
La leggenda di sant’Alessio è un interessante esempio di come le storie mutino forma e pelle. Il suo originale, risalente ai tempi di Aśoka Maurya il Grande, parla di un discepolo del Buddha, che rinuncia al matrimonio e alla ricchezza per dedicarsi alla penitenza e alla meditazione. Intorno al 350 d.C. un fedele manicheo, la tradusse in persiano, rendendola una metafora del dovere dell’uomo sarà quello di tenere il proprio corpo puro da ogni corruzione fisica, praticando l’abnegazione ed impegnandosi nel grande lavoro di purificazione cosmica.
Nel 400 d.C. anno più, anno meno, la versione manichea di questa storia si diffonde in Siria, dove, nei pressi di Edessa, viene cristianizzata, parlando così di un giovane e ricco abitante della nuova Roma cioè Costantinopoli, il quale la sera delle nozze si era allontanato di nascosto imbarcandosi per l’Oriente. Giunto ad Edessa, si mise a chiedere l’elemosina con altri mendicanti sull’uscio della chiesa.Quello che raccoglieva di giorno, lo distribuiva di sera ai poveri della città, per il suo ascetismo venne chiamato Mar-Riscia (uomo di Dio); persone incaricate dal padre di ritrovarlo, giunti anche ad Edessa, non riuscirono ad identificarlo in quel mendicante lacero ed emaciato.
Dopo 17 anni, quando si sentì morire, il giovane mendicante rivelò al sacrestano della chiesa la sua vera identità ed origine, il quale una mattina lo trovò morto sul sagrato. Il sacrestano si precipitò dal vescovo Rabula (412-435) e lo supplicò di non far confondere nella fossa comune, il corpo di quel santo uomo, il vescovo allora si recò al cimitero per esumarlo, ma trovò solo le misere vesti, il corpo era scomparso.
Nel secolo IX comparve documentata la leggenda greca o bizantina, la quale trasformava significativamente quella siriaca. Prima di tutto dava un nome al giovane chiamandolo Aléxios (Alessio) che significa “difensore” o “protettore”, situando la sua nascita a Roma e non più in Oriente e datando la sua morte al 17 luglio, al tempo degli imperatori fratelli Arcadio e Onorio (395-408). La leggenda narra che un’icona della Vergine Maria nella chiesa di Edessa (oggi secondo la tradizione, venerata nella chiesa romana di Sant’Alessio sull’Aventino), ordinò al sacrestano di far entrare in chiesa quel mendicante da considerarsi un santo, la voce si diffuse rapidamente fra il popolo dei fedeli, che presero a venerarlo. Alessio cui non piacevano gli onori, fuggì imbarcandosi per Tarso, ma i venti prodigiosamente lo fecero approdare sulle coste italiane ad Ostia; questo fatto fu preso da Alessio come un’indicazione divina, pertanto decise di farsi ospitare come uno straniero povero nella casa paterna a Roma.
Il padre memore del figlio lontano e in difficoltà, senza riconoscerlo lo accolse con benevolenza in casa, dove Alessio rimase per 17 anni, dormendo in un sottoscala fra le umiliazioni e gli scherni dei servi.Quando Alessio sentì che la sua fine era vicina, decise di scrivere le avventure e le origini della sua vita su un rotolo, quando morì le campane di Roma si misero a suonare a festa e fu udita una voce divina che diceva: “Cercate l’uomo di Dio affinché egli preghi per Roma”, così fu scoperto il corpo del santo, ancora con il rotolo in mano, che solo gli imperatori Arcadio ed Onorio riuscirono a sfilarglielo e leggere.
Della leggenda latina non si hanno documentazioni prima del secolo X, comparve prima in Spagna e verso l’ultimo quarto del secolo a Roma.Qui il culto fu diffuso dall’arcivescovo metropolita di Damasco Sergio, il quale costretto a fuggire a seguito dell’invasione dei Saraceni, si stabilì presso la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino, qui fondò una comunità monastica mista, dove i greci osservavano la Regola di s. Basilio e i latini quella di s. Benedetto.
Le diversità apportate nella leggenda latina sono: la chiesa dove Alessio si sarebbe dovuto sposare divenne la stessa basilica dove il santo sarebbe stato sepolto; la mancata sposa, che la sera precedente le nozze accettò di vivere in castità, si chiamò chi sa perché Adriatica; il rotolo con scritta la sua vita, fu tolto di mano non dagli imperatori, ma dal papa stesso, presenti gli straziati genitori Eufemiano e Aglae, che finalmente seppero che quel mendicante in abiti da pellegrino, vissuto nella loro casa, era l’amato figlio.
Ai tempi del Barocco, nel 1625, quando bisognava inventarsi in fretta e furia una biografia per Santa Rosalia, fu usata come traccia, cambiando ovviamente il sesso e la location, propria la versione latina della leggenda di Sant’Alessio.
Ora, tutti questi mutamenti che possono fare inorridire noi moderni, in realtà si pongono in linea con una lunga e antica tradizione di scambi culturali tra Occidente e India, che cominciano ai tempi dell’antica Grecia, antecedente ad Alessandro Magno.
Cito alcuni nomi. Il primo è Scilace di Carianda (VI-V sec. a.C.), un navigatore che partecipò alla spedizione voluta da Dario I,re di Persia, con lo scopo di esplorare l’oceano indiano e il fiume Indo. Compilò un resoconto dal titolo Periplo, ora perduto (rimangono 5 frammenti, di cui 4 sull’India).
Segue poi Ecateo di Mileto (550-476 a.C.). A lui è attribuito un testo noto con il titolo di Periegesis (Giro della terra), frutto dei suoi numerosi viaggi (Agatemero, Abbozzo di geografia 1.1; III sec. d.C.) e di riflessioni contenute in testi già circolanti all’epoca (probabilmente Scilace). Ci restano in tutto 374 frammenti, di cui solo 7 sull’India. Tuttavia, è da escludere che egli abbia raggiunto l’India e le sue conoscenze in materia devono quindi essere derivate da fonti a lui precedenti.
Terzo è il più famoso, Erodoto di Alicarnasso (484-425 a.C.), il padre della Storia, Nel suo testo Storie egli espone alcune notizie relative all’India (3.98-106). Questo è il primo resoconto antico sull’India che ci resta completo, che mi diverto a riportare
[98] Questa grande quantità d’oro, di cui portano al Re la suddetta polvere, gli Indiani se lo procurano in tale modo. La parte del territorio indiano rivolta verso il sorgere del sole è una distesa di sabbia; tra quelli che conosciamo, infatti, di cui si ha qualche notizia sicura, gli Indiani sono i primi che abitano verso l’aurora e il sole nascente fra i popoli d’Asia: a Oriente degli Indiani, infatti, c’è un deserto di sabbia.
Vi sono molte tribù di Indiani e non parlano la stessa lingua; alcune sono nomadi, altre no; altre ancora abitano nelle paludi del fiume e si nutrono di pesce crudo, che catturano servendosi di barche di canna: ogni barchetta è costituita da un tronco di canna fra due nodi. Costoro fra gli Indiani, dunque, portano vestiti intessuti di giunchi: colta una canna dal fiume e battutala a puntino, la intrecciano poi a mo’ di stuoia e lo indossano [99] come fosse una corazza.
Altri Indiani, che abitano a Oriente di questi, sono nomadi, si cibano di carne cruda e si chiamano Padei. Si dice che abbiano abitudini di questo genere: quando un cittadino, donna o uomo che sia, cade ammalato, se è un uomo, gli uomini che sono a lui più vicini per parentela lo uccidono, sostenendo che, una volta logorato dalla malattia, le sue carni vanno in putrefazione; quello, dal canto suo, nega di essere ammalato, ma quelli, non prestandogli ascolto, dopo averlo ucciso, banchettano con le sue carni. Se ad ammalarsi è una donna, allo stesso modo, le donne a lei più prossime le riservano lo stesso trattamento usato sugli uomini. Essi fanno anche banchetto, immolando chi ha raggiunto la vecchiaia, ma sono ben pochi quelli che giungono a contare tanti anni, dal momento che, prima di ciò, [100] chiunque cada ammalato viene ucciso.
Altri Indiani hanno quest’altra usanza: non uccidono alcun essere vivente, non seminano nulla, né sono soliti avere case, ma si nutrono di erbe; hanno un certo legume grosso quanto un grano di miglio, avvolto in un involucro, che cresce spontaneo dalla terra e che essi, dopo averlo raccolto, lo fanno cuocere con l’involucro stesso e lo mangiano. Chi tra loro cade ammalato, dopo essere andato nel deserto, vi rimane: nessuno [101] si preoccupa di lui, né dopo che è morto, né prima mentre soffre. I rapporti sessuali di tutti questi Indiani che ho elencato avvengono in pubblico, proprio come le bestie, e hanno tutti lo stesso colore di pelle, molto simile a quello degli Etiopi. Il loro seme, che emettono nelle donne, non è affatto bianco come per gli altri uomini, ma scuro come la loro pelle: tale è anche il seme genitale degli Etiopi.
Tra gli Indiani questi sono quelli che abitano più lontano dai Persiani, verso il vento di Noto, [102] e non sono mai stati sudditi del re Dario. Altri Indiani, invece, confinano con la città di Caspatiro e con il territorio dei Pattii; sono stanziati, rispetto agli altri Indiani, verso l’Orsa e il vento di Borea, e conducono uno stile di vita simile a quello dei Battriani. Costoro sono i più bellicosi fra gli Indiani e sono questi ad andare alla ricerca dell’oro: in questa regione, infatti, si trova un deserto di sabbia.
Ebbene, in questo deserto e nella sabbia vivono formiche di taglia inferiore a quella dei cani e maggiore di quella delle volpi; di queste ve ne sono anche presso il Re dei Persiani, catturate proprio lì. Queste formiche, dunque, scavandosi la propria tana sottoterra, portano in superficie la sabbia proprio come le formiche che si trovano presso i Greci (proprio alla stessa maniera) e anche nell’aspetto sono estremamente simili ad esse: ma la polvere che sollevano è aurifera. Proprio per impadronirsi di questa sabbia gli Indiani fanno delle spedizioni nel deserto, dopo aver aggiogato ciascuno tre cammelli, due maschi ai lati a tirare, legati con una fune, e una femmina in mezzo. Il cammelliere monta sopra quest’ultima, assicurandosi di aggiogarla dopo averla allontanata dai cuccioli quanto più piccoli possibile. I loro cammelli, infatti, quanto a velocità non sono inferiori ai cavalli e, oltre a ciò, [103] sono molto più resistenti nel portare carichi pesanti. Non descrivo l’aspetto del cammello, dal momento che i Greci lo conoscono; dirò invece ciò che i Greci non sanno: il cammello, nelle zampe posteriori, ha quattro ossa femorali e quattro ginocchia; il membro tra le zampe posteriori è rivolto [104] verso la coda.
Gli Indiani, quindi, in questa maniera e avvalendosi di questo modo di aggiogare gli animali, si spingono alla ricerca dell’oro, dopo aver calcolato per farne rapina, quando il caldo è più ardente: a causa del caldo, infatti, le formiche stanno nascoste sottoterra. Per queste persone il sole più caldo è quello del mattino, non già, come per gli altri, quello di mezzogiorno, ma dal suo sorgere fino allo sgombero del mercato: durante questo lasso di tempo il sole brucia molto di più che in Grecia a mezzogiorno, tanto che si dice che in quelle ore la gente se ne sta ammollo in acqua; a mezzogiorno, dunque, brucia press’a poco allo stesso modo gli Indiani e gli altri uomini; sul far del pomeriggio, il sole diventa per loro come per gli altri quello del mattino, e a mano a mano che dal meriggio si allontana concede sempre maggior refrigerio, finché, al tramonto, fa [105] oltremodo fresco.
Dopo esser giunti sul luogo con dei sacchi, gli Indiani, non appena li hanno riempiti di sabbia, tornano indietro il più velocemente possibile: infatti, le formiche, avvertendo immediatamente il loro odore, a quanto dicono i Persiani, si lanciano all’inseguimento. Nessun altro essere ha una velocità pari alla loro, sicché, se gli Indiani non prendessero vantaggio nella corsa, mentre le formiche vanno raccogliendosi, nessuno di loro troverebbe scampo. I maschi dei cammelli, vista la loro inferiorità nella corsa, quando iniziano a farsi trascinare, vengono slegati, uno dopo l’altro; mentre le femmine, ricordandosi dei piccoli che hanno abbandonato, non danno segno di fiacchezza. Gli Indiani, dunque, a detta dei Persiani, si procurano in questo modo la maggior parte dell’oro; altro oro, seppure in quantità minore, viene estratto dal sottosuolo.
L’ultimo è Ctesia di Cnido (V-IV sec. a.C.). Fu medico alla corte persiana di Artaserse II.Scrisse una storia della persia (tà Persikà) e una sorta di addendum relativo all’India (tà Indikà). Di queste opere ci restano solo frammenti, nondimeno ne sopravvive un’epitome approntata da Fozio (IX sec. d.C.), patriarca di Costantinopoli, e inserita della sua raccolta titolata Biblioteca
A prima vista, tutti i racconti del logagrafi, come quello di Erodoto, paiono un’accozzaglia senza capo né coda di favolette, su cui si baserà un un immaginario favoloso, che ci porteremo dietro sino al Medioevo inoltrato. Ad esempio Ctesia cita come popoli reali i Monocoli (che avrebbero una sola gamba), i Macrocefali (dalla lunga testa),gli Otolicni (che userebbero le loro enormi orecchie come coperte), i Monoftalmi(con un occhio solo), i Cinocefali (dalla testa di cane)
Se però si da una letta alle fonti sanscrite, saltano fuori tutti questi esseri favolosi: significa che da Oriente a Occidente, non circolavano solo merci ed esperienze concrete, ma Storie, assimilate e riscritte, come quelle di Sant’Alessio, secondo le specifiche esigenze di chi le ascoltava e le tramandava. Esigenze che ai tempi dell’Ellade, erano legate alla necessità di ipotizzare un luogo, denso di meraviglia dove governo e società non si conformano al Logos, alla Ragione artificiale, ma alla nomos katà physin, dìkaion physikon (“legge secondo natura, giusto naturale”) la legge intrinseca alla Mondo Naturale