la vacanze, dovendo soddisfare due vincoli tra loro ahimè contrastanti: da una parte il trovare in poco tempo un buco libero, dall’altra non spendere un occhio della testa.

Alla fine, più per caso, che per scelta consapevole, mi sono orientato per Pescara: ora, a dire il vero, non è che per me fosse terra incognita… Quando ero ragazzo, mio papà vi aveva un ufficio, con dei collaboratori, che non sfigurerebbero nei miei romanzi: dal grande scrittore in incognito al collezionista di bollini, credo si chiamino così, della frutta…

Ogni tanto quindi, ci capitavo: ma un conto è andarci da ragazzo annoiato, che passava il tempo a vagabondare in attesa di un’abbuffato di pesce al ristorante La Murena, una volta ottimo, oggi mi hanno detto che è peggiorato, ma devo essere sincero, per non esserne deluso, ho evitato di andarci, per cui, non metterei la mano sul fuoco su tale notizia, un conto da turista di mezza età.

E devo dire che sono rimasto sorpreso in positivo: non ho solo poltrito in maniera invereconda sotto l’ombrellone, come mio solito, coccolato dai ragazzi dello stabilimento, con cui chiacchieravo di fantascienza e liquori, ma me la sono goduta sotto tanti aspetti.

Mi sono abbuffato, con equilibrio e moderazione, di pesce, di arrosticini, di parrozzi e salsicce di fegato… Sono andato in pellegrinaggio nella casa di D’Annunzio e di Flaiano, scrittori che amo tantissimo e che in un modo o nell’altro fanno capolino nei miei romanzi…

Ho inseguito le tracce della vecchia fortezza di Pescara, dalla forma di stella, uno dei capolavori dell’arte militare del Rinascimento, voluta da Carlo V, che i Borboni trasformarono in un carcere dalla pessima fama, in cui morivano di stenti, per le ferite delle torture, e per le malattie causate dall’aria inquinata delle paludi fluviali. Nel 1853 ci fu una piena del fiume Pescara, che allagò il bagno penale, che proprio si affaccia sulla riva del fiume, provocando vittime tra i carcerati.Nel 1865, il carcere di via delle Caserme fu decimato da un’epidemia di colera, causata dalle pessime condizioni igieniche dei detenuti.

Pontedelmare

Ho ammirato il tramonto dal Ponte del Mare, sognando di essere un poco Corto Maltese. Ho sorseggiato bicchierini di amaro Corfinio, di Genziana, di Ratafia.

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Soprattutto dell’Aurum, liquore che pensavo scomparso, a base di brandy ed infuso di arance, il cui nome fu scelto dal fondatore della fabbrica Amedeo Pomilio, altro personaggio degno di un romanzo steampunk, sempre su suggerimento del buon D’Annunzio, che disse, basandosi sul suo colore, disse chi chiamarlo come l’oro dei latini.

Liquore che era prodotto in una straordinaria fabbrica, progetta dal grande architetto Michelucci.

Ho esplorato birrifici artigianali e ho scoperto Villa Urania, una splendido edificio liberty, nascosto tra le strade di Pescara, in cui è conservata una straordinaria collezione di antiche maioliche abruzzesi, uno spettacolo inaspettato per gli occhi…

Mercato_Pescara

E ho bisbocciato nel Mercato di Piazza Muzii, che potrebbe essere un esempio per il Mercato Esquilino: non essendoci in Abruzzo, presunti grandi artisti rosiconi, con i loro, ehm, colti ascari, impegnati, senza che nessuno glie l’avesse mai chiesto, nella una strenua difesa del decoro e della pubblica morale urbana, è diventato sia una straordinaria galleria di street art, sia un luogo in cui i commercianti, senza tradire la sua natura popolare, hanno potuto creare dei chioschi che servono ottimi ed economici cibi…

Insomma, immagino che l’hanno prossimo, mi rivedranno ancora…

Un ringraziamento per San Giovanni

 

Un piccolo post, scritto in fretta e furia, causa partenza per il mare, sulla serata di ieri: anche quest’anno ce l’abbiamo fatta, nonostante la corsa contro il tempo e qualche imprevisto di troppo (a proposito come sta Don Pasquale ?) ..

Alla fine grazie all’impegno, alla fatica di tutti e cosa più importante, all’affetto e alla presenza dei tanti abitanti dell’Esquilino, la festa di San Giovanni è stata un gran successo, l’occasione per condividere tutti assieme un momento di serenità e fare rivivere un angolo del Rione, troppo spesso abbandonato a se stesso.

Momenti da ricordare ce ne sono a iosa: Alicia vestita da strega, le corse continue dal bengalese a Carlo Alberto, che a fine serata mi chiamava per nome, l’avere rivisto dopo tanto tempo vecchi amici, come Luca e Leonardo, le risate assieme ad Adolfo, Salvatore e Francesco, la sorpresa nel trovarmi davanti il buon Dante e Paola.

Il successo, inaspettato, della visita a San Vito e Modesto, confesso che per correre a prendere parte delle cibarie ho tagliato parte della spiegazione, la recupererò la prossima volta, almeno spero… La disponibilità dei ragazzi di Radici, del Salotto Caronte e di Mauro, la gentilezza di Andrea Roscioli, che ho imparato ad apprezzare ieri o la pazienza di Raffaele, il barista di Ciamei.

Un applauso ai ragazzi della Caritas e del birrificio Viva la Pena, per gli insegnamenti che ci hanno dato (e questi ultimi anche per non avermi preso a bottigliate in capo, come meritavo).

 

L’emozione nel sentire cantare il Coro di Piazza Vittorio, diretto dal buon Puopolo, al pianoforte, che non smetterò mai di elogiare per lo splendido lavoro che sta facendo da anni nel Sociale e al servizio della Musica.

 

 

La gioia di vedere la mia strana e parecchio folle famiglia allargata de Le danze ballare, cantare e divertirsi.

Commuovermi nel sentire Giacomo cantare Nina si voi dormite, canzone che ha più di un secolo sul groppone, dato che vinse il festival di San Giovanni del 1901

Oppure vedere  sempre il buon Giacomo divertirsi a reinterpretare Petrolini, che era tanto legato al nostro rione, avendo esordito nel teatro Umberto di Piazza Gugliemo Pepe, nome pomposo per un baraccone di legno messo su in fretta e furia da Peppe Jovinelli… Cosi ricorda l’esperienza il grande artista

A Roma, dopo pochi giorni, fui scritturato – su la parola, senza contratto scritto – a lire sei al giorno da don Peppe Jovinelli, a Piazza Guglielmo Pepe.

Piazza Guglielmo Pepe – ora completamente sparita – era, in quell’epoca, un enorme piazzale consacrato alle baracche dei ciarlatani; ed era il ricettacolo dei vagabondi e dei poveri guitti. C’era di tutto: perfino qualche cosa di interessante, se non di buono. Era un’accozzaglia di passatempi per tutti i gusti, uno più sollazzevole dell’altro, non escluso quello dell’alleggerimento simultaneo del portafogli e dell’orologio. La grande piazza ospitava ogni sorta di baracconi, dal tiro al bersaglio al museo anatomico, dal carosello al teatro dei galli che cantavano e ballavano prodigiosamente sopra una lastra di bandone

Insomma, Dio e San Giovanni volendo, arrivederci a all’anno prossimo… Noi, come sempre, ce la metteremo tutta !

Dancehall Market

Tra le ultime corse affinché per la festa di questa sera sia tutto in ordine, a proposito, alle 17 vi ricordo la visita alla Porta Esquilina, alle Viperesche e a San Vito, se non viene nessuno mi tocca dedicarmi ai lavori forzati e il preparare i bagagli per domani, dato che si parte per il mare, trovo un poco di tempo per buttare giù due righe sul nuovo video del gruppo Tsunami Massive, in cui milita il buon Simone D’Aniello.

Data la mia leggendaria ignoranza in ambito musicale, cosa che non finisce mai di inorridire mia moglie, eviterò di fare qualsiasi commento, per paura di scrivere qualche idiozia… Anche perché, diciamola tutta, il buon Simone è il doppio del sottoscritto….

Però, fatemi dire un paio di cosine: Simone è un vecchio esquilino, conosce e si ricorda cosa era il Rione negli anni Settanta e Ottanta. Per cui, come il sottoscritto, prende d’aceto quando legge certe boiate su FB, scritto dagli ultimi arrivati, magari con la puzza sotto al naso, o da chi finge di soffrire d’amnesia…

In più, ama il manicomio che è sempre stato l’Esquilino e in generale Roma: e anche se non capisco un tubo di reggae, dalle note, dalle parole della canzone e nelle immagini del video, appare una straordinaria passione per il Mercato di Porta Portese, Mercato di Via Sannio e Mercato di Piazza Vittorio, luoghi che tutti noi abbiamo bazzicato nella nostra giovinezza…

E diciamola tutta: se a volte vorremmo fare come Nerone, non sapremmo come vivere in un luogo differente di questa immonda e meravigliosa città chiamata Roma.

Traslochi

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Diciamola tutta: il mio ufficio milanese era di una comodità spettacolare: in 25 minuti, comprensivi di passeggiata dal Naviglio a Porta Genova e di trasbordo tra Metro Verde e Metro Gialla, ero arrivato. In più, stando di fatto al centro della città meneghina, oltre a non avere vincoli d’orario, potevo, in pausa pranzo, svolgere tutte le incombenze del quotidiano.

Quanto uscivo potevo andare senza particolari problemi a tutti gli eventi culturali che mi interessavano e nel caso fossi stato vittima di orari improbabili, c’era sempre nelle vicinanze qualche anima pia pronta a ospitarmi, mettendomi a disposizione un comodo letto…

Insomma, era una pacchia: per cui, quando tornai a Roma, l’impatto con Parco de Medici fu quasi traumatico: insomma, la sede è brutta, anonima, alienante. Le volte che mi è capitato di lavorarci di domenica, sembrava di stare dentro Shining.

Poi, tranne il multisala, intorno vi era il deserto… Infine, cosa che non ho mai sopportato, i vincoli d’orario delle navette; sono ormai diventato specialista nel correre loro dietro. Insomma, mi sono sempre ripetuto a me stesso, che se mai avessi avuto l’occasione di andarmene, avrei fatto fatto salti di gioia.

Ora, questo momento è arrivato: cosa assai strana, sto provando una strana malinconia… Sarà il separarsi da persone, più amici che colleghi, con cui ne ho viste di cotte e di crude. Ci siamo insultati, abbiamo riso assieme e faticato tutti come muli.

Oppure lo spettacolo, deprimente, dei corridoi vuoti, scanditi solo dai montarozzi di carta da portare al macero. O il riempre gli scatoloni, cosa che costringe a fare un bilancio della propria vita professionale, dei successi e dei fallimenti, riscoprendo a volte ricordi dimenticati…

Insomma, Parco de Medici era un casermone che non avrebbe sfigurato in un film di Fantozzi: ma era il mio casermone e vuoi e non vuoi, vi lo lasciato un pezzo della mia vita e del mio cuore… Quell’accrocco mi mancherà

23 giugno 2018 “Festa di San Giovanni” Arco di Gallieno – Via di San Vito

Esquilino's Weblog

Festa di San Giovanni 2018

Programma socio-culturale

Ore 17.00 -18.00Visita guidata alla chiesa di San Vito e all’area dell’antica Porta Esquilina – a cura dell’associazione Le danze di Piazza Vittorio

Ore 18.00 -19.00 Conferenza sulla condizione carceraria con la partecipazione di operatori e osservatori impegnati nella rieducazione con testimonianze di promotori di Semi di Libertà ONLUS dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino, e religiosi impegnati nelle carceri

ore 19.00 – 20.00 Chiesa di San Vito – Coro di Piazza Vittorio e Piccolo Coro di piazza Vittorio diretti dal maestro Giuseppe Puopolo,

ore 20.30 -23.30  Sagrato della Chiesa di San Vito – a cura dell’associazione Le danze di Piazza Vittorio che eseguirà:

  • Musica, canto e danze della tradizione popolare italiana e internazionale
  • Canzoni popolari romane

Programma sociale e commerciale

a) Stand Caritas, con presenza di operatori e materiale divulgativo in distribuzione;
b) Stand Fondazione Empam
c) Stand Ass. Noi di…

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Le Viperesche sò delle sore…

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La festa di San Giovanni ha la fortuna di avere come sfondo tre dei luoghi storici dell’Esquilino: un paio sono assai famosi ed evidenti, San Vito e Porta Esquilino, l’ altro, il Conservatorio della Ss.Immacolata Concezione di Maria, più conosciuto come Monastero delle Viperesche, è assai poco noto, anche agli aborigeni locali.

Eppure, la storia di questo Conservatorio è assai interessante: fu fondata da Livia Vipereschi, appartenente a una famiglia nobile originaria di Corneto, l’attuale Tarquinia. Livia da giovane, non è che brillasse per devozione religiosa, anzi… Si godeva la bella vita permessa dal suo rango ed era fidanzata con il bello e ricchissimo Valerio de’principi Massimo.

Cosa strana per l’epoca, il loro legame non era nato dall’interesse, ma dall’amore: si erano conosciuti in un ricevimento tenuto dai Conti a Palazzo Poli ed era scoppiata la scintilla. I Massimo, dopo qualche tentennamento, avevano acconsentito prima al fidanzamento, poi alle nozze, che si preannunciavano come tra le più fastose dell’Urbe.

Ma, all’improvviso, il giorno prima del matrimonio, Valerio morì; il trauma per Livia fu tale che cambiò vita. Cominciò a leggere De Imitatione Christi e gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio, poi si dedicò la pratica a quei tempi inusuale per una donna della meditazione e della ”orazione mentale” infine decise di non sposarsi più e di dedicarsi alla preghiera ed alla opere di bene verso le donne più sfortunate.

Per cui decise di fondare un istituto per accogliere ragazze orfane ed abbandonate, anziane zitelle e vedove e dare loro istruzione ed una cristiana educazione. Alunne ed educande avrebbero trascorso la giornata tra lavori e preghiere; oltre a ciò, il Conservatorio avrebbe provveduto, secondo le abitudini del welfare pontificio, al futuro delle ricoverate tramite la monacazione o matrimonio con la concessione di una dote.

Ovviamente, per fare questo, servivano fondi; Livia però era donna dal grande carisma e riuscì a coinvolgere nell’impresa anche la ricchissima principessa Lucrezia Rospigliosi ed ottenne anche un contributo di 50 scudi da Maria Camilla Orsini Borghese con cui fu costruita l’adiacente Cappella della SS. Concezione.

Per risparmiare e per il suo spirito austero, nella costruzione del Conservatorio non fu coinvolto nessun famoso architetto: probabilmente, Livia non avrebbe gradito l’intervento ehm artistico, chiamiamolo così, realizzato pochi mesi fa da un presunto grande artista esquilino e avrebbe forse reagito a tale pacchianata prendendolo a randellate in capo.

Di riffe e di raffe, il Conservatorio iniziò ad operare nel settembre del 1668 e Clemente IX, uno dei papi sepolti a Santa Maria Maggiore, noto più per il suo amore per il melodramma, era un famoso librettista, che per la sua pietà religiosa, approvò l’istituto, lo pose sotto la protezione ed il governo del vescovo vicereggente e di quattro deputati, lo concesse alle ragazze il privilegio di poter ottenere dotazione anche negli anni in cui la distribuzione non spettasse al rione Monti (all’epoca l’Esquilino non era ancora un
rione autonomo).

Livia morì il 6 dicembre 1673 lasciando eredi del suo patrimonio le fanciulle del Conservatorio, con un’entrata annua di 300 scudi, ossia la rendita delle proprietà della famiglia Vipereschi che si estinse proprio con la nobildonna cosicché le alunne presero il nome di “Viperesche”. Le maestre, inizialmente laiche, in seguito presero l’abito e le regole delle Oblate Carmelitane ed educavano le zitelle

“con tanta disciplina e modestia quanto in verun’altro luogo di stretta osservanza”.

Successivamente si cominciò ad accogliere anche zitelle che pagavano una retta e tutte vestivano uniformemente un abito di lana nera.

Allo stesso tempo il Conservatorio era anche una sorta di Casa dove si assistevano le donne con problemi delle classi agiate di Roma, come la moglie dell’architetto Giuseppe Barberi che la fece ospitare lì nel 1787 perché, dopo che la donna aveva avuto nove figli in 12 anni, dava segni di squilibrio mentale ed era imbarazzante per il rampante architetto avere una moglie così scomoda in casa.

Ai primi dell’Ottocento, in occasione del restauro voluto dal pontefice Pio VII, l’oratorio fu inglobato al Conservatorio in un complesso unico: sull’altare maggiore è tuttora conservata una pala ottocentesca raffigurante l’Immacolata. Dopo la proclamazione di Roma capitale il Conservatorio continuò a funzionare ancora per buona parte del ‘900, per poi trasformarsi in Convitto Vipereschi della SS.ma Concezione, sotto la direzione delle Maestre Pie Venerini che nel 1869 avevano sostituito le Oblate, con il compito di
impartire

“un’educazione morale e civile atta all’acquisto delle doti che servono a nobilitare l’animo delle giovanette, e ad abilitarle al disimpegno delle cure domestiche e ad utili applicazioni”.

Ovviamente, per avere tale educazione morale e civile si cominciò a pagare una sostanziosa retta. Il Conservatorio divenne famoso nel tempo, sia per gli esempi virtuosi, sia per gli scandali. Fu infatti suo Confessore e Direttore Spirituale il Beato Angelo Paoli, il Padre dei poveri, ma nel 1868, fra giugno e settembre, il Conservatorio arrivò sulle pagine della Cronaca di Roma per uno scabroso affare, tra Boccaccio e Sherlock Holmes, di donne recluse pseudo-visionarie e delitti sessuali che coinvolsero anche
il vice-gerente di Roma, Monsignor Villanova Castellacci, che fu costretto alle dimissioni.

Il Conservatorio, quando ero ragazzo, era affidato all’Ordine delle Pie Discepole del Redentore ed era un pensionato per studentesse universitarie… Ora non so, però spero che le cose siano cambiate, per evitare che qualche Pia Discepola, per qualche piccolo malinteso sull’orario di rientro delle pensionate di parecchio tempo fa, riconoscendo il sottoscritto, possa fargli un meritato occhi nero..

Torna la festa di San Giovanni all’Esquilino

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Anche quest’anno, come tradizione, sabato 23 giugno, nel sagrato di San Vito, all’ombra dell’ Arco di Gallieno, si celebrerà la festa di San Giovanni: l’occasione per stare assieme, per vivere il Rione, per rinnovare le antiche tradizioni romane e guardere assieme con speranza al Futuro.

Quest’anno la festa sarà ancora più ricca di eventi e di momenti di riflessioni: di seguito il programma di massima

Programma socio-culturale

Ore 17.00 -18.00 Visita guidata alla chiesa di San Vito e all’area dell’antica Porta Esquilina – a cura dell’associazione Le danze di Piazza Vittorio

Ore 18.00 -19.00 Conferenza sulla condizione carceraria con la partecipazione di operatori e osservatori impegnati nella rieducazione con testimonianze di promotori di Semi di Libertà ONLUS dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino, e religiosi impegnati nelle carceri

ore 19.00 – 20.00 Chiesa di San Vito – Coro di Piazza Vittorio e Piccolo Coro di piazza Vittorio diretti dal maestro Giuseppe Puopolo,

ore 20.30 -23.30  Sagrato della Chiesa di San Vito – a cura dell’associazione Le danze di Piazza Vittorio che eseguirà:

  • Musica, canto e danze della tradizione popolare italiana e internazionale
  • Canzoni popolari romane

Programma sociale e commerciale

a) Stand Caritas, con presenza di operatori e materiale divulgativo in distribuzione;
b) Stand Fondazione Empam
c) Stand Ass. Noi di Esquilino, Ass. Arco di Gallieno, Ass. Genitori Di Donato con materiale divulgativo circa le attività delle rispettive associazioni.
d) Distribuzione e vendita di prodotti dell’economia carceraria
e) Altri stand promossi e tenuti da operatori ed esercenti del rione

Programma gastronomico

– Riso, patate e cozze;
– Melanzane alla parmigiana;
– Polpette con pomodoro e basilico;
– Lumache come da tradizione;
– Sanpietrini (gelato semifreddo);
– vino, acqua, birra e pane.

I piatti sono preparati da Machiavelli’s club, Radici, Salotto Caronte, Ristorante da Mario, tutte realtà gastronomiche del rione Esquilino, così come il forno del pane, ovvero Roscioli. Per il vino ci aiuterà 8forwine distributore di vino della zona. La birra verrebbe dal birrificio “Vale la Pena” prodotta dai detenuti di Rebibbia, l’acqua in bottiglia dalla COOP di Via Guicciardini.

Insomma, l’occasione per divertirsi, per riempire lo stomaco con buon cibo e arricchire lo spirito… Che volete di più ? Vincete la pigrizia e venite a divertirvi con noi

Napoli bizantina

Santa Restituta, Napoli

Belisario in seguito riuscì a sottrarre ai Goti gran parte dell’Italia e a far prigioniero il loro re Vitige. Il nuovo re dei Goti, Totila, riuscì a ribaltare la situazione conquistando molte città tra cui Napoli difesa dal dux Conone nel 543. Totila e il suo successore Teia vennero infine sconfitti dal nuovo generale Bizantino Narsete nel 553, che riconquistò tutta l’Italia, tra cui Napoli, ponendo dunque fine alla guerra Gotica dopo 18 anni. Napoli ritornò sotto il dominio bizantino.

Inizialmente, l’amministrazione locale è divisa tra lo Iudex Campaniae, la massima autorità civile, il dux, il capo della guarnigione militare e il vescovo, l’autorità religiosa. Come a Roma, in cui rapidamente il vescovo comincia a sostituire il Praefectus Urbi nella gestione della città, lo Iudex Campaniae viene esautorato dall’autorità religiosa.

Poi, per i problemi bizantini nel gestire la pressione longobarda, in entrambi i casi le guarnigioni bizantine sono sostituite da milizie locali, che tendono a nominare in maniera autonoma i loro comandanti.

La differenza tra le due città è di fatto in chi paga gli stipendi: a Roma è il vescovo, che è titolare di ricche rendite fondiarie. A Napoli, invece sono le famiglie magnatizie locali, i capitali provengono sia dall’agricoltura, vista il loro accaparramento delle terre ecclesiastiche, dovuto al loro sequestro, poi alienazioni, conseguenti alla disputa sull’iconoclastia, sia dal commercio.

Per cui, se a Roma l’amministrazione civile si fonderà progressivamente con quella ecclesiastica, a Napoli invece, sarà sostituita da quella militare, che esautorerà il vescovo e che porterà alla nascita di una signoria dinastica.

Inoltre, se il vescovo di Roma, per il primato pietrino, gode di una legittimazione politica e dell’auctoritas, i capi locali napoletani dovranno sempre, in modo o nell’altro, essere soggetti al riconoscimento imperiale di Bisanzio, in un processo di conquista dell’autonomia lungo, complesso e contraddittorio.

Così nel VII secolo il Ducato comprendeva, oltre a Napoli, la ristretta area delle zone costiere (come le vicine Amalfi e Gaeta) che i Longobardi non erano riusciti a conquistare. Si estendeva nell’area dell’attuale città metropolitana di Napoli comprendendo, oltre la città, il vesuviano, la penisola sorrentina e l’isola di Capri, l’area flegrea e le isole d’Ischia e Procida, l’afragolese, i territori di Pomigliano d’Arco, Caivano, Sant’Antimo, Giugliano (fino al Lago di Patria), il nolano, oltre a zone dell’attuale provincia di Caserta come l’aversano.

La popolazione della capitale, Napoli, oscillava in quel periodo tra i trentamila ed i trentacinquemila abitanti. Il palazzo ducale era sito nell’antico quartiere del Nilo, fra l’attuale collina di Monterone e via Spaccanapoli. Il complesso era caratterizzato da cortili, porticati e giardini. Nel contempo, la città era ricchissima di monasteri erano per lo più cenobi di origine greca (retti da monaci basiliani) che trovavano allocazione sulle alture dell’interno o sulle isole ma anche in città, come quello che sorgeva nell’antico Oppidum Lucullianum, sulla collina del Monte Echia o sull’isoletta di Megaride, sebbene
non mancassero conventi in città come il monastero greco di San Sebastiano.

Nel 616, approfittando del caos creatosi nei domini bizantini in Italia a seguito dell’assassinio dell’esarca di Ravenna Giovanni I Lemigio, il duca bizantino di Napoli Giovanni Consino, proclamò la secessione dall’impero della città partenopea. Sconfitto in battaglia mentre tentava di sbarrare il passo all’esercito esarcale che marciava su Napoli lungo la via Appia e catturato dal nuovo esarca Eleuterio, fu messo a morte e giustiziato pubblicamente. Questo episodio contribuì ad accelerare il processo di formazione del ducato, conferendo progressivamente una sempre maggiore importanza alla figura del
duca, nelle cui mani nel 638 vennero accentrati tutti i poteri militari e civili. Il duca di Napoli, nominato dall’esarca di Ravenna, rimase a questi sottoposto fino alla caduta dell’esarcato (751), dopo la quale passò alle dipendenze dello stratego di Sicilia.

Nel 661, l’imperatore Costante II (641-668), contrariamente alla regola che voleva l’esarca di Ravenna unico deputato ad insignire dignità ducale, nominò duca il cittadino napoletano Basilio (661-666), che prestava servizio nell’esercito imperiale.

Nell’ VIII secolo il duca Stefano II (755-767), nei primi anni del suo mandato, mentre l’intera provincia italica era scossa dalla rivolta contro la politica iconoclasta della dinastia isaurica, si mantenne fedele al potere centrale in contrasto con il papato. Nel 761 impedì infatti l’accesso in città al vescovo Paolo II, nominato da papa Paolo I che si opponeva alla politica iconoclasta. Nel 763 riconobbe però l’autorità papale e consentì al vescovo di entrare in città. Nello stesso anno, in aperta opposizione alle direttive della politica imperiale, batté una moneta locale con l’effigie di San Gennaro, il patrono della città, al posto di quella dell’imperatore.

Stefano, in questa tentativo autonomista, cercò di fondare una sua dinastia: associò al potere prima il figlio Gregorio nel 767, e poi,deceduto quest’ultimo, il genero Teofilatto. Il tentativo fallì quando, alla morte del fondatore che nel frattempo era divenuto vescovo di Napoli, ai suoi successori non riuscì di mantenere la dignità ducale, sia per l’opposizione dell’autorità ecclesiastiche, sia per la maggior pressione saracena.

Nel 801 divenne dux di Napoli Antimo: sotto il suo dominio, la città tornò progressivamente nell’orbita bizantina. All’inizio del suo ducato, il patrizio di Sicilia Gregorio gli chiese il suo aiuto per respingere i pirati Saraceni che minacciavano le coste dell’isola, ma il duca si rifiutò, preferendo mantenere la sua neutralità.

Nell’812, Bisanzio inviò una flotta per combattere i pirati con l’aiuto delle altre principali città tirreniche come Gaeta e Amalfi; queste ultime, anche a causa del nuovo rifiuto opposto da Napoli a partecipare alla spedizione navale, ne approfittarono per dichiarare la loro indipendenza.

Alla sua morte, nell’818, mancando un successore designato e non mettendosi d’accordo sui potenziali candidati i nobili locali, chiesero aiuto al Patrizio di Sicilia, che nominò come governatore della città il magister militum Teoctisto,. Dopo tre anni, secondo l’usanza dell’amministrazione militare bizantina, l’ufficiale Teoctisto lasciò Napoli e al suo posto fu inviato un sostituto di nome Teodoro,prontamente cacciato dalla cittadinanza che innalzò al seggio ducale Stefano, un lontano parente della precedente dinastia ducale.

Di fatto, l’aristocrazia napoletana era ormai abituata a scegliere il proprio duca e non voleva che quello che era stato un evento isolato – l’invio di un magister militum esterno designato dal patrizio diSicilia – divenisse una consuetudine. Stefano rimase al potere per undicianni, pare, fino all’832, quando fu assassinato a seguito di una congiura, che sarebbe stata ordita dal principe beneventano Sicone,che in quel momento cingeva d’assedio Napoli. Alla morte di Stefano si aprì un periodo di torbidi che, un omicidio dietro l’altro, vide susseguirsi velocemente, nell’arco di otto anni, ben quattro
duchi: Bono, Leone, Andrea, Contardo.

Al termine di questo periodo di torbidi, la milizia compì il suo pronunciamento e nominò come dux, Sergio, comes di Cuma: il quale, per prima cosa, modificò l’architettura istituzionale del ducato, rendendo ufficialmente la sua carica ereditaria. Poi intraprese una complessa politica estera, basata sul principio del balance of Power. Per prima cosa, intervenne pesantemente nella politica interna dei longobardi, appoggiando la definitiva separazionela divisione del principato beneventano in due istituzioni indipendenti, una facente capo a Salerno,l’altra a Benevento.

Sergio negli anni successivi a tale divisione, istigherà la guerra civile tra i due stati, nell’ottica del dividi et impera; intorno all’850 si alleò con la bellicosa dinastia capuana, apertamente avversa ai signori di Salerno, dando in sposa la figlia a uno dei tanti discendenti di Landone, fornendogli poi l’appoggio per conquistare Salerno nell’851, per per poi cambiare subito idea e fornire il suo aiuto ad Ademario, il principe messo in fuga da Landone, per rientrare nei suoi domini

Poi, intraprese un complesso gioco diplomatico con i saraceni: da una parte, strinse una serie di accordi politici e commerciali con Balarm e una serie di alleanze militari con gli staterelli musulmani nati nel Sud Italia, dall’altra, combatté più volte contro le loro flotte. Nell’845 o 846, infatti, vi furono attacchi di pirati saraceni alle coste campane: è saccheggiata Ponza, forse Ischia, e Miseno distrutta.Probabilmente Sergio, a capo di una flotta di Napoletani, Amalfitani e Gaetani, riesce a contenere i danni e poi a contrattaccare, scacciando i musulmani dal loro insediamento nella parte meridionale del golfo di Salerno, a punta Licosa.

Infine, mantenne rapporti stretti, seppur ambivalenti, con continui cambi di segno, con il papato; una politica complessa, piena di ambiguità, che spesso rischiò di naufragare. La crisi peggiore, che rischiò di incrinare il potere dinastico dei Sergi, avvenne nel 870, con lamorte del duca Gregorio II e la presa di potere del figlio, Sergio II. Sergio I aveva nell’849 fatto eleggere al soglio episcopale il proprio figlio Attanasio, il quale, su istigazione papale, che male vedeva l’alleanza tra napoletani e stati islamici, tentò un colpo di stato contro il nipote, il quale però non si fece trovare impreparato.

Mandò in esilio lo zio a Sorrento, presso il fratello Stefano, vescovo di tale città, arrestò e mise a morte gli altri congiurati e, come segno di sfida nei confronti di Roma, assoldò una milizia di mercenari saraceni; a rendere giustizia ad Attanasio sarebbe stato l’omonimo nipote, eletto al soglio episcopale per volontà del fratello, il duca Sergio II, nell’876. Egli avvedutosi presto delle ingiustizie subite dallo zio, uomo pio e giusto, decise di vendicarlo.

Organizzò, perciò, una congiura con gli optimates napoletani e tra l’877 e l’878 abbatté e accecò il duca, suo fratello, lo inviò prigioniero a Roma, assumendo il controllo sulla città. Il complotto fu appoggiato dal pontefice Giovanni VIII, preoccupato dell’alleanza di Sergio II con i saraceni che aveva avuto come conseguenza un intensificarsi delle scorribande di questi nei territori laziali edell’entroterra campano.

Il sostegno alla presa di potere violenta attuata da Attanasio, aveva agli occhi del papa un unico fine: un cambio di rotta nella politica estera napoletana. A riprova di ciò ci sarebbe anche la nota epistola di Anastasio Bibliotecario scritta per conto di Ludovico II all’imperatore bizantino Basilio I, in cui si criticava proprio l’alleanza tra Neapolis e Balarm

Nam infidelibus arma et alimenta et cetera subsidia tribuentes per totius imperii nostra litora eos ducunt et cum ipsis totius beati Petri Apostolorum principis territorii fines furtim depredare conantur, ita ut facta videatur Napolis Panormus vel Africa.

In realtà, i rapporti economici tra il ducato e l’emirato di Sicilia erano così stretti, che Attanasio aveva le mani legate: così nonostante le minacce di scomunica e gli insulti provenienti da Roma, non cambiò di nulla la tradizionale politica della sua dinastia. Il mutamento avvenne con la riconquista bizantina del Sud Italia e con il mutamento della politica dell’emirato kalbita, che ritenne più conveniente il commercio con gli infedeli rispetto alla Jihad.

Di conseguenza, Napoli dovette interrompere il tradizionale balletto diplomatico, trasformandosi in un fedele alleato bizantino: cosa che ne aumentò la ricchezza dovuta ai commerci e la rese un polo culturale. Nel 1027 il duca Sergio IV donò la contea di Aversa alla banda di mercenari normanni di Rainulfo Drengot, che lo avevano affiancato nell’ennesima guerra contro il principato di Capua, creando così il primo insediamento normanno nell’Italia meridionale. Dalla base di Aversa, nel volgere di un secolo, i normanni furono in grado di sottomettere tutto il meridione d’Italia; nel 1077 Salerno, ultima roccaforte dei longobardi, cadde nelle mani del normanno Guiscardo mentre Napoli per ben due anni riuscì a resistere agli attacchi del principe di Capua Riccardo e del suo alleato Guiscardo.

I duchi che si successero svolsero tutti una politica antinormanna e riuscirono a rimanere indipendenti, ma dopo che nel 1130 Ruggiero II fu incoronato re a Palermo con l’appoggio dell’antipapa Anacleto II, questi ingiunse al duca di Napoli Sergio VII di riconoscerlo come suo re e il duca non poté sottrarsi dall’accettare questo vassallaggio. Subito dopo però egli si mise segretamente in contatto con la lega che si era formata contro Ruggiero e come alleato di Rainulfo d’Alife inflisse a Scafati dure perdite ai normanni nel 1132.

Anche nel 1134, quando Ruggiero giunse con una cospicua flotta per prendere la città dal mare si tentò la resistenza, ma i napoletani erano stremati, il ducato in sfacelo e non rimase che arrendersi. L’anno seguente il duca era ancora contro il re di Sicilia, ma nel 1137, infine, fu costretto a seguirlo contro Rainulfo e morì sul campo di battaglia.

I napoletani, però, non furono molto felici di perdere la loro indipendenza: con l’appoggio di papa Innocenzo II tentarono di costituirsi in una repubblica aristocratica, ma quando nel 1139 il pontefice fu vinto e imprigionato dal normanno, rimasti privi di ogni appoggio, furono costretti a consegnare la città a Ruggiero, inviandogli una ambasceria a Benevento, dove si era fermato. Il nuovo re volle mostrarsi generoso e umano con i vinti, ed il suo ingresso a Napoli fu trionfale. Egli distribuì della terra ai cavalieri e concesse agevolazioni ai nobili causando – però – un certo attrito fra i due ceti; diede il massimo incremento alle lettere e alle arti, favorì il commercio ed impose una moneta d’argento che fu chiamata «ducato» ed una di rame che fu chiamata «follaro». Assicurò alla città un’autonomia amministrativa, lasciandovi come suo rappresentante un conte palatino chiamato «compalazzo» che amministrava il demanio e la giustizia.

Così, come era a cominciata, con una conquista, terminò la storia della Napoli Bizantina