Ogni oggetto passava per le sue mani. Un Centauro intagliato in un sardonio, opera assai fina, forse proveniente dal disperso museo di Lorenzo il Magnifico, la tentò. Ed ella prese parte alla gara. Comunicava la sua offerta al perito, a voce bassa, senza levare li occhi su di lui. A un certo punto, i competitori si arrestarono: ella ottenne la pietra, a buon prezzo. — Acquisto eccellente — disse Andrea Sperelli, che stava in piedi, dietro la sedia di lei. Elena non poté trattenere un lieve sussulto. Prese il sardonio e lo diede a vedere, levando la mano all’altezza della spalla, senza voltarsi. Era veramente un’assai bella cosa. — Potrebbe essere il Centauro che Donatello copiò — soggiunse Andrea
E’ un brano de Il Piacere di D’Annunzio, in cui il buon vecchio Andrea Sperelli, con fare erudito, riconosce, durante durante un’asta romana, il cammeo dal quale è tratto uno dei medaglioni che adornano il cortile di Palazzo Medici-Riccardi di Firenze, che il Vasari così descrive
In casa Medici nel primo cortile sono otto tondi di marmo dove sono ritratti cammei antichi e rovesci di medaglie ed alcune storie fatte da lui molte belle; i quali sono murati nel fregio fra le finestre e l’architrave sopra gli archi delle loggie
Tondi che sono testimonianza di una delle più grandi e splendide collezioni di pietre dure del Rinascimento, il cui pezzo forte, la Tazza Farnese, ha avuto vicende degne di un romanzo. Questa, lavorata in forma di patera,la coppa usata per versare liquidi durante i sacrifici rituali, è uno dei più grandi pezzi di sardonice di epoca ellenistica. L’agata, che dal punto di vista chimico altro non è che una varietà di calcedonio,secondo Teofrasto, prende il nome da un fiume della Sicilia, l’Achates (attuale Drillo), dove sarebbe stata trovata per la prima volta. In particolare il tipo di agata sardonica deriva dal nome di un monte chiamato Sardónix, da Sardi capitale della Lidia, antica regione dell’Asia Minore, affacciata sul Mar Egeo, lo stesso che forse ha generato l’equivoco Shardana/Sardegna.
La Tazza Farnese, di soli 20 cm. di diametro, presenta la rara caratteristica di essere incisa a rilievo su entrambe le facce. La superficie interna della tazza raffigura un’immagine con sette figure: una Sfinge, su cui siede una figura femminile che reca in mano delle spighe; una grande figura maschile con barba, su un albero, che regge una cornucopia; un giovane che impugna un aratro e che reca a tracolla un sacco di sementi; due figure femminili sedute, una delle quali regge una patera; due figure maschili in volo nei pressi del bordo superiore. La superficie esterna invece è interamente decorata da un grande gorgoneion; il naso della Gorgone reca un piccolo foro, la cui esistenza è documentata già nel catalogo della collezione Farnese, probabilmente utilizzato per infilarvi un sostegno onde esporre il manufatto
Date le sue caratteristiche, più che un oggetto di uso concreto,la base non può essere poggiata e la patera ha un profilo troppo irregolare per contenere liquidi, la Tazza Farnese svolgeva il ruoli di medium, per comunicare la ricchezza e la cultura del proprietario e veicolava al generico osservatore messaggi che lui riteneva importanti. Messaggi sulla cui interpretazione gli studiosi si stanno scannando da secoli e che, mancando termini di paragone, se non l’altrettanto problematica Coppa dei Tolomei, ne permetterebbe una datazione di massima.
Nella Tazza, infatti vi sono due livelli di lettura: il simbolico e il politico. Il primo, identificato da Ennio Quirino Visconti rappresenta un’allegoria dei benefici ottenuti dalle piene del Nilo, simboleggiato dall’uomo barbuto seduto a sinistra, con la cornucopia. Alla sua destra Horus-Trittolemo si appoggia ad un aratro. Sotto di lui Iside è seduta sulla Sfinge, mentre all’estrema destra le due figure femminili rappresentano le stagioni dell’inondazione e della mietitura con i rispettivi attributi. Presso il bordo superiore le due figure volanti sarebbero le personificazioni dei venti Etesii che provocano le inondazioni.
Ora dato che il Faraone è il garante del Maat e dell’Ordine Cosmico di cui le piene nilotiche sono espressione, è probabile che il Tolomeo regnante, si sia fatto ritrarre nella Tazza, assieme al suo parentado, per ribadire il suo ruolo. Questa propaganda, se vogliamo anche poco sottile, costituisce il livello politico della comunicazione. Il problema è che, essendo parenti e somigliandosi un poco tutti ed essendo gli artigiani alessandrini alquanto ruffiani e abitati a standardizzare e abbellire i ritratti reali, non si riesce a capire quale, tra i troppi Tolomei, sia quelli giusto.
Lo Charbonneaux indica nella figura centrale il giovane re Tolemeo VI Filometore, nella cosiddetta Iside la madre di lui Cleopatra I, e nella sfinge il defunto re Tolemeo V Epifane, e data di conseguenza la tazza al 181-173 a. C. Secondo Bastet, le figure centrali potrebbero rappresentare Tolomeo Alessandro con la madre Cleopatra III, per cui l’opera potrebbe essere data al 100 a.C. Altri studiosi, basandosi sulla somiglianza tra Iside e la Venere Esquilina, vi hanno riconosciuto il ritratto di Cleopatra VII e nel giovane Cesarione e nella sfinge Giulio Cesare, per cui la Tazza dovrebbe essere stata realizzata nei concitati giorni del 47 a.C. Altri ancora, ipotizzano come nella piena del Nilo sia inclusa anche una allegoria dell’età aurea per cui sospettano come l’opera sia un corrispondente della Gemma Augustea, quindi un’esaltazione della dinastia Giulio Claudia: per cui, la Tazza potrebbe datarsi al 10 a.C. e potrebbe essere stata incisa non ad Alessandria, come sottinteso dalle altre interpretazione, ma nel laboratorio romano di Dioscuride.
In ogni caso, qualunque sia la sua origine, è assai probabile che fosse parte del patrimonium principis, ossia delle dotazioni personali dell’Imperatore e fosse custodita o sul Palatino o in uno dei tanti Horti dell’Esquilino. Ai tempi di Costantino, probabilmente fu portata a Bisanzio. Nel 1204, a seguito delle pessime vicende della Quarta Crociata tornò in Occidente e probabilmente in Italia o a Venezia o proprio nella stessa Roma. Nel 1239 venne venduta all’imperatore Federico II di Svevia dadue mercanti provenzali.,
Dal 1253, anno in cui il tesoro di Federico II andò disperso, se ne perdono le tracce, generando così un secondo mistero.
Intorno al 1430 venne vista dal pittore persiano Mohammed al-Khayyam che la riprodusse nel disegno oggi alla Staatsbibliotheck di Berlino. Questo ha fatto ipotizzare come, intorno al 1300 sia finita o a Samarcanda o ad Herat: però rende difficile spiegare come risalti fuori in Italia pochi anni dopo. E’ altrettanto difficile ipotizzare, anche se sarebbe una splendida trama per un romanzo, un viaggio di Mohammed al-Khayyam in Italia. E’ probabile che il buon Mohammed non abbia ritratto la Tazza, ma riprodotto un disegno di questa, fatto da un artista franco, bizantino o turco, in qualche modo poi finito presso la corte timuride.
Pochi decenni più tardi, nel 1458, la Tazza ricomparve di nuovo in Occidente, per la precisione a Napoli nella collezione di Alfonso di Aragona. Da qui la ritroviamo nel 1465 tra i beni del Cardinale Ludovico Trevisan (arcivescovo di Firenze e patriarca di Aquileia), dopo la morte di questi la gemma entrò nella collezione di Papa Paolo II Barbo, al quale rimase fino al 1471, quando passò al suo successore Sisto IV, che la mise in liquidazione tramite il banco Medici-Tornabuoni. Venne così acquistata nello stesso anno da Lorenzo de’ Medici, che si trovava a Roma in occasione della sua ambasciata presso il pontefice. Nell’inventario redatto dopo la morte di Lorenzo, datato 1512, fu valutata ben diecimila fiorini, una cifra astronomica corrispondente a circa un quarto del costo di un palazzo gentilizio.
La Tazza Farnese lasciò la proprietà medicea nel 1538, perché Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’Medici, la portò con sé in occasione del matrimonio con Ottavio Farnese; da quel momento in poi seguì le complesse vicende di tale collezione, per finire ora a a Napoli al Museo Capodimonte
Mentre era in collezione Medici, la gemma ha ispirato vari dipinti, specie per il motivo delle due figure volanti. Uno spunto geniale lo ebbe Sandro Botticelli realizzando La Nascita di Venere (Firenze, Galleria degli Uffizi), eseguita a Firenze dopo il suo ritorno da Roma dove era stato inviato da Lorenzo de’ Medici per affrescare le pareti della Sistina. Nel dipinto del Botticelli, la coppia costituita da Zefiro abbracciato dalla Ninfa Clori rimanda alla raffigurazione di Urano e Libeccio intagliati nella parte interna della Tazza Farnese. Così come altre derivazioni: Il tondo David di Perugino il Mito di Prometeo di Piero di Cosimo (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) e la Cacciata di Attila di Raffaello (Città del Vaticano, Stanze Vaticane, Stanza di Eliodoro).
Sempre al Museo Capodimonte, vi è un’altra derivazione della Tazza Farnese, la sottocoppa d’argento con il Sileno Ebbro di Annibale Carracci. Il bulino su lastra d’argento che misura 32,3 cm. di diametro, era destinato all’uso di suppellettile da tavola e faceva da controparte, in una sorta di simmetria tra Macro Cosmo e Micro Cosmo, con la decorazione della galleria di Palazzo Farnese