Tazza Farnese

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Ogni oggetto passava per le sue mani. Un Centauro intagliato in un sardonio, opera assai fina, forse proveniente dal disperso museo di Lorenzo il Magnifico, la tentò. Ed ella prese parte alla gara. Comunicava la sua offerta al perito, a voce bassa, senza levare li occhi su di lui. A un certo punto, i competitori si arrestarono: ella ottenne la pietra, a buon prezzo. — Acquisto eccellente — disse Andrea Sperelli, che stava in piedi, dietro la sedia di lei. Elena non poté trattenere un lieve sussulto. Prese il sardonio e lo diede a vedere, levando la mano all’altezza della spalla, senza voltarsi. Era veramente un’assai bella cosa. — Potrebbe essere il Centauro che Donatello copiò — soggiunse Andrea

E’ un brano de Il Piacere di D’Annunzio, in cui il buon vecchio Andrea Sperelli, con fare erudito, riconosce, durante durante un’asta romana, il cammeo dal quale è tratto uno dei medaglioni che adornano il cortile di Palazzo Medici-Riccardi di Firenze, che il Vasari così descrive

In casa Medici nel primo cortile sono otto tondi di marmo dove sono ritratti cammei antichi e rovesci di medaglie ed alcune storie fatte da lui molte belle; i quali sono murati nel fregio fra le finestre e l’architrave sopra gli archi delle loggie

Tondi che sono testimonianza di una delle più grandi e splendide collezioni di pietre dure del Rinascimento, il cui pezzo forte, la Tazza Farnese, ha avuto vicende degne di un romanzo. Questa, lavorata in forma di patera,la coppa usata per versare liquidi durante i sacrifici rituali, è uno dei più grandi pezzi di sardonice di epoca ellenistica. L’agata, che dal punto di vista chimico altro non è che una varietà di calcedonio,secondo Teofrasto, prende il nome da un fiume della Sicilia, l’Achates (attuale Drillo), dove sarebbe stata trovata per la prima volta. In particolare il tipo di agata sardonica deriva dal nome di un monte chiamato Sardónix, da Sardi capitale della Lidia, antica regione dell’Asia Minore, affacciata sul Mar Egeo, lo stesso che forse ha generato l’equivoco Shardana/Sardegna.

La Tazza Farnese, di soli 20 cm. di diametro, presenta la rara caratteristica di essere incisa a rilievo su entrambe le facce. La superficie interna della tazza raffigura un’immagine con sette figure: una Sfinge, su cui siede una figura femminile che reca in mano delle spighe; una grande figura maschile con barba, su un albero, che regge una cornucopia; un giovane che impugna un aratro e che reca a tracolla un sacco di sementi; due figure femminili sedute, una delle quali regge una patera; due figure maschili in volo nei pressi del bordo superiore. La superficie esterna invece è interamente decorata da un grande gorgoneion; il naso della Gorgone reca un piccolo foro, la cui esistenza è documentata già nel catalogo della collezione Farnese, probabilmente utilizzato per infilarvi un sostegno onde esporre il manufatto

Date le sue caratteristiche, più che un oggetto di uso concreto,la base non può essere poggiata e la patera ha un profilo troppo irregolare per contenere liquidi, la Tazza Farnese svolgeva il ruoli di medium, per comunicare la ricchezza e la cultura del proprietario e veicolava al generico osservatore messaggi che lui riteneva importanti. Messaggi sulla cui interpretazione gli studiosi si stanno scannando da secoli e che, mancando termini di paragone, se non l’altrettanto problematica Coppa dei Tolomei, ne permetterebbe una datazione di massima.

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Nella Tazza, infatti vi sono due livelli di lettura: il simbolico e il politico. Il primo, identificato da Ennio Quirino Visconti rappresenta un’allegoria dei benefici ottenuti dalle piene del Nilo, simboleggiato dall’uomo barbuto seduto a sinistra, con la cornucopia. Alla sua destra Horus-Trittolemo si appoggia ad un aratro. Sotto di lui Iside è seduta sulla Sfinge, mentre all’estrema destra le due figure femminili rappresentano le stagioni dell’inondazione e della mietitura con i rispettivi attributi. Presso il bordo superiore le due figure volanti sarebbero le personificazioni dei venti Etesii che provocano le inondazioni.

Ora dato che il Faraone è il garante del Maat e dell’Ordine Cosmico di cui le piene nilotiche sono espressione, è probabile che il Tolomeo regnante, si sia fatto ritrarre nella Tazza, assieme al suo parentado, per ribadire il suo ruolo. Questa propaganda, se vogliamo anche poco sottile, costituisce il livello politico della comunicazione. Il problema è che, essendo parenti e somigliandosi un poco tutti ed essendo gli artigiani alessandrini alquanto ruffiani e abitati a standardizzare e abbellire i ritratti reali, non si riesce a capire quale, tra i troppi Tolomei, sia quelli giusto.

Lo Charbonneaux indica nella figura centrale il giovane re Tolemeo VI Filometore, nella cosiddetta Iside la madre di lui Cleopatra I, e nella sfinge il defunto re Tolemeo V Epifane, e data di conseguenza la tazza al 181-173 a. C. Secondo Bastet, le figure centrali potrebbero rappresentare Tolomeo Alessandro con la madre Cleopatra III, per cui l’opera potrebbe essere data al 100 a.C. Altri studiosi, basandosi sulla somiglianza tra Iside e la Venere Esquilina, vi hanno riconosciuto il ritratto di Cleopatra VII e nel giovane Cesarione e nella sfinge Giulio Cesare, per cui la Tazza dovrebbe essere stata realizzata nei concitati giorni del 47 a.C. Altri ancora, ipotizzano come nella piena del Nilo sia inclusa anche una allegoria dell’età aurea per cui sospettano come l’opera sia un corrispondente della Gemma Augustea, quindi un’esaltazione della dinastia Giulio Claudia: per cui, la Tazza potrebbe datarsi al 10 a.C. e potrebbe essere stata incisa non ad Alessandria, come sottinteso dalle altre interpretazione, ma nel laboratorio romano di Dioscuride.

In ogni caso, qualunque sia la sua origine, è assai probabile che fosse parte del patrimonium principis, ossia delle dotazioni personali dell’Imperatore e fosse custodita o sul Palatino o in uno dei tanti Horti dell’Esquilino. Ai tempi di Costantino, probabilmente fu portata a Bisanzio. Nel 1204, a seguito delle pessime vicende della Quarta Crociata tornò in Occidente e probabilmente in Italia o a Venezia o proprio nella stessa Roma. Nel 1239 venne venduta all’imperatore Federico II di Svevia  dadue mercanti provenzali.,

Dal 1253, anno in cui il tesoro di Federico II andò disperso, se ne perdono le tracce, generando così un secondo mistero.

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Intorno al 1430 venne vista dal pittore persiano Mohammed al-Khayyam che la riprodusse nel disegno oggi alla Staatsbibliotheck di Berlino. Questo ha fatto ipotizzare come, intorno al 1300 sia finita o a Samarcanda o ad Herat: però rende difficile spiegare come risalti fuori in Italia pochi anni dopo. E’ altrettanto difficile ipotizzare, anche se sarebbe una splendida trama per un romanzo, un viaggio di Mohammed al-Khayyam in Italia. E’ probabile che il buon Mohammed non abbia ritratto la Tazza, ma riprodotto un disegno di questa, fatto da un artista franco, bizantino o turco, in qualche modo poi finito presso la corte timuride.

Pochi decenni più tardi, nel 1458, la Tazza ricomparve di nuovo in Occidente, per la precisione a Napoli nella collezione di Alfonso di Aragona. Da qui la ritroviamo nel 1465 tra i beni del Cardinale Ludovico Trevisan (arcivescovo di Firenze e patriarca di Aquileia), dopo la morte di questi la gemma entrò nella collezione di Papa Paolo II Barbo, al quale rimase fino al 1471, quando passò al suo successore Sisto IV, che la mise in liquidazione tramite il banco Medici-Tornabuoni. Venne così acquistata nello stesso anno da Lorenzo de’ Medici, che si trovava a Roma in occasione della sua ambasciata presso il pontefice. Nell’inventario redatto dopo la morte di Lorenzo, datato 1512, fu valutata ben diecimila fiorini, una cifra astronomica corrispondente a circa un quarto del costo di un palazzo gentilizio.

La Tazza Farnese lasciò la proprietà medicea nel 1538, perché Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’Medici, la portò con sé in occasione del matrimonio con Ottavio Farnese; da quel momento in poi seguì le complesse vicende di tale collezione, per finire ora a a Napoli al Museo Capodimonte

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Mentre era in collezione Medici, la gemma ha ispirato vari dipinti, specie per il motivo delle due figure volanti. Uno spunto geniale lo ebbe Sandro Botticelli realizzando La Nascita di Venere (Firenze, Galleria degli Uffizi), eseguita a Firenze dopo il suo ritorno da Roma dove era stato inviato da Lorenzo de’ Medici per affrescare le pareti della Sistina. Nel dipinto del Botticelli, la coppia costituita da Zefiro abbracciato dalla Ninfa Clori rimanda alla raffigurazione di Urano e Libeccio intagliati nella parte interna della Tazza Farnese. Così come altre derivazioni: Il tondo David di Perugino il Mito di Prometeo di Piero di Cosimo (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) e la Cacciata di Attila di Raffaello (Città del Vaticano, Stanze Vaticane, Stanza di Eliodoro).

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Sempre al Museo Capodimonte, vi è un’altra derivazione della Tazza Farnese, la sottocoppa d’argento con il Sileno Ebbro di Annibale Carracci. Il bulino su lastra d’argento che misura 32,3 cm. di diametro, era destinato all’uso di suppellettile da tavola e faceva da controparte, in una sorta di simmetria tra Macro Cosmo e Micro Cosmo, con la decorazione della galleria di Palazzo Farnese

Dall’India alla Grecia (Parte III)

gandhara

In parallelo agli incontri tra Alessandro e i brahamani, avvennero una serie di incontri tra gli intellettuali greci al seguito del Macedone e la complessa e variegata cultura indiana dell’epoca; intellettuali che rimasero spiazzati dalla scoperta, tutt’altro che scontata, che anche tra i barbari si praticasse la filosofia. Contatti resi complessi dalle differenze linguistiche, i greci non si resero conto delle differenze tra induismo, buddismo e giainismo, con forse l’unica eccezione dell’ammiraglio Nearco di Creta, di cui Strabone dice

Nearco parla dei filosofi come segue: i Brachmanes sono impegnati in affari di stato e frequentano i re come consiglieri, ma gli altri filosofi indagano i fenomeni naturali, e Calano è uno di questi

E dal fatto che gli intellettuali ellenici avevano già ricevuto in patria una solida formazione filosofica che li portava a filtrare, decontestualizzare e reinterpretare a loro uso e consumo quanto apprendevano dal pensiero indiano.

Eppure, nonostante queste doverose precisazioni, alcuni importanti contributi indiani alla filosofia greca vi furono a cominciare dal Cinismo.

Sempre Strabone parlando dell’architetto di Alessandro Aristobulo di Cassandrea, che tra le tante cose si occupò del restauro della tomba di Ciro il Grande a Pasargade, racconta che

Aristobulo dice di aver visto due filosofi (sophiston) a Taxila, entrambi Brachmanes, e che il più vecchio aveva la testa rasata , ma il più giovane aveva i capelli lunghi , e che entrambi erano seguiti da discepoli, e che, quando non altrimenti impegnati, trascorrevano il loro tempo nella piazza del mercato, erano onorati come consiglieri ed erano autorizzati a prendere come dono qualsiasi merce volessero […] giunsero al banchetto di Alessandro, mangiarono in piedi, e gli insegnarono un esercizio di resistenza (karterìa = fermezza, autocontrollo), ritirandosi in un luogo lì vicino, dove l’anziano si coricò a terra sulla schiena e sopportò i raggi del sole e le piogge […], il più giovane si mise in piedi su una gamba reggendo con entrambe le mani un tronco di tre cubiti di lunghezza […] per tutto il giorno, […] l’anziano ha accompagnato il re fino alla fine, e quando era con lui cambiò abiti e modo di vita e, quando era rimproverato da alcuni, diceva che aveva completato i quaranta anni di disciplina che aveva promesso di osservare

Insomma, incontrò due yogin, ma ai greci dell’epoca, non potevano che richiamare alla mente il cinico Diogene di Sinope, il quale secondo il suo omonimo Laerzio,

Soleva anche dire che nella vita assolutamente nessun successo è ottenibile senza strenuo esercizio, e che questo è capace di vincere qualunque ostacolo. È dunque necessario che quanti scelgono le fatiche che sono in armonia con la natura, invece di quelle improficue, vivano felicemente; mentre coloro che scelgono, contro natura, la dissennatezza siano infelici. Lo stesso abito acquisito di spregiare il piacere fisico è piacevolissimo; e come quanti sono abituati ad una vita piacevole si dispiacciano se vanno incontro al suo contrario, così coloro che sono esercitati al loro contrario spregiano con gran piacere proprio i piaceri fisici. Di questo genere erano i discorsi che faceva e che dimostrava mettendoli in pratica: contraffacendo effettivamente la moneta, non concedendo alla legalità l’autorità che invece concedeva alla natura, e affermando di condurre la stessa sorta di vita che era stata di Eracle, il quale nulla anteponeva alla libertà

Cosa ancor più evidente nel racconto dedicato da Strabone a Onesicrito di Astipalea, braccio destro di Nearco e discepolo di Diogene.

Onesicrito dice che egli stesso è stato inviato a parlare con questi filosofi (sophistai), poiché Alessandro aveva sentito dire che queste persone rimanevano sempre nude (gymnoi [da qui il termine gymnosophistai = filosofi nudi]) e si dedicavano a prove di resistenza (karterìa = fermezza, autocontrollo), ed erano tenuti in grande rispetto […] [Onesicrito] trovò quindici uomini a una distanza di venti stadi dalla città, che restavano in diverse posture, in piedi o seduti o distesi nudi e immobili fino a sera – quando rientravano in città – e il sole era molto difficile da sostenere, faceva infatti così caldo che a mezzogiorno nessun altro poteva facilmente sopportare di camminare a piedi nudi.

Onesicrito dice che egli conversò con uno di questi filosofi, Calano [Plutarco, Vita di Alessandro, riferisce il nome Sphìnes ?, Calano è conio greco derivato dal sanscrito kalyāṇa, “salve!”], il quale accompagnò il re fino in Persia e morì,secondo l’usanza antica, ponendosi su una pira e facendosi ardere. Dice che Calano stava sdraiato sulle pietre, quando lo vide per la prima volta; che quindi gli si avvicinò e lo salutò, e gli disse che era stato inviato dal re per imparare la saggezza dei filosofi e riferirla, e che, se non vi era alcuna obiezione, era pronto ad ascoltare i suoi insegnamenti, e che quando Calano vide il mantello e il cappello a tesa larga e gli stivali che indossava, rise di lui e disse:

“Nei tempi antichi il mondo era pieno di farina d’orzo e farina di grano, come ora lo è di polvere, inoltre scorrevano fontane, alcune con acqua, altre con latte e parimenti con miele, e altre con vino, e alcune con olio d’oliva, ma a causa della sua ingordigia e del desiderio, l’uomo divenne arrogante oltre ogni limite. Ma Zeus, odiando questo stato di cose, tutto ha distrutto e assegnò all’uomo una vita di duro lavoro. E quando l’autocontrollo e le altre virtù in generale dovessero riapparire, verrà di nuovo abbondanza di benedizioni. Ma la condizione dell’uomo è ancora vicina a sazietà e arroganza, e vi è pericolo di distruzione di tutto ciò che esiste”.

E Onesicrito aggiunge che Calano, dopo aver detto questo, gli ordinò, se voleva imparare, di togliersi i vestiti, di sdraiarsi nudo sulle stesse pietre, e, quindi, di ascoltare i suoi insegnamenti, e che mentre [Onesicrito] stava esitando sul da farsi, Mandani, che era il più vecchio e più saggio dei filosofi, rimproverò Calano per l’arroganza, […] [Mandani dice a Onesicrito] che doveva essere perdonato se, conversando con l’aiuto di tre interpreti, i quali, a eccezione della lingua, non sapevano più di quanto sapeva la massa, egli non fosse stato in grado di esporre aspetti della sua filosofia che fossero utili; poiché questo, aggiunse, sarebbe come aspettarsi che l’acqua fluisca pura attraverso il fango!

In ogni caso, tutto ciò che disse, secondo Onesicrito, tendeva a questo, che il miglior insegnamento è quello che elimina il piacere (edoné) e il dolore (lyke) dall’anima [tesi tipica di molte filosofie indiane: distaccarsi da sukha e duḥkha], e che il dolore (lyke) e la fatica (pònos) si differenziano, perché il primo è nemico dell’uomo e la seconda è amica; poiché l’uomo allena il corpo alla fatica in modo che le sue opinioni possano essere rafforzate, per cui egli può porre fine ai dissensi ed essere pronto a dare buoni consigli a tutti, sia in pubblico che in privato […].

Onesicrito dice che, dopo aver detto questo, Mandani chiese se tali dottrine siano state insegnate fra i Greci, e che quando [Onesicrito] rispose che Pitagora insegnò queste dottrine, e anche invitò le persone ad astenersi dalla carne, come avevano fatto anche Socrate e Diogene, e che egli stesso era stato un allievo di Diogene. Mandani rispose che egli considerava i greci di giusto pensiero, ma che si sbagliavano su un punto, in quanto preferivano la convenzione sociale (nomos) alla natura (physis), altrimenti, disse Mandani, non si vergognerebbero di girare nudi, come lui, e di vivere in modo frugale; poiché, aggiunse, la casa migliore è quella che richiede il minor numero di riparazioni […]. E Onesicrito continua a dire che costoro indagano numerosi fenomeni naturali, tra cui pronostici, piogge, siccità e malattie […] e che loro considerano la malattia del corpo come la cosa più vergognosa e che chi sospetta malattia si suicida per mezzo del fuoco: accumulauna pira funebre, si unge, si siede sul rogo, ordina che sia acceso e brucia senza muoversi

Con tutti di distinguo legati alla trasmissione testuale e alle contaminazioni favolistiche, è possibile che Onesimo abbia incontrato dei monaci buddisti e questi, in qualche modo, gli abbiano descritti la versione dell’epoca delle quattro nobili verità e dell’ottuplice sentiero, più semplice di quella canonizzata nel I secolo a.C.

Versione che prevedeva l’eliminazione dall’attaccamento a ciò che è transitorio, visto come fonte del dolore e una moralità basata sul dominio, per giungere all’Illuminazione. Onesimo reinterpretò queste idee nell’ottica greca, depurandole da tutta la loro tensione metafisica e in qualche modo le utilizzò per dare fondamento intellettuale alla filosofare di Diogene, che era essenzialmente prassi e azione nella vita.

Fondamento intellettuale che con il tempo, passò allo Stoicismo e tramite questo divenne uno delle componenti della riflessione etica del Cristianesimo.Analogo discorso, per quel poco che ne sappiamo, dato che non lasciò nulla di scritto, si può dire di Pirrone di Elide, fondatore delle Scetticismo: questo non solo per aver liberato la fisolosofia greca da quella che Schopenhauer definiva

È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente

Infatti, grazie ad Ascanio di Abdera sappiamo:

Pirrone si è poi legato […] a Brisone, figlio di Stilpon, e più tardi ad Anassarco, dal quale divenne inseparabile. Egli lo ha [scil. Anassarco] accompagnato in India e ha visitato con lui i gimnosofisti e i magi. Donde sembra aver coltivato la più nobile filosofia, che ha per primo introdotto in Grecia, ovvero l’acatalessia [= inconoscibilità della vera naturadelle cose] e la sospensione del giudizio (epoché)

Il che fa sospettare che Pirrone abbia, in qualche modo, avuto contatti con il giainismo dell’epoca, secondo il quale l’universo può essere considerato da molti punti di vista, mentre la realtà non è espressa compiutamente da nessuno di essi. Per cui, chiunque si basi sulla mera esperienza empirica è condannato a non raggiungere la Verità: questa è invece conoscibile da colui che acquisisce la capacità di vedere la Realtà con mezzi percettivi non ordinari, ossia tramite l’ascesi, la compassione e la meditazione, superando i limiti della propria individualità ‘storica.

Pirrone tradusse questi concetti nell’esperienza concreta dei greci della sua epoca: secondo la testimonianza di Sesto Empirico, infatti, Pirrone credeva che “vive eternamente una natura del divino e del bene” (Contro i matematici, XI, 20) per cui il saggio che coglie questa verità non può che desumerne un “retto canone”, cioè avere un atteggiamento di distacco da questo mondo e dalle varie opinioni su di esso con cui l’uomo ordinario inutilmente s’irretisce.

Distacco dal mondo e gnosis che divennero la base della Seconda Accademia e del Neoplatonismo, influenzando a loro volta il pensiero cristiano.

La battaglia dei Campi Raudii – 30 luglio 101 a.C. (Plut. Mar. 25, 4-27)

Studia Humanitatis - παιδεία

in Plutarco, Vita di Mario (ed. Marasco G., Torino, 1994, pp. 486-493).

[25, 4] Βοιῶριξ δὲ ὁ τῶν Κίμβρων βασιλεὺς ὀλιγοστὸς προσιππεύσας τῷ στρατοπέδῳ προὐκαλεῖτο τὸν Μάριον, ἡμέραν ὁρίσαντα καὶ τόπον, προελθεῖν καὶ διαγωνίσασθαι περὶ τῆς χώρας. [5] τοῦ δὲ Μαρίου φήσαντος οὐδέποτε Ῥωμαίους συμβούλοις κεχρῆσθαι περὶ μάχης τοῖς πολεμίοις, οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ χαριεῖσθαι τοῦτο Κίμβροις, ἡ μέραν μὲν ἔθεντο τὴν ἀπ᾽· ἐκείνης τρίτην, χώραν δὲ τὸ πεδίον τὸ περὶ Βερκέλλας, Ῥωμαίοις μὲν ἐπιτήδειον ἐνιππάσασθαι, τῶν δὲ ἀνάχυσιν τῷ πλήθει παρασχεῖν. [6] τηρήσαντες οὖν τὸν ὡρισμένον χρόνον ἀντιπαρετάσσοντο, Κάτλος μὲν ἔχων δισμυρίους καὶ τριακοσίους στρατιώτας, οἱ δὲ Μαρίου δισχίλιοι μὲν ἐπὶ τρισμυρίοις ἐγένοντο, περιέσχον δὲ τὸν Κάτλον ἐν μέσῳ νεμηθέντες εἰς ἑκάτερον κέρας, ὡς Σύλλας, ἠγωνισμένος ἐκείνην τὴν μάχην, γέγραφε. [7] καί φησι τὸν Μάριον ἐλπίσαντα τοῖς ἄκροις μάλιστα καὶ κατὰ κέρας συμπεσεῖν τὰς φάλαγγας, ὅπως ἴδιος ἡ νίκη τῶν ἐκείνου στρατιωτῶν γένοιτο καὶ μὴ μετάσχοι…

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Triclinio Leoniano

Triclinum

Anche se spesso passa inosservato, il Triclinio Leoniano è l’unico resto di quello che era l’originale palazzo del Laterano, il Patriarchium, la prima sede pontificia di Roma, forse coincidente con parte della cosiddetta domus Faustae. a cui appartengono i resti della megalografia (ciclo di affreschi raffigurante personaggi celebri a grandi dimensioni) che decorava in origine le pareti di un corridoio lungo 27 metri, ora conservati nel Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo.

Domus Faustae, tradizionalmente attribuita alla moglie di Costantino, ricostruzione che però pone qualche problema: dalle fonti storiche sappiamo che Fausta lasciò Roma all’età di cinque anni per non ritornarvi più, il che rende assai difficile attribuirle una domus. Mancano però esplicite notizie di un’altra Fausta in questo periodo, ma a naso l’alternativa più probabile sembra essere Anicia Fausta, un’esponente femminile di una delle più ricche famiglie cristiane dell’epoca.

patriarchio

Palazzo , il Patriarchium, che dall’Ottavo secolo in poi fu ristrutturato in modo da somigliare il più possibile al Palazzo Imperiale di Costantinopoli. Cominciò quest’opera papa Zaccaria (741-752), il quale, proveniente dalla Calabria di lingua greca, promosse lavori di abbellimento e la costruzione di un triclinium (sala per banchetti) e di una torre fortificata. Ma soprattutto prosegui con Leone III (795-816), che fece costruire altri  due triclinia di grande ricchezza e valore simbolico.

Il primo, che più tardi è stato chiamato Sala del Concilio, abbattuto dal Fontana, era una sala enorme (m 68 x 15,37), con cinque nicchie su ognuno dei lati lunghi e un nicchione sul lato di fondo. Nelle nicchie erano collocati letti semicircolari (accubita) perché all’epoca nei pranzi ufficiali si mangiava sdraiati, come nell’antica Roma; così il triclininio era detto ‘accubitaneo’.

Era sfarzoso: soffitto in legno, pavimento in marmi policromi, al centro una fontana con una conca di porfido (in medio concam porphireticam aquam fundentem), affreschi nelle dieci nicchie laterali e mosaici su quella di fondo.Gli storici pensano che questa imponente sala si ispirasse al Triclinio dei XIX letti nel palazzo imperiale di Dafne, a Costantinopoli. Poiché sempre Leone III aveva costruito nel palazzo anche un grande portico detto macrona, che nel nome ricorda una analoga struttura presente nel Magno Palazzo sempre a Costantinopoli.

L’altro è il nostro triclinio leoniano, di cui Fontana risparmiò l’esedra. Era di forma rettangolare, con un’esedra sul lato di fondo e altre due al centro dei lati lunghi, e splendidamente decorato. Aveva un rivestimento marmoreo alle pareti (opus sectile) e in marmo era anche il pavimento, con al centro una grande fontana di porfido rosso a forma di conchiglia. Era arricchito da colonne in marmo bianco e in porfido, e le esedre laterali erano dipinte mentre quella centrale aveva un mosaico che rappresentava Cristo tra gli Apostoli nel catino, papa Leone e Carlo Magno sull’arco absidale. Proprio in quest’aula il papa accolse Carlo, da lui stesso consacrato imperatore in San Pietro in Vaticano

In origine caratterizzato da una facciata a polifora, l’ambiente era preceduto da un portico chiuso che si affacciava sul campo lateranense con tre porte, mentre, sulla sinistra, una quarta assicurava il passaggio al palazzo che, come ricorda lo storico cinquecentesco Panvinio, in questo modo poteva essere raggiunto dalla basilica. Il portico era più basso della facciata e questo fu determinante in vista della scelta del sito per la realizzazione della Loggia delle Benedizioni da parte di Bonifacio VIII, che fu decorata dagli affreschi di Giotto.

Triclinio-Leonino

La struttura attuale risale alla fine del Cinquecento quando papa Sisto V diede ordine di demolire il vecchio palazzo del Laterano, preservandone però il Triclinium Leoninum. È possibile che alcune parti dei mosaici originali siano state conservate in quello attuale, suddiviso in tre parti: nel centro Cristo affida agli Apostoli la loro missione, a sinistra consegna le chiavi a san Silvestro ed il Labaro a Costantino, mentre sulla destra san Pietro dà la stola a Leone III e le insegne a Carlo Magno.

Nel 1669 a Giovan Battista Falda la piazza del Laterano appariva già molto diversa, con l’abside del Triclinium visibile alla destra dell’edificio della Scala Santa; l’architetto Fontana non salvò solo l’abside dalla distruzione della grande sala ma anche le tre porte (architrave) di accesso del portico che vennero utilizzate nell’edificio della Scala Santa e poste nell’atrio che separa il Sancta Sanctorum.

La struttura attuale è frutto dei restauri del 1743 dell’architetto Ferdinando Fuga che hanno portato all’apposizione dello stemma di Benedetto XIV sopra il nicchione.

 

Dal 30 luglio 2018 Lavori sui binari del tram a Porta Maggiore: tutte le variazioni dei mezzi pubblici

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Dal sito muoversiaroma.it
Lavori dal 30 luglio. Il calendario degli interventi

Ad agosto i tram, con modalità diverse a seconda delle linee, faranno posto ai lavori sui binari a Porta Maggiore e saranno sostituiti dai bus. Il cantiere a Porta Maggiore è in programma sino al 30 luglio.

Per 2, 3 e 19, concluso il cantiere su via Aldrovandi e in vista dell’intervento a Porta Maggiore, resta comunque in atto la sostituzione con bus navetta. Il ritorno sui binarisarà il 13 agosto per il tram 2 e il 3 settembre per le linee 3 e 19. In particolare su 3 e 19 i bus navetta ora coprono le tratte tra Porta Maggiore e i capolinea di Valle Giulia e piazza Risorgimento. Dal 30 luglio al 2 settembre, invece, copriranno anche il percorso tra Porta Maggiore e stazione Trastevere (per la 3) e tra Porta Maggiore e Centocelle…

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Universali musicali

Come scritto tante volte, pur considerando il metodo comparativo utile e necessario nelle scienze umane, tendo a diffidare dell’abuso del metodo comparativo, spesso usato per delle ricostruzioni arbitrarie del lontano passato, che spesso sono riproposizioni del Mito del buon selvaggio, antico quanto l’Occidente.

Un esempio di tale approccio è la ricerca di Victor Grauer, il quale, partendo da un lungo e straordinario lavoro sul campo, ha provato a incrociare una vasta mole di dati etnomusicologici, antropologici e genetici per ricostruire all’indietro la storia della cultura umana, convinto che così facendo si possa seguire anche la traccia della musica, fino a un archetipo che possa suonare come quello originario, quello che decine di migliaia d’anni fa risuonava nelle savane dell’Africa Orientale.

Nel far ciò, formula anche una serie di ipotesi sulla natura originaria delle società umane, e in particolare su un tema . se esse siano, o no, naturalmente portate alla guerra.

Ora, trascurando la forzatura logica nel passare dall’identificare pattern comuni tra le diverse culture e da questi provare a ricostruire una società totalmente estranee alla nostra, è indubbio che questi universali musicali esistano.

Sono infatti delle proprietà ritmiche, la cui capacità di riconoscerle è cablata nei nostri circuiti neurali, che permettono di sequenze strutturate da sequenze casuali

In particolare, secondo numerosi ricercatori di musicologia comparata, queste sequenze ritmiche, per essere riconosciute, devono:

  • essere composte da battiti separati da durate predefinite e categorizzate (per esempio molto breve, breve, lungo, molto luno) anziché durate che possano assumere qualsiasi valore;
  • formare motivi, ossia pattern di durate che si ripetono;
  • indurre un senso di isocronia, ossia essere strutturate attorno a un battito che la nostra mente riconosce come regolare;
  • essere strutturate secondo accenti binari o ternari, alternando suoni più forti a suoni più deboli.

La questione è che questi universali sono presenti in parte in altre specie di mammiferi, ad esempio le foche, che secondo un mio amico biologo potrebbero in potenza essere ottimi tamburelliste di pizzica e in toto in molti i primati, dai lemuri in su.

In particolare, tra i lemuri, il cantatore per eccellenza è l’Indri, purtroppo a rischio di estinzione. In genere, il loro canto è corale: a dare il via alla musica è nel gruppo, la femmina, mamma dei piccoli.. Il suo canto è composto da molte note brevi sulle quali si inserisce il maschio dominante e tutti i giovani maschi sopra i due anni

Le unità sonore sono organizzate in frasi e mostrano un chiaro dimorfismo sessuale: quelle dei maschi hanno durata maggiore delle femmine, ma sono meno numerose. Durante il canto, in particolare, quelle dei giovani maschi si alternano rispetto a quelle della femmina e del dominante, in modo da non coprire il lor canto.

Canto che incomincia con vocalizzazione roche, che attirano l’attenzione dei membri del gruppo, poi le note lunghe, per poi terminare con un numero variabile di unità ritmiche, tra le due e le sei, con frequenza decrescente.

Perché canta l’Indri ? Per due motivi: per delimitare il territorio dai clan vicini, una sonata è sempre meglio di una rissa, e per rimorchiare…

Però il fatto che abbia in comune, come il gibbone, il tarsio e il callicebo, gli universali musicali, implica come questi non siano residui della cultura di un’immaginaria società ancestrale, ma casuali effetti collaterali dell’evoluzione, come i bias cognitivi.

Cantiamo e suoniamo non perché discendiamo dai dei Gandhi preistorici, ma solo perché apparteniamo alla grande famiglia dei Primati.

Riprendono i lavori per il piano archeologico sotterraneo presso la sede ENPAM a Piazza Vittorio

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Un altro tassello per la rinascita dell’Esquilino: dal sito dell’ENPAM riportiamo integralmente la notizia della ripresa dei lavori per la costruzione di un piano archeologico sotterraneo presso la sede ENPAM a Piazza Vittorio. E’ un ulteriore progetto in via di esecuzione che nel medio termine renderà sempre più unico e affascinante il Rione. Un altro ambiente di eccezionale importanza e bellezza che, dopo essere stato nascosto per secoli e secoli, sarà di nuovo a disposizione per essere visitato e ammirato da residenti, turisti e archeologi.

Uno scavo archeologico così vasto non si vedeva a Roma dagli anni in cui è diventata capitale del Regno d’Italia. Sotto Piazza Vittorio Emanuele II, la più grande piazza romana (316 x 174 metri) sono stati investigati 1.600 metri quadrati di terreno, passati al setaccio 12mila metri cubi di materiale e riempite più di 8mila cassette di reperti attualmente in fase di pulizia e restauro…

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Angkor (Parte I)

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Uno dei sogni della mia vita è visitare la Cambogia: viaggio la cui prima tappa, in maniera alquanto banale, da Yaśodharapura,in Sanscrito la “Città che porta Gloria” la grande capitale dell’impero Khmer, nei giorni del massimo splendore era una vasta conurbazione a bassa densità,intervallata da campi di riso ed ampia più di 1.000 km², con una popolazione di diverse centinaia di migliaia di abitanti, che noi europei, per pigrizia, chiamiamo Angkor, deformazione di come i locali pronunciavano il termine sanscrito nagara, città

Impero Khmer che fu fondato da un personaggio assai affascinante, Jayavarman II. il quare era un principe che viveva presso la corte dei Sailendra, nell’allora potente Regno di Giava, probabilmente come ostaggio. Ritornato in patria nell’anno 800 come loro vassallo, messo a capo del regno di Vyadhapura,vi importò l’arte e la cultura giavanesi.

Jayavarman da una parte cominciò un complesso gioco politico e diplomatico con il regno di Champa, che avevano tutto l’interesse a ridurre lo strapotere di Giava nell’area, creando uno stato satellite. Così, l’appoggio di questi vicini, cominciò a riunificare i vari staterelli in cui si era suddiviso il regno cambogiano di Chenla, finché neli’ 802 si fece proclamare Chakravartin (“Re del Mondo”, secondo un rito della tradizione indù) sul monte Mahendra, identificato come l’odierno Phnom Kulen, attestando contemporaneamente l’indipendenza del regno da Giava e da Cham

Il problema è che mancando nella tradizione locale una precisa regola per definire la successione, ogni morte di sovrano scatenava una guerra civile, alternando così periodi di frammentazione politica a periodi di centralizzazione: in uno di questi Yasovarman I, dopo aver sconfitto i fratellastri nel 889 decise di spostare la capitale dalla semidistrutta dalla guerra civile Hariharalaya in un nuovo sito, più ricco di risorse idriche e meno soggetto alle inondazioni e alle incursione degli Cham.

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Fondò così Yaśodharapura, unita alla vecchia capitale con una strada rialzata di una quindicina di km, fece scavare il bacino idrico artificiale del Baray orientale, di forma rettangolare, con il lato maggiore orientato in senso est-ovest, i cui argini sono lunghi 7,5 km per 1,8 km, per una capacità complessiva di circa 50 milioni di metri cubi, per rifornire d’acqua la nuova città. Poi, essendo alquanto tollerante in materia religiosa, eresse una serie di templi, tra cui il Phnom Bakheng, dedicato a Shiva, la cui forma onorava il Monte Meru, per gli induisti l’immensa montagna sacra al centro dell’universo in cui si rifugiavano gli dei e in cui risiedevano. La base del tempio ha un lato di 76 metri, ed era strutturata a forma di piramide composta da 7 liveriginariamente il tempio aveva anche diverse piccole torri (108 circa) attorno alla struttura principale al piano terra, e altre torri sui piani successivi.

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Alla morte di Yasovarman, la città rischiò di essere abbandonata, finché non salì al trono Rajendravarman, il quale,per le parentele incrociate che caratterizzavano le famiglie khmer dominanti, di sapore quasi bizantino, era contemporaneamente zio e cugino di primo grado del suo predecessore, che vi riportò la corte reale.Per prima cosa, per dimostrare la legittimità della sua ascesa al trono, completò il Baksei Chamkrong è un piccolo tempio induista dedicato al dio Shiva, uno dei primi costruiti con materiali capaci di resistere al tempo, mattoni e laterite e con decorazioni in arenaria,

Il nome Baksei Chamkrong significa letteralmente “L’uccello che dà rifugio sotto le sue ali” e deriva da una leggenda che parla di un re che provò a fuggire da Angkor durante un assedio e in questo venne aiutato da un enorme uccello che lo trasportò e gli diede protezione sotto le sue ali. L’iscrizione con cui Rajendravarman, esagerando il suo ruolo, si prende il merito della fondazione del tempio riporta una lunga lista di regnanti, senza discontinuità alcuna, a partire dal probabilmente mitico fondatore del regno di Kambuja Śrutavarman, passando per re di Funan e Chenla, a supporto del suo diritto a regnare. Iscrizione, i cui contenuto contrastano sia con i dati archeologici, sia con le cronache cinesi e che uno dei tanti esempi di come il potere ricostruisca la memoria a suo uso e consumo.

Poi fece costruire il Pre Rup, un altro tempio montagna, dedicato al dio Shiva, le cui iscrizioni riportano una lunga eulogia a sostegno del suo diritto a regnare. Descrivono inoltre diverse scene di battaglia, anche contro i Chăm, a testimoniare un accesso al trono ottenuto e mantenuto per vie non pacifiche.

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Al contempo, il suo ministro architetto Kavindrarimathana su un isolotto artificiale preesistente del Baray orientale fece costruire il Mebon orientale è un tempio Shivaita, in cui le otto torri santuario in mattoni, che circondano le torri centrali in corrispondenza dei quattro ingressi, secondo le iscrizioni ospitavano otto linga e diversi idoli in pietra, raffiguranti Shiva, Parvati, Vishnu e Brahmā secondo le fattezze dei genitori del re, per cui il tempio fu probabilmente concepito come un santuario dedicato alla memoria degli antenati deificati del re, sempre per affermarne la legittimità.

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Alla morte di Rajendravarman, gli succedette il figlio Jayavarman V, di appena dieci anni: per sua fortuna, i ministri e generali del padre, temendo un’epurazione se il trono fosse stato usurpato da qualche altro parente, fecero quadrato in sua difesa.Però, in cambio del loro appoggio fu costretto a cedere loro parte del potere ed enormi latifondi, sottratti al demanio reale. A questo si affiancarono sia generose generose donazioni ai templi, come pure la gestione amministrativa del territorio, affidata ad alti funzionari noti come vrah guru, che svolgevano anche funzioni religiose (come l’invocazione della pioggia).Donazioni che avvengono perlopiù secondo le modalità caratteristiche dell’induismo, ma risulta evidente la diffusione del buddismo nelle classi superiori.

Jayavarman V fece costruire un nuovo palazzo reale, lo Jayendranagari (che in significa “capitale del re vittorioso”), di cui abbiamo pochissime tracce archeologiche e il suo tempio di stato, il Ta Keo, il primo tempio khmer completamente in arenaria, dedicato a Shiva e che rimase incompiuto, nonostante sua maestosità, forse proprio per mancanza di fondi. Yogisvarapandita, un prete di alto lignaggio che divenne ministro di Suryavarman I e “ricevette in dono” il tempio dal Re molti anni più tardi, racconta nelle iscrizioni che un fulmine colpì il tempio ancora in costruzione, un pessimo presagio,
cosicché i lavori furono interrotti.

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Al contempo furono costruiti, entrambi da alti funzionari, a testimonianza del loro crescente potere, il tempio buddhista di Bat Chum, eretto nel 960 d.C. da Kavindrarimathana, potente ministro e architetto di Rajendravarman e il Tribhuvanamahesvara, dedicato ad un grande condottiero e vi si esercitava sia il culto di Shiva (nella torre centrale e nelle sezioni est-ovest) che il culto di Vishnu (sezione nord), fatto erigere da Yajnyavahara, consigliere del re Rajendravarman e insegnante di Jayavarman V.

Secondo le iscrizioni rinvenute il consigliere Yajnyavahara era un grande studioso e filantropo e si prodigava molto per aiutare le persone vessate da eccessive sofferenze e quelle in condizioni di eccessiva povertà.La maggior parte del tempio è costruito in arenaria rossa e le colonne e le pareti interne presentano un numero incredibile di accuratissime decorazioni ammirabili ancora oggi. Gli edifici stessi sono miniature in scala, molto particolari nell’ottica degli standard delle costruzioni khmer.

Dopo la morte di Jayavarman V seguì un decennio di conflitti. I diversi re duravano pochi anni, ed erano spodestati con la violenza dai successori, finché Suryavarman I (che regnò nel periodo 1010-1050) non salì al trono. Il suo governo fu segnato da ripetuti tentativi dei suoi oppositori di spodestarlo e dalle sue conquiste militari….

Dall’India alla Grecia (Parte II)

Dindimus re dei Brahmini gimnosofisti nudi e Alessandro (miniatura Medioevo 2)

Il secondo, principale contatto tra India e Grecia, avvenne, come molti sanno ai tempi di Alessandro Magno, quando l’esercito macedone stazionò nei pressi di Taxila (Takṣaśilā, attuale Punjab) nel 326 a.C.

In quell’occasione avvenne un incontro politico tra il Macedone, che cercava appoggi politici in vista della mia avvenuta campagna militare diretta al Gange, e i brahmani, che in qualche modo cercavano di integrare il nuovo arrivato nel loro sistema culturale, equiparandolo a un membro della casta guerriera dei kṣatriya, al cui interno sono scelti i rājan, i re, quindi coloro che, coadiuvati dai capi “orda” (grāma), i grāmaṇi, quando allocano su uno specifico territorio, o dai capi “esercito” (sénā), i sénānī.

Incontro, probabilmente assai banale e noioso, che i posteri riscrissero e reinterpretarono diverse volte, rendendolo uno degli episodi più noti del romanzo di Alessandro: in una versione, la più famosa e rappresentata nelle miniature medievali, è riconducibile a uno sorta di scambio epistolare tra le parti.

Una seconda, forse più affascinante, è raccontata invece da Plutarco e narra di una raffinata pena escogitata da Alessandro per punire dieci gimnosofisti, gli asceti Hindu avevano istigato alla resistenza il re indiano Sabba e le popolazioni locali: avrebbe sfidato costoro a una crudele gara di indovinelli, facendo condannare a morte il primo di costoro che non avesse risposto correttamente alle sue domande, secondo il giudizio del più anziano tra i gimnosofisti

Lascio la parola allo storico greco

Al primo fu chiesto se a suo giudizio erano più numerosi i vivi o i morti; rispose: «I vivi, perché i morti non ci sono più». Al secondo fu chiesto se dà vita ad animali più grossi il mare o la terra; rispose: «La terra, perché anche il mare è parte d’essa». Chiese al terzo qual è l’animale più astuto. Rispose: «Quel che l’uomo non ha ancora conosciuto».

Al quarto chiese per quale ragione avesse indotto Sabba alla rivolta; rispose: «Perché volevo che vivesse nobilmente o nobilmente morisse». Al quinto fu chiesto se pensava che fosse stato prima il giorno o la notte: «Il giorno» disse «e preceded’un giorno». Il re rimase stupito, ed egli aggiunse: «È logico che per domande impossibili ci siano risposte impossibili».

Passato al sesto, Alessandro chiese come uno possa farsi amare in sommo grado: «Se è potentissimo, ma non ispira timore», disse. Tra gli ultimi tre, quello interrogato su come uno da uomo potrebbe diventare dio, rispose: «Se fa quanto non è possibile che un uomo faccia». All’altro fu chiesto se è più forte la vita o la morte; rispose che la vita è più forte, perché sa sopportare così grandi mali; l’ultimo poi, cui chiesefin quando è bene che l’uomo viva, rispose: «Fino a quando non ritiene che l’essere morto sia meglio del vivere».

Alla fine si volse al giudice e lo invitò ad emanare il verdetto. Egli disse che avevano dato tutti una risposta che era l’una peggiore dell’altra, «Allora» disse Alessandro «tu morrai per primo, per questo giudizio». «No, o re,» ribatté l’altro «a meno che tu non avessi mentito quando dicesti che avresti messo a morte per primo colui che avesse risposto peggio»”.

Fior di studiosi hanno, anche con argomenti fondati, cercato di trovare nel pensiero religioso e filosofico indiano, le radici alle risposte date ai quesiti di Alessandro… Però, l’artificio retorico che permette ai gimnosofisti di salvare la pelle, è tipicamente greco, ossia una delle tante versioni del paradosso del mentitore di Epimenide…

Di fatto la sua risposta è riconducibile a un

Se nel mio verdetto, o Re, sono stato cattivo, vorrà dire che ho ben giudicato, perciò non merito la morte. Se invece ho mal giudicato, il mio verdetto non è cattivo, e ugualmente non merito la morte

Per cui, se questi spunti esistono e non vedo motivo per negarlo sono interpretati e riletti secondo un’ottica e una visione del mondo greca…

La Danzatrice

Per un giorno, la corte del principe invita una danzatrice
accompagnata dai suoi musicisti.

Ella fu presentata alla corte,
poi danza davanti al principe
al suono del liuto, del flauto e della chitarra.

Ella danza la danza delle stelle e quella dell’universo;
poi ella danza la danza dei fiori che vorticano nel vento.
E il principe ne rimane affascinato.

Egli la prega di avvicinarsi.
Ella si dirige allora verso il trono
e s’inchina davanti a lui.
E il principe domanda:

“Bella donna, figlia della grazia e della gioia, da dove viene la tua arte?
Come puoi tu dominare la terra a l’aria nei tuoi passi,
l’acqua e il fuoco nel tuo ritmo?”

La danzatrice s’inchina di nuovo davanti al principe e dice:

“Vostra Altezza, io non saprei rispondervi,
ma so che:

L’Anima del filosofo veglia nella sua testa.
L’anima del poeta vola nel suo cuore.
L’Anima del cantante vibra nella sua gola.
Ma l’anima della danzatrice vive in tutto il suo corpo.

Devo essere sincero: non sono, per mie limiti personali, non lo metto in dubbio, un grande estimatore di Khalil Gibran. Lo trovo troppo verboso e retorico, ben lontano dalla parole che taglia le cose come una spada. Non mi fa sognare, non rimette in discussione le mie idee e i miei preconcetti, non mi scuote e non mi irrita.

Però, come dicevo, è una mia lacuna: perché Gibran, da poeta che é, quando meno te le aspetti, ti colpisce con un pugno allo stomaco, con un’immagine inaspettata, che cattura l’essenza delle cose. Una di queste, riguarda la danza.

Come dice bene un mio amico, tanto eccentrico quanto saggio, è uno chassidim, la danza è la più forma di preghiera, perché è comunione e dialogo con l’Altro e con l’Universo, che ci rivela come il sacro non sia scindibile dal profano e come lo spirito non sia disincantato, ma legato come le ali a una farfalla, alla nostra natura limitata e fallibile. Tramite la danza, dice sempre il mio amico, ci scopriamo non divisi, in unione con il nostro Io e con il Tempo che fugge, mentre dai nostri gesti, come nei sei giorni della Creazione, scaturiscono armonia e bellezza

Danzare è vivere. Ed è questo ciò che riscopro ogni volta, quando scendo il martedì in piazza

E questo martedì, abbiamo anche celebrato il maestro di Filippo, che ci ha fatto scoprire quanta armonia può essere nascosta in una piccola e all’apparente insignificante lira calabrese. Così ne approfitto, anche se poco c’entra con la danza e con la musica, per onorare uno dei miei maestri, il prof Giovanni Picardi, misconosciuto e mai abbastanza celebrato padre della scoperta di oggi, l’ acqua su Marte. Il buo prof, grande frequentatore ed estimatore del Nuovo Mercato Esquilino, è infatti colui che ha progettato il MARSIS il radar sounder, ovvero un radar che opera a frequenze tra 1.5 e 5 MHz in grado di penetrare nel terreno marziano fino a 4 o 5 km di profondità, cosa che ha permesso di trovare il lago sotterraneo sul Pianeta Rosso.

Se fossimo in altri paesi Picardi e l’ASI, l’Agenzia Spaziale Italiana,sarebbero protagonisti di tanti racconti di fantascienza, gli avrebbero dedicato importanti saggi e qualche serie su Netflix. In Italia, a malapena ne ricordiamo l’esistenza: ma il prof di questo poco se ne sarebbe curato. A lui non interessava fama, ma che vi fosse sempre il coraggio di guardare oltre l’orizzonte, per mantenere sempre, come bambini, la curiosità sull’Universo.

Prima di finirla e tornare a le Danze, beh, un ultimo ricordo, con il sorriso sulle labbra: il dimensionamento di MARSIS era uno degli esercizi che saltavano regolarmente, agli scritti di Teoria e Tecnica Radar…

Lucia

E termino con un

Buon Compleanno Lucia

Grazie per ieri !

E un ringraziamento anche a Basilico, che ci ha sopportato con stoica pazienza il nostro bisbocciare…