Quando ero ragazzo, uno dei misteri degli etruschi era dove fosse situato il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi inutilmente cercato sin dal XV secolo, ove si venerava Voltumna/Vertumnus. Voltumna che, tra l’altro, è una divinità alquanto evanescente, dato che è documentato per lo più da testimonianze letterarie ed epigrafiche latine: ne parla ad esempio il buon Varrone, che lo definisce deus Etruriae princeps, fa pensare che fosse una sorta di ipostasi di Tinia, la versione etrusca, con parecchie approssimazioni, di Giove.
Tra l’altra, un’altra interpretazione, abbastanza contestabile delle parole di Varrone, ne farebbe fa il primo dio etrusco introdotto a Roma: l’ antica statua del dio sarebbe stata posta nella città quando vi si acquartierò il contingente etrusco venuto in aiuto a Romolo nella guerra contro i Sabini.
Se lo consideriamo come l’archetipo del Vertumno latino, il che oltre per la somiglianza del nome, potrebbe anche essere per la presenza di una statua bronzea presso il vicus Tuscus, all’ingresso del Foro Romano, opera, secondo la tradizione, del semimitico Mamurio Veturio, il Dedalo sabino, che per ordine di Numa Pompilio, forgiò undici copie dell’Ancile, lo scudo di Marte, Voltumna potrebbe essere il Dio del Tempo e del Divenire, che mutava a seconda della stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti.
Sua compagna era Nortia,una dea assimilata alla Fortuna romana. Sappiamo come avesse un tempio a Volsinii nel quale, in suo onore, si svolgeva una singolare cerimonia: ogni anno il sommo sacerdote, percomputare il tempo trascorso dall’ inizio della storia etrusca, infiggeva un chiodo di ferro nel muro o su di un palo di legno: Tito Livio (7,3,7) riporta che secondo lo storico Cincio, “a Volsinii nel tempio della dea etrusca Nortia si possono ancora vedere dei chiodi piantati per indicare il numero degli anni…”
Come detto, il suo santuario era il centro religioso della dodecapoli etrusca, la lega delle dodici principali città di quel popolo. Livio, pur nominando più volte il Fanum, non ne fornisce mai l’esatta ubicazione. Dalle diverse fonti, sappiamo come ogni primavera vi si celebrasse una celebrazione sacra, della durata di 20 giorni, i cui 12 dedicati agli dei, festeggiati con sacrifici, processioni, gare atletiche e ludi gladiatori, 5 alla discussione, tra i rappresentanti delle città, delle questioni di politica interna e 3 ai problemi di politica estera.
Infine, i rappresentanti delle città eleggevano un sacerdos supremo, il cui ruolo è assai poco chiaro: a seconda degli studiosi varia da un equivalente del Rex Sacrorum romano al comandante supremo dell’esercito federale. Il problema era capire dove fosse situato questo benedetto santuario: molti indizi facevano pensare a una località nei pressi dell’etrusca Velzna. Per prima cosa, la notizia, riportata da Festo, che nel tempio romano di Vertumno, situato sull’Aventino, vi fosse raffigurato Marco Fulvio Flacco, in console conquistatore di tale città, in veste di trionfatore.
Poi, i versi di Properzio, in cui si diceva come Vertumno avesse nostalgia dei focolari di Volsinii (la latinizzazione di Velzna) e il numero spropositato di statue che secondo Plinio, i romani avevano saccheggiato dalla città sconfitta, il che faceva pensare come nelle sue vicinanze vi fosse un importante centro religioso
Infine il cosiddetto “Rescritto di Spello”, anche se il Muratori lo considerava un falso moderno, ossia la disposizione con la quale l’imperatore Costantino concedeva agli Umbri di poter celebrare, secondo un’antichissima consuetudine, le annuali cerimonie religiose e i giochi ad esse connessi a Spello, senza doversi più recare “presso Volsinii”
Per cui era abbastanza pacifico ipotizzare che il Santuario fosse nei pressi di Velzna/Volsinii. Il problema è che di città con questo nome, ce ne sono ben due: Volsinii “vecchia”, la nostra Viterbo e Volsinii “nuova”, la nostra Bolsena, dove furono deportati dai Romano gli abitanti di Velzna dopo la sconfitta.
Su quale fosse la Volsinii esatta, tra le due, ai tempi della mia giovinezza vi era un’accanita discussione tra gli archeologi. Per puro buonsenso, io ero schierato a favore della fazione pro Orvieto, con la consapevolezza che spesso l’Archeologia, che si basa su scavi e dati concreti, spesso contraddice con i fatti riflessioni erudite e ragionamenti che sembravano essere basati su una logica inappuntabile.
Nel 2000, però, l’etruscologa Simonetta Stopponi, basandosi sia su ragionamenti simili ai miei, ossia che il massimo santuario etrusco fosse più prossimo a una loro città che a una colonia romana di nuova fondazione, su i risultati di scavi ottocenteschi e sull’ipotesi di continuità di utilizzo di uno spazio urbano, cominciò a scavare il Campo delle Fiere, alla ricerca del Fanum.
Così è saltato fuori un importante santuario caratterizzato da un’imponente Via Sacra, di quasi 10 metri di larghezza, funzionale a processioni di carattere religioso e celebrativo, attorno alla quale si sviluppano le principali strutture. Il percorso, la cui redazione basolata risale alla prima metà del IV secolo a.C., era già in uso a partire dalla fine del VI sec. a.C. Al limite nord della strada si conserva la soglia di accesso ad un recinto che delimita un ampio spazio sacralizzato, all’interno del quale sono stati individuati un altare, un donario, pozzi e depositi contenenti ricco materiale votivo: ceramiche
greche, teste e frammenti di statue in terracotta, una testina di divinità in bronzo di squisita fattura degli inizi del V sec. a.C. Tra i materiali più antichi spicca la base di una statua bronzea recante un’iscrizione della fine del VI sec. a.C.: il testo menziona una donna di origine campana, Kanuta, accolta in seno a una importante famiglia locale; la sua dedica alle divinità chiamata Tluschva, forse un attrbuto di Nortia avviene nel “luogo celeste”, il nome stesso con cui si indicava in etrusco il santuario.
In questa stessa area è stato portato alla luce un sacello tripartito, edificato intorno alla metà del VI sec. a.C. e defunzionalizzato alla fine del V sec. a.C. quando venne eretto, a poca distanza e con il medesimo orientamento, il tempio A, di cui rimangono il podio costruito in blocchi di tufo ed alcuni elementi in trachite che ne attestano una successiva ristrutturazione nel corso del III sec. a.C. Nello stesso materiale è un donario monumentale, posto perfettamente in asse col tempio e caratterizzato da un profilo a clessidra; accanto ad esso è un altare monolitico in tufo, al di sotto del quale è stata rinvenuta, con il volto rivolto verso l’alto, la bellissima effigie in terracotta su base modanata di una divinità maschile, barbata e dalla complessa acconciatura, databile fra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C.
Il culto in epoca romana perdurò soltanto in questo settore: nella prima età augustea il tempio A venne ristrutturato con un nuovo pavimento in cementizio decorato, mentre oltre 200 monete in bronzo ed argento, databili fra il III sec. a.C. ed il 7 a.C., vennero deposte in un thesaurus in leucitite di fronte all’altare.
Il recinto sacro era anche collegato, ad ovest, con la strada etrusca che si dirigeva verso Bolsena. I materiali rinvenuti consentono di riferirne la costruzione alla prima metà del III sec. a.C., mentre le stratigrafie di abbandono ne segnalano un lungo utilizzo, che interessa anche la fase di occupazione romana. La strada è fiancheggiata da una costruzione in conci di tufo, dotata di una vasca di raccolta per l’acqua con foro di scolo, probabilmente interpretabile come fontana monumentale.
Proseguendo verso sud, il percorso della Via Sacra conduceva ad un altro grande edificio, il tempio C, a pianta rettangolare e delle dimensioni di 12,60 x 8,60 m. Costruito alla fine del VI sec. a.C., venne abbandonato tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., in occasione degli scontri che tra il 308 e il 280 a.C. videro opporsi Romani e Volsiniesi. Accanto al tempio sono state ritrovate alcune tombeinfantili, deposte poco dopo la sua distruzione, che sono probabilmente da collegare alla venerazione di una divinità di tipo matronale, come testimonia il lemma etrusco atial (“della madre”) graffito su
una coppa in bucchero. In corrispondenza della fronte dell’edificio furono collocati i resti di lamine bronzee di un carro da parata, mentre al di sopra dei piani pavimentali moltissime ceramiche, soprattutto greche, e monili d’oro.
La strada risaliva poi le pendici della collina verso la più grande struttura etrusca finora individuata, il tempio B che, con il suo maestoso podio di 12,50 x 17,50 m. e di oltre 4 m. di altezza, dominava l’intera area sottostante. L’edificio, costruito alla fine del VI sec. a.C. e circondato da portici, fontane e vasche fu probabilmente distrutto, nel III sec. a.C., con la conquista romana della città..
Il problema è che, nonostante tutto questo ben di Dio, manca ancora la pistola fumante, un’iscrizione esplicita che citi Voltumna… L’unica cosa che gli si avvicina è una ciotola di bucchero reca graffita una dedica “al Padre” (degli dei), il che purtroppo, è ancora poco per chiudere definitivamente la questione