La sonata della Lira

Questa sera, come tradizione, dalle sette in poi, vi sarà nei giardini di Piazza Vittorio, nella solita panchina vicino alle giostre, una delle tradizionali sonate estive de Le danze di Piazza Vittorio, stavolta dedicata alla lira calabrese. Qualcuno, con la puzza sotto al naso, penso a qualche mio collega che strimpella il piano, potrebbe alzare le spalle, considerandola uno strumento di serie z.

In realtà, la buona vecchia lira calabrese è una venerabile esponente di un’antica e nobile famiglia, la cui matriarca è la lira pontica, citata da Senofonte e da Plinio il Vecchio, che in forme e modi assai diversi da quelli dell’antichità classica, continua ad essere suonata.

La capofila è la buona vecchia lira bizantina è uno strumento musicale medievale della famiglia degli archi, a tre corde accordate ad intervalli di quinta, suonata sia da tanti basileus, come Niceforo Foca o Alessio Comneno, sia da grandi mistici sufi come Rumi.

È sicuramente suonata a Bisanzio, nel IX o X secolo, anche se il primo che la cita esplicitamente non è un rhomanoi, ma il viaggiatore, melomane e geografo persiano Ibn Khordadbeh, che in una sua opera, comincia a vantarsi con il lettore di tutti gli strumenti che conosceva, avendoli ascoltati o suonati.. Dato che questo elenco si estende per quattro fitte pagine e cita cose che a noi moderni rimangono ignote, ha tutti i motivi per essere orgoglioso di tale competenza.

Secondo lo storico arabo El Messaoudi, la lira bizantina è l’equivalente del rebab arabo, con ciò confermando il Glossarium Latino-Arabicum dell’XI secolo. Secondo il compositore ottomano del XIV secolo Abdülkadir Merâgî, questo strumento era diffuso anche fra i turchi e i persiani con il nome di kemânçe-i rumî (“lira dei romei”, cioè dei bizantini); tuttavia non esiste nessuna miniatura o fonte che documenti in questi Paesi uno strumento analogo prima del XVIII secolo.

La più antica rappresentazione iconografica dello strumento si trova su uno scrigno bizantino d’avorio datato tra il 900 e il 1100 e conservato a Firenze. Sono stati inoltre rinvenuti due esemplari di lire bizantine risalenti all’anno 1190 durante degli scavi a Novgorod, probabilmente portata a casa da un veterano della guardia variega.

E dalla veneranda lira bizantina, sono derivati tanti e tanti strumenti, tra lo simili, diffusi per tutti i luoghi che furono governati dalla saggezza del basileus kai autokrator ton romaion. Si comincia dalla gadulka bulgara, il cui nome significa fare rumore, brusio, usata per accompagnare la locale musica da ballo, che rispetto alla lira calabrese, ha moltiplicato le corde.

Si prosegue poi con la lira cretese, la più moderna della famiglia, dato che, a suo modo, si è violinizzata.

Oppure con la lijerica dalmata, suonata soprattutto a Ragusa, Lagosta e Meleda in occasione del Carnevale

O la quasi estinta lira maltese, che gli inglesi, con le loro strane paturnie, vietarono di suonare a fine Ottocento e la cui tradizione è stata recuperata solo negli ultimi anni.Per cui, celebrare la lira calabrese è qualcosa di più che dare un poco di visibilità a uno strumento popolare ignoto ai più: è celebrare, in un momento in cui la politica istiga paura e in cui vuole alzare i muri, le comuni radici del Mediterraneo e il fatto che, nonostante le apparenti differenze, siamo tutti figli di una stessa Storia.

Isole di stabilità

 

Attualmente, l’elemento chimico più pesante trovato dall’umanità è l’oganesson, che racchiude nel suo nucleo la bellezza di 118 protoni, il quale ha una genesi alquanto avventurosa. Il primo a intuire la sua possibile esistenza fu nel 1998 il fisico polacco Robert Smolańczuk che provò a simulare nei sui calcoli, il risultati sulla fusione di nuclei atomici, come il piombo e il kripton, indirizzata alla sintesi di elementi iperpesanti. I suoi conti finirono nelle mani di alcuni ricercatori del Lawrence Berkeley National Laboratory, che provarono a realizzarli nel concreto: così nel 1999 annunciarono la sintesi di due nuovi elementi, il Livermorio, con il nucleo a 116 protoni, e il nostro caro Oganesson.

Solo che nel 2000, furono costretti a rimangiarsi l’annuncio, perchè non riuscivano a replicare l’esperimento in nessun modo: si scoprì poi che lo scenziato bulgaro Victor Ninov, per ottenere il merito della scoperta, aveva falsificato all’epoca calcoli e risultati.

Il primo decadimento di atomi di Oganesson fu osservato nel 2002 al Joint Institute for Nuclear Research (JINR) di Dubna, in Russia, studio frutto di una collaborazione tra scienziati americani e russi.Guidati dal fisico nucleare russo Jurij Colakovič Oganesian, il 9 ottobre 2006 tali ricercatori annunciarono di aver presumibilmente ottenuto tre o quattro nuclei di oganesson-294 (uno o due nel 2002 e gli altri tra il 2005 e il 2006), scaturiti da una collisione tra atomi di californio-249 e ioni di calcio-48.

Nel 2011 la IUPAC, l’Unione Internazionale di Chimica pura e applicata, giustamente scettica, visto il precedente, valutò con cautela i risultati ottenuti dai laboratori di Dubna e di Livermore nel 2006, concludendo che “in veste ufficiale, tre isotopi con numero atomico 118 sono stati isolati ma non sussistono ancora le condizioni per soddisfare i criteri per classificare l’evento come una scoperta”.

Ulteriori esperimenti, però, dimostrarono coe questa volta nessuno avesse barato, per cui nel dicembre 2015, la IUPAC e la IUPAP confermarono l’esistenza di questo nuovo elemento e attribuirono il merito della scoperta ai ricercatori del team di Dubna-Livermore, il quali diedero il nome all’elemento, rendendo onore al buon Ogonesian.

Che proprietà abbia questo elemento, poco si sa: alcuni pensano che abbia le stesse stesse caratteristiche e proprietà fisico-chimiche del gruppo di elementi cui appartiene, ovvero quello dei gas nobili. Sarebbe il secondo elemento gassoso radioattivo (insieme al radon) e il primo elemento gassoso semiconduttore.

Altri pensano invece che, potendo in teoria formare ossidi stabili, abbia caratteristiche ben diverse da un gas nobili e che quindi possa apparire come un solido. Tutti però concordano in un suo rapidissimo decadimento radiattivo: si stima come la sua emivita sia pari circa a 0,89 millisecondi.

Perché duri così poco, è presto detto: tutte le volte che aggiungiamo un protone a un nucleo atomico, ne aumentiamo la carica positiva, incrementando così la forza di Coulomb, quella che respinge le cariche con lo stesso segno. A un certo punto, tale repulsione diventa maggiore dell’interazione forte, la forza attrattiva che lega assieme i nuclei atomici, provocando la loro fissione.Per cui, più protoni vi sono, meno stabile è il nucleo… Con un però: la stabilità di ogni specifico elemento chimico non dipende solo dal numero di protoni, ma anche da come sono disposti assieme ai neutroni nel nucleo atomico.

Island-of-Stability

 

Secondo il fisico Glenn Theodore Seaborg, morto nel 1999 e scopritore del plutonio, dell’americio, del curio, del berkelio, del californio dell’einstenio e del fermio e sospetto di essermene perso qualcuno, il nucleo atomico è costituito da “gusci” in modo simile ai gusci elettronici degli atomi. In entrambi i modelli possono presentarsi “gusci” energetici, ovvero livelli energetici relativamente vicini gli uni agli altri e separati da livelli energetici di altri “gusci” vicini da salti energetici relativamente grandi. Così quando il numero di neutroni e protoni riempie completamente i livelli di energia di un dato guscio nel nucleo, l’energia di legame per nucleone raggiunge un massimo locale e quindi quella particolare configurazione presenta una stabilità maggiore rispetto agli isotopi vicini che non hanno i livelli energetici del nucleo altrettanto completi.

Ciò varrebbe anche per gli elementi iperpesanti, con l’attenzione che, per gli effetti relativistici, questi non sono più perfettamente sferici, ma deformati, per cui questi “numeri magici”, sarebbero diversi rispetto a quelli dei normali elementi chimici. Per cui, potrebbe esistere, tra gli elementi iperpesanti, un insieme di isotopi, con un’emivita molto lunga, la cosiddetta isola di stabilità: ipotesi confermata dagli esperimenti compiuti nell’ultima decina d’anni.

Cosa che aprirebbe due prospettive alquanto interessanti: elementi iperpesanti stabili potrebbero anche esistere in Natura, oltre che nei laboratori. In più, questi potrebbero portare a nuovi materiali, con i relativi impatti tecnologici…

Positano, riapre la Villa Romana con i suoi eccezionali affreschi

Storie & ArcheoStorie

POSITANO (SA) – La Villa Romana di Positano (Salerno),uno dei più suggestivi spazi archeologici ipogei di età romana rinvenuti negli ultimi anni in Italia meridionale apre finalmente al grande pubblico. L’inaugurazione del sito avverrà mercoledì 18 luglio 2018 alle 18; dal 19 al 31 luglio sono in programma visite gratuite per i residenti a Positano, mentre da mercoledì primo agosto il sito aprirà definitivamente al pubblico.
Dopo due importanti campagne di scavo (2003/2006 e 2015/2016) il sito, di cui si conoscono le origini sin dal 1758, è pronto a mostrare i suoi tesori. I dettagli del restauro e della conseguente valorizzazione e fruizione del sito sono stati illustrati in una conferenza tenutasi a Palazzo “Ruggi D’Aragona” presso la Soprintendenza ABAP di Salerno. All’incontro, coordinato da Michele Faiella, Funzionario per la Promozione e Comunicazione – Responsabile dell’Ufficio Stampa della Soprintendenza, hanno partecipato Francesca Casule, soprintendente ABAP di Salerno e Avellino…

View original post 1.181 altre parole

Il sarcofago di Enrico VII a Cosenza

sarcofago-enrico-duomo-cosenza

Tutto si può dire, tranne che Federico II, lo Stupor Mundi, fosse fortunato come padre… La sua tragedia più grande fu il rapporto con il figlio primogenito Enrico, nato nel 1212 da Costanza d’Aragona. Enrico a un anno d’età fu incoronato re di Sicilia come coreggente del regno, nel 1220, all’età di soli nove anni, fu fatto eleggere re di Germania, sotto la tutela dell’arcivescovo di Colonia Engelberto di Berg, e fu incoronato nel 1222. Sposò Margherita d’Austria, da cui ebbe due figli: Federico ed Enrico.

Di fatto crebbe lontano dal padre e dall’ambiente multiculturale della Magna Curia: questo oltre a fargli sviluppare un profondo rancore nei confronti del padre, dovuto alla sensazione di essere stato abbandonato a se stesso, gli fece maturare una diversa visione della politica e della gestione dello Stato.

Federico, grande utopista, riteneva come questa dovesse avere una dimensione sovranazionale, finalizzata al restauro dell’Impero Universale, in cui sia le istanze di autonomia locale, sia la religione fossero subordinate alle esigenze del basileus. Enrico, più realista, riteneva questo compito troppo superiore alle risorse della casa di Svevia. Invece di inseguire sogni di grandezza, bisognava concentrarsi sulla Germania, rafforzando la propria posizione con un compromesso sia con il Papato, sia con la Lega Lombarda. Ovviamente, non essendo gli Hohenstaufen noti per la diplomazia e l’attitudine alla pazienza, tale contrasto degenerò rapidamente in uno scontro aperto.

Così, Federico II nella Dieta di Magonza del 15 agosto 1235 ordinò la deposizione di Enrico e l’arresto nella fortezza di Heidelberg. Dopo un processo sommario, Enrico fu condannato a morte. La pena fu però commutata in carcere a vita. Quindi, fu rinchiuso in diverse fortezze del regno di Sicilia, tra cui il castello di Nicastro. A questo punto la storia si confonde con le leggende, per cui si hanno diverse versioni sulla fine di Enrico.  Secondo la leggenda, Enrico finì i suoi giorni suicida a soli 31 anni il 12 aprile 1242.

Quel giorno, scortato dalle guardie stava percorrendo una tortuosa strada di montagna mentre era trasferito da Nicastro alla volta del castello di Martirano. Improvvisamente sottraendosi alle vigilanza delle guardie, si gettò da cavallo sfracellandosi in un dirupo. Secondo un’altra versione leggermente diversa, Enrico rinchiuso nel castello di Nicastro, convinto che il padre volesse ammazzarlo, poté eludere la vigilanza grazia alla benevolenza dei custodi e fuggire, rifugiandosi nella foresta caprile di Martirano. Ma tradito dal alcuni pastori fu nuovamente arrestato e rinchiuso nel carcere di martirano.
Poi, mentre veniva trasportato a San Marco Argentano in provincia di Cosenza, sarebbe precipitato in un dirupo, non si sa se per disgrazia o per suicidio.

Enrico fu sepolto nel duomo di Cosenza, in terra consacrata, il che pone parecchi dubbi sulla veridicità del precedente racconto: nell’ottica del recupero classicista della Magna Curia, in cui il recupero della statuaria romana e della sua iconografia doveva evidenziare concretamente la continuità tra l’impero romano e il dominio della casa di Svevia, la salma fu sepolta in un bel sarcofago romano in marmo proconnesio, risalente all’epoca di Caracalla, decorato con la rappresentazione della caccia al cinghiale Calidonio.

Per chi non ricordasse tale mito, ne do una breve sintesi. Oineo, re degli etoli, aveva offerto un sacrificio a tutte le divinità, dopo un abbondante raccolto, dimenticandosi però di onorare Artemide, anche perché questa aveva ben poco a che fare con l’agricoltura. Ma Artemide, dato il suo pessimo carattere, se la legò al dito e inviò contro il paese di Calidone un cinghiale di proporzioni spettacolari che devastava i campi e uccideva i sudditi del re. La gente spaventata non aveva più tranquillità e si nascondeva solo nelle città fortificate.

Meleagro, figlio di Oileo, in gioventù uno degli argonauti, non stette con le mani in mano e organizzò una caccia al cinghiale, radunando i principali eroi greci dell’epoca. Alcuni mitografi ce ne hanno tramandato la lista: Driante di Tracia, figlio di Ares; Idas e Linceo, i due figli di Afareo, che venivano da Messene; Castore e Polluce,; Teseo di Atene; Admeto, di Fere, in Tessaglia; Anceo e Cefeo, figli dell’arcade Licurgo; Giasone, di Iolco; Ificle, fratello gemello di Eracle, che veniva da Tebe; Piritoo, figlio di Issione e amico di Teseo, venuto da Larissa, in Tessaglia; Telamone, figlio di Eaco, giunto da Salamina; Peleo, suo fratello, giunto da Ftia; Eurizione, cognato di quest’ultimo, figlio di Attore; Anfiarao, figlio d’Oicle, venuto da Argo, insieme ai figli di Testio, zii di Meleagro. C’era anche una donna cacciatrice, Atalanta, figlia di Scheneco, venuta dall’Arcadia, la cui presenza provocò parecchi malumori. Gli eroi greci erano misogini e assai superstiziosi e ritenevano come la presenza femminile portasse iella durante la caccia… Ma Meleagro, che aveva preso una sbandata per Atalanta, non volle sentire ragioni.

Dopo nove giorni di bisboccia, finalmente si decisero ad andare a caccia del cinghiale, cosa che si trasformò nella versione ellenica di Alien o di Predator. I cacciatori sguinzagliarono i cani e seguirono le grandi orme della bestia, fino a quando snidarono il cinghiale presso un corso d’acqua, mentre si abbeverava. L’animale, scoperto si scagliò ferocemente in mezzo ai cacciatori, i quali a gara cercarono di ferirlo. Nestore, che già all’epoca si mostrava assai più intelligente della media degli achei trovò scampo a fatica, salendo su un albero mentre Giasone lanciò il proprio giavellotto, mancando il bersaglio.
Telamone invece scagliò la lancia contro la bestia, ma colpì accidentalmente il cognato Eurizione, il quale stava tentando di scagliare i suoi giavellotti contro il cinghiale. Peleo e Telamone rischiarono però di essere caricati dalla belva che per fortuna fu colpita ad un orecchio da una freccia di Atalanta e fuggì. Anceo, spintosi troppo avanti per dare un colpo d’ascia al cinghiale, venne lacerato dalle zanne della bestia, cadendo a terra morto. Anche Ileo venne ucciso, insieme a molti dei suoi cani da caccia. Allora Anfiarao assestò al cinghiale una pugnalata a un occhio, accecandolo, e, quando Teseo fu sul punto di essere travolto, Meleagro conficcò il giavellotto nel ventre dell’animale e lo finì con un colpo di lancia al cuore.

Dopo questo bagno di sangue, come tradizione locale, gli achei cominciarono con molto entusiasmo tra loro, a causa del disaccordo su come spartirsi le spoglie della bestia… Ma questa è un’altra storia.

Tornando alla tomba di Enrico, non è ben chiaro dove fosse situata in origine. Sappiamo solo, dato che il sarcofago ha il retro non decorato, ma appena abbozzato, che fosse appoggiato a una parete. Rinvenuto interrato presso un pilastro della navata nel 1934, in occasione del restauro del Duomo, in origine, anche per motivi di propaganda dinastica, doveva essere ben visibile nella navata della chiesa.

Secondo Andreotti “il suo tumulo fu alzato nel corridoio che precede l’entrata due congregazioni di S.Filippo e Giacomo e dell’Assunta” e lo stesso storico precisa poi che “esso vi stette sino al 1576 epoca in cui l’Arcivescovo Matteo Andrea Acquaviva volendo rendere più largo quel corridojo di lì il fece togliere”.

In quell’occasione il sepolcro fu aperto, e “vi si trovarono le ossa avvolte in un panno di seta color leonato tessuto d’oro consunto”, lungo oltre tre metri, la corona, lo scettro e il globo, tutti simboli della regalità imperiale. Cosa confermata anche dalle verifiche più recenti

Nel 1998, i resti di Enrico VII sono stati sottoposti a un esame paleopatologico condotto da un’équipe guidata da Gino Fornaciari, dell’Università di Pisa, e da Pietro De Leo, storico dell’Università della Calabria, analsi che hanno permesso di evidenziare altri aspetti dell’intricato vicenda umana di Enrico. L’esame ha rivelato resti appartenenti a un uomo alto circa 1,66 m, dalla struttura fisica vigorosa e dai forti attacchi muscolari. Lo scheletro rivelava gli esiti di traumi e sovraccarichi dovuti probabilmente alla pratica dell’equitazione e i segni di un’antica lesione secondaria derivante da un trauma al ginocchio sofferto in gioventù: la deformità rotulea era in grado di indurre quella zoppia che è una delle poche caratteristiche note dell’aspetto fisico di Enrico, di cui le cronache tramandano l’epiteto di sciancato.

Ma la sorpresa più grande, non nota dalle fonti storiche è che Enrico soffrisse di lebbra in stato avanzato, che ne aveva sfigurato i lineamenti, il che fa riesaminare la questione della sua prigionia, che sembra essere più una sorta di isolamento sanitario, per curare e lenire gli effetti di quella malattia disabilitante,  sia la causa della sua morte.

Infatti, la frase delle cronache dell’epoca, “ex improvviso cadens infirmatus obiit”, tradotta tradizionalmente con un “cadendo all’improvviso (da cavallo), infortunato, morì”, debba essere interpretata letterarmente con ” un ammalatosi all’improvviso”, morì.

Cosa che fa vedere anche sotto una diversa luce, la scelta di quel specifico sarcofago da parte di Federico II per la sepoltura del figlio: se i grifoni sul lato corto rappresentano l’apoteosi dell’eroe, liberatosi dal peso della carne, il mito di Meleagro invece racconta la sua terribile e sfortunata lotta contro la malattia che ne corrodeva la carne…

Street Attack 3.0

Come scritto tante volte, noi de Le danze di Piazza Vittorio crediamo nelle Idee che diventano Azioni, che la Bellezza non sia qualcosa di inutile, ma un’arma per combattere la barbarie e uno mattone per costruire ponti e che Arte, Musica e Danza non debbano esistere nell’Iperuranio, come stendardi appesi tra le arcate di un portico, ignari di cosa accade alla loro ombra, ma vivere, soffrire e sognare in mezzo agli uomini.

Per questo ci siamo impegnati nella street art, per lasciare una traccia concreta e duratura nelle strade dei Rione, trasformando non luoghi in musei a cielo aperto, le cui possono piacere o non piacere, ma non lasciano indifferenti, costringendoci a riflettere.

Per questo abbiamo lanciato l’iniziativa Street Attack, che ci ha portato a collaborare con tanti artisti, di grande talento, disponibilità e spessore umano. Iniziativa che oggi si è arricchita di una nuova opera: il murale a via Giolitti 225, nella scuola d’italiano de La Casa dei diritti sociali, dedicato al maestro Alberto Manzi

Per chi non se lo ricordasse, era il presentatore del programma Rai Non è mai troppo tardi che prese il via il 15 novembre 1960, concepito come strumento di ausilio nella lotta all’analfabetismo. Il programma, curato insieme con Oreste Gasperini e Carlo Piantoni, ebbe grande successo, enne riprodotta all’estero in ben 72 Paesi, e lo rese famoso; riproduceva in televisione delle vere e proprie lezioni di scuola primaria, con metodologie didattiche innovative (Manzi al suo “provino” strappò il copione che gli era stato dato e improvvisò una lezione alla sua maniera), dinanzi a classi composte di adulti
analfabeti o quasi.

La trasmissione andò in onda per otto anni e fu di grande interesse e di grande rilevanza sociale: si stima che quasi un milione e mezzo di persone abbiano conseguito la licenza elementare grazie a queste lezioni a distanza, svolte di fatto secondo un vero e proprio corso di scuola serale. Le trasmissioni avvenivano nel tardo pomeriggio, prima di cena; Manzi utilizzava un grosso blocco di carta montato su cavalletto sul quale scriveva, con l’ausilio di un carboncino, semplici parole o lettere, accompagnate da un accattivante disegnino di riferimento. Usava anche una lavagna luminosa, per quei tempi assai suggestiva. La ERI, casa editrice della RAI, pubblicava materiale ausiliario per le lezioni, quali quaderni e piccoli testi.

In questi tempi, in cui l’ignoranza sembra essere diventata una virtù, quanto ci servirebbe un nuovo maestro Manzi e soprattutto, quando sarebbe necessario lo spirito di sacrificio e la volontà di rimettersi in discussione dei tanti italiani che all’epoca, si impegnarono, a loro modo a tornare tra i banchi.

Iniziativa, quella del murale del maestro Manzi, che non è fine a se stessa, ma che è un piccolo passo di un lungo cammino: in autunno inoltrato, ci piacerebbe organizzare un evento di poster art all’Esquilino,  a cui possano partecipare i principali artisti che bazzicano questo linguaggio, le cui opere sono spesso fonte di scandalo per i benpensanti. Ma l’Arte non è consolazione, ma pugno allo stomaco.

Deve essere fastidiosa, irritante, per evitare “l’incantesimo” delle apparenze, spesso comodo per chi ha paura di attraversare “il mare della vita” da solo e da uomo libero. Perché l’Arte, la Danza, la Musica sono come il tafano di Socrate: non devono mai cessare di mai di provocare, fare riflettere e rampognare l’Uomo, assediandolo giorno per giorno, per ricordargli di essere vivo.

IMG_20180428_112420

Forse in primavera, vinta la battaglia con la burocrazia, in collaborazione con Mauro Sgarbi, con Beetroot, con Marco Tarascio e Maupal, completeremo la facciata dell’ex Caserma Sani, del Nuovo Mercato Esquilino: il filo conduttore di quello che sarà uno dei più importanti interventi di street art in ambito romano, sarà quello della tolleranza, dell’accoglienza e del dialogo tra diverse culture: temi che vista la reazione avuta in passato da alcuni pseudo intellettuali locali e da qualche politicante di bassa lega, sembrano essere ormai diventati eversivi

Infine, il sogno di trasformare i muri abbandonati di via Alfredo Cappellini un ingresso monumentale al Rione, una sorta di hall of fame, dei ritratti di tutti coloro che hanno contribuito a creare l’anima dell’Esquilino.

Muri

Tanti sforzi, spesso complicati da chi, per motivi mai ben chiariti, ci ha messo in passato i bastoni tra le ruote, ma che ci sono stati riconosciuti nel libro Quello che i muri dicono di Carla Cucchiarelli, una splendida guida della street art, in cui si parla di noi, di Mauro, di Gaetano, di Salvatore e di tutti quanti si impegnano, con l’Arte a rendere l’Esquilino un rione più degno di essere vissuto. Una piccola soddisfazione, che rafforza la nostra determinazione di continuare su questa strada…

 

Fanum Voltumnae

fanum_testo

Quando ero ragazzo, uno dei misteri degli etruschi era dove fosse situato il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi inutilmente cercato sin dal XV secolo, ove si venerava Voltumna/Vertumnus. Voltumna che, tra l’altro, è una divinità alquanto evanescente, dato che è documentato per lo più da testimonianze letterarie ed epigrafiche latine: ne parla ad esempio il buon Varrone, che lo definisce deus Etruriae princeps, fa pensare che fosse una sorta di ipostasi di Tinia, la versione etrusca, con parecchie approssimazioni, di Giove.

Tra l’altra, un’altra interpretazione, abbastanza contestabile delle parole di Varrone, ne farebbe fa il primo dio etrusco introdotto a Roma: l’ antica statua del dio sarebbe stata posta nella città quando vi si acquartierò il contingente etrusco venuto in aiuto a Romolo nella guerra contro i Sabini.

Se lo consideriamo come l’archetipo del Vertumno latino, il che oltre per la somiglianza del nome, potrebbe anche essere per la presenza di una statua bronzea presso il vicus Tuscus, all’ingresso del Foro Romano, opera, secondo la tradizione, del semimitico Mamurio Veturio, il Dedalo sabino, che per ordine di Numa Pompilio, forgiò undici copie dell’Ancile, lo scudo di Marte, Voltumna potrebbe essere il Dio del Tempo e del Divenire, che mutava a seconda della stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti.

Sua compagna era Nortia,una dea assimilata alla Fortuna romana. Sappiamo come avesse un tempio a Volsinii nel quale, in suo onore, si svolgeva una singolare cerimonia: ogni anno il sommo sacerdote, percomputare il tempo trascorso dall’ inizio della storia etrusca, infiggeva un chiodo di ferro nel muro o su di un palo di legno: Tito Livio (7,3,7) riporta che secondo lo storico Cincio, “a Volsinii nel tempio della dea etrusca Nortia si possono ancora vedere dei chiodi piantati per indicare il numero degli anni…”

Come detto, il suo santuario era il centro religioso della dodecapoli etrusca, la lega delle dodici principali città di quel popolo. Livio, pur nominando più volte il Fanum, non ne fornisce mai l’esatta ubicazione. Dalle diverse fonti, sappiamo come ogni primavera vi si celebrasse una celebrazione sacra, della durata di 20 giorni, i cui 12 dedicati agli dei, festeggiati con sacrifici, processioni, gare atletiche e ludi gladiatori, 5 alla discussione, tra i rappresentanti delle città, delle questioni di politica interna e 3 ai problemi di politica estera.

Infine, i rappresentanti delle città eleggevano un sacerdos supremo, il cui ruolo è assai poco chiaro: a seconda degli studiosi varia da un equivalente del Rex Sacrorum romano al comandante supremo dell’esercito federale. Il problema era capire dove fosse situato questo benedetto santuario: molti indizi facevano pensare a una località nei pressi dell’etrusca Velzna. Per prima cosa, la notizia, riportata da Festo, che nel tempio romano di Vertumno, situato sull’Aventino, vi fosse raffigurato Marco Fulvio Flacco, in console conquistatore di tale città, in veste di trionfatore.

Poi, i versi di Properzio, in cui si diceva come Vertumno avesse nostalgia dei focolari di Volsinii (la latinizzazione di Velzna) e il numero spropositato di statue che secondo Plinio, i romani avevano saccheggiato dalla città sconfitta, il che faceva pensare come nelle sue vicinanze vi fosse un importante centro religioso

Infine il cosiddetto “Rescritto di Spello”, anche se il Muratori lo considerava un falso moderno, ossia la disposizione con la quale l’imperatore Costantino concedeva agli Umbri di poter celebrare, secondo un’antichissima consuetudine, le annuali cerimonie religiose e i giochi ad esse connessi a Spello, senza doversi più recare “presso Volsinii”

Per cui era abbastanza pacifico ipotizzare che il Santuario fosse nei pressi di Velzna/Volsinii. Il problema è che di città con questo nome, ce ne sono ben due: Volsinii “vecchia”, la nostra Viterbo e Volsinii “nuova”, la nostra Bolsena, dove furono deportati dai Romano gli abitanti di Velzna dopo la sconfitta.

Su quale fosse la Volsinii esatta, tra le due, ai tempi della mia giovinezza vi era un’accanita discussione tra gli archeologi. Per puro buonsenso, io ero schierato a favore della fazione pro Orvieto, con la consapevolezza che spesso l’Archeologia, che si basa su scavi e dati concreti, spesso contraddice con i fatti riflessioni erudite e ragionamenti che sembravano essere basati su una logica inappuntabile.

Nel 2000, però, l’etruscologa Simonetta Stopponi, basandosi sia su ragionamenti simili ai miei, ossia che il massimo santuario etrusco fosse più prossimo a una loro città che a una colonia romana di nuova fondazione, su i risultati di scavi ottocenteschi e sull’ipotesi di continuità di utilizzo di uno spazio urbano, cominciò a scavare il Campo delle Fiere, alla ricerca del Fanum.

Così è saltato fuori un importante santuario caratterizzato da un’imponente Via Sacra, di quasi 10 metri di larghezza, funzionale a processioni di carattere religioso e celebrativo, attorno alla quale si sviluppano le principali strutture. Il percorso, la cui redazione basolata risale alla prima metà del IV secolo a.C., era già in uso a partire dalla fine del VI sec. a.C. Al limite nord della strada si conserva la soglia di accesso ad un recinto che delimita un ampio spazio sacralizzato, all’interno del quale sono stati individuati un altare, un donario, pozzi e depositi contenenti ricco materiale votivo: ceramiche
greche, teste e frammenti di statue in terracotta, una testina di divinità in bronzo di squisita fattura degli inizi del V sec. a.C. Tra i materiali più antichi spicca la base di una statua bronzea recante un’iscrizione della fine del VI sec. a.C.: il testo menziona una donna di origine campana, Kanuta, accolta in seno a una importante famiglia locale; la sua dedica alle divinità chiamata Tluschva, forse un attrbuto di Nortia avviene nel “luogo celeste”, il nome stesso con cui si indicava in etrusco il santuario.

In questa stessa area è stato portato alla luce un sacello tripartito, edificato intorno alla metà del VI sec. a.C. e defunzionalizzato alla fine del V sec. a.C. quando venne eretto, a poca distanza e con il medesimo orientamento, il tempio A, di cui rimangono il podio costruito in blocchi di tufo ed alcuni elementi in trachite che ne attestano una successiva ristrutturazione nel corso del III sec. a.C. Nello stesso materiale è un donario monumentale, posto perfettamente in asse col tempio e caratterizzato da un profilo a clessidra; accanto ad esso è un altare monolitico in tufo, al di sotto del quale è stata rinvenuta, con il volto rivolto verso l’alto, la bellissima effigie in terracotta su base modanata di una divinità maschile, barbata e dalla complessa acconciatura, databile fra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C.

Il culto in epoca romana perdurò soltanto in questo settore: nella prima età augustea il tempio A venne ristrutturato con un nuovo pavimento in cementizio decorato, mentre oltre 200 monete in bronzo ed argento, databili fra il III sec. a.C. ed il 7 a.C., vennero deposte in un thesaurus in leucitite di fronte all’altare.

Il recinto sacro era anche collegato, ad ovest, con la strada etrusca che si dirigeva verso Bolsena. I materiali rinvenuti consentono di riferirne la costruzione alla prima metà del III sec. a.C., mentre le stratigrafie di abbandono ne segnalano un lungo utilizzo, che interessa anche la fase di occupazione romana. La strada è fiancheggiata da una costruzione in conci di tufo, dotata di una vasca di raccolta per l’acqua con foro di scolo, probabilmente interpretabile come fontana monumentale.

Proseguendo verso sud, il percorso della Via Sacra conduceva ad un altro grande edificio, il tempio C, a pianta rettangolare e delle dimensioni di 12,60 x 8,60 m. Costruito alla fine del VI sec. a.C., venne abbandonato tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., in occasione degli scontri che tra il 308 e il 280 a.C. videro opporsi Romani e Volsiniesi. Accanto al tempio sono state ritrovate alcune tombeinfantili, deposte poco dopo la sua distruzione, che sono probabilmente da collegare alla venerazione di una divinità di tipo matronale, come testimonia il lemma etrusco atial (“della madre”) graffito su
una coppa in bucchero. In corrispondenza della fronte dell’edificio furono collocati i resti di lamine bronzee di un carro da parata, mentre al di sopra dei piani pavimentali moltissime ceramiche, soprattutto greche, e monili d’oro.

La strada risaliva poi le pendici della collina verso la più grande struttura etrusca finora individuata, il tempio B che, con il suo maestoso podio di 12,50 x 17,50 m. e di oltre 4 m. di altezza, dominava l’intera area sottostante. L’edificio, costruito alla fine del VI sec. a.C. e circondato da portici, fontane e vasche fu probabilmente distrutto, nel III sec. a.C., con la conquista romana della città..

Il problema è che, nonostante tutto questo ben di Dio, manca ancora la pistola fumante, un’iscrizione esplicita che citi Voltumna… L’unica cosa che gli si avvicina è una ciotola di bucchero reca graffita una dedica “al Padre” (degli dei), il che purtroppo, è ancora poco per chiudere definitivamente la questione

Docibile di Gaeta

 

Può sembrare strano,ma nel secolo IX Gaeta, posta a metà strada tra Roma e Napoli, era, come Amalfi e Napoli, una specie di avamposto occidentale e Stato satellite dell’Impero bizantino, stretta tra i territori controllati dal vescovo di Roma e la contea longobarda di Capua. Poco più di un castrum, un avamposto fortificato, in quegli anni intraprende una rapida crescita sia economica, sia politica, che le fa raggiungere, nei documenti dell’epoca il rango di civitas. Il tutto grazie a quello che i latini avrebbero definito un homo novus, Docibile. Di lui, ahimè, sappiamo ben poco.

È probabile che Docibile non facesse parte della classe di proprietari terrieri a Gaeta, in quanto non troviamo traccia di lui né come attore né come testimone nelle carte gaetane antecedenti alla sua salita al potere. Il titolo che assume prefecturius, derivato da præfectus prætorio, sembrerebbe indicare una sua origine non gaetana, in quanto prima del suo arrivo il titolo è assente dalla documentazione locale, mentre già in uso a Napoli e ad Amalfi. Il fatto che, quando cadde prigioniero dei pirati saraceni, fosse riscattato dagli amalfitani, fa pensare che fosse in qualche modo imparentato con le famiglie dominanti in quella città

Altro dettagli interessanti provengono dal suo testamento, in è posta grande attenzione ai beni mobili – monete auree, sete, tessuti – e alle abitazioni nel centro cittadino di Gaeta, all’interno delle mura, più che alle proprietà terriere: il che fa pensare come provenisse da una famiglia mercantile, con una grande disponibilità finanziaria ma con un patrimonio fondiario tutto da costruire.

Ora, prima della sua ascesa al potere, alla guida di Gaeta vi fossero gli ipati Costantino e Marino, rispettivamente figlio e nipote di un certo Anatolio comes; da alcuni documenti dell’epoca si evince che suocero di Docibile era un certo Bono. Allo stesso modo si chiamava anche il fratello dell’ipato Costantino; dato che il nome non risulta essere molto diffuso nella Gaeta dell’epoca, è assai probabile che corrispondano alla stessa persona. Per cui, alla morte di Costatino, nel 866, Bono, data la minore età del nipote Marino, abbia tentato organizzato un colpo di stato, ma che sia stato a sua volta gabbato del genero.

Comunque sia andata, Docibile si trovò in una situazione complicata, figlia della pressione araba sul Sud Italia; il prefecturius, dati forse anche i suoi rapporti commerciali con Balarm, assieme al dux di Napoli decise di negoziare un accordo con i saraceni. Cosa poco gradita da papa Giovanni VIII: i motivi, ovviamente erano tutt’altro che religiosi. I mercenari e i pirati arabi avevano preso la poco gradita abitudine di saccheggiare le domuscultae, le aziende agricole che i papi avevano fondato nel ducato romano per arginare la crisi di approvvigionamenti dell’Urbe, dovuta alla confisca dei latifondi da parte dell’Impero Bizantino, come strumento di pressione per le numerose controversie religiose dell’epoca.

Per cui, contenere la pressione saracena era fondamentale a affinché Roma non subisse una carestia; di conseguenza, Giovanni VIII, scomunicò Docibile, accusandolo di essere un vile collaborazionista. Con pessimi risultati: gli stati campani, vivendo di commercio con la Sicilia e il Nord Africa, avevano interessi economici e obiettivi geopolitici opposti è intorno all’875 avevano fatto pace con i Saraceni,.

Nell’876 il papa si recò a Capua ed ottenne che Salerno, Capua e forse anche Amalfi abbandonassero il loro atteggiamento tollerante. Con lo stesso obiettivo nel marzo e nell’aprile Giovanni VIII mandò lettere e ambasciatori a Gaeta e nel giugno si incontrò personalmente con Docibile a Traetto. In pratica, in cambio dell’appoggio di Docibile nella lotta contro i musulmani, Giovanni VIII lo avrebbe riconosciuto come legittimo signore di Gaeta. Docibile ringraziò il Papa, abbandonò il titolo di prefecturius per assumere quello di ipata, in linea con la tradizione locale e associò al potere il figlio
Giovanni, fondando una dinastia.

Poi tornò tranquillamente a commerciare e a tenere rapporti amichevoli con i saraceni. Giovanni VIII non la prese bene: in una lettera circolare del settembre 879 il papa minacciò loro quindi la scomunica, senza ottenere nulla. Per cui, si decise a usare le maniere forti, convincendo il conte Pandolfo di Capua a dichiarare guerra a Docibile. Pandolfo non se lo fece ripetere due volte e occupò con un colpo di mano Formia: Docibile, invece di arrendersi, data la sua ricchezza, arruolò un contingente di mercenari arabi provenienti colonia di Agropoli presso Salerno, cacciando così i capuani.

In più, per convincere Pandolfo alla pace, le truppe saracene di Gaeta saccheggiarono Teano. Visto il fallimento del bastone, Giovanni VIII fu costretto a ricorrere alla carota: propose a Docibile la nomina a rectores della domusculta di Traetto, a cui facevano capo tutti i i possedimenti papali nelle diocesi di Formia e Minturno e del ducato di Fondi, sempre in cambio dell’impegno a lottare contro i Saraceni.Per il Papato, a prima vista tale cessione non sembrava un grande sacrificio: per le guerre e i saccheggi degli anni precedenti, quelle terre erano deserte e abbandonate. Inoltre Docibile, in quanto rectores, avrebbe dovuto versare un tributo annuale per la gestione di quelle terre, dominica pensio.

Docibile, tutt’altro che intenzionato a sganciare moneta nelle casse pontificie, si rese conto che quella potenziale sola, poteva essere un’enorme fonte di ricchezza per la sua famiglia, se solo si fosse trovato un modo per rendere produttivi quei latifondi. Per cui accettò la proposta e per qualche anno fece finta di combattere i Saraceni: ma alla morte di Giovanni VIII, fece il suo colpo gobbo. Conclusa la pace con i vari signori della guerra musulmani presenti in Sud Italia, decise di trasformare i mercenari in contribuenti.

Nel 883 Invitò i Saraceni di Agropoli a stabilirsi a Traetto: in cambio delle terre, avrebbero pagato regolari tasse a Gaeta e fornito truppe in caso di guerra, sia contro i loro corregionali, sia contro il Ducato romano, sia contro gli altri staterelli campani.I Saraceni di Agropoli non se lo fecero ripetere due volte e in poco tempo si trasformarono in abili agricoltori e commercianti, facendo navigare Gaeta nell’oro, cosa che però alimentò le mire espansionistiche dei conti di Capua, che nel 900 si impadronirono anche di Benevento.

Per fronteggiarle, da una Docibile rafforzò le alleanze con gli altri staterelli campani, con un’accorta politica matrimoniale: due figlie Magalu ed Eufemia erano sposate rispettivamente con il gastaldo Rodiperto di Aquino e con un prefecturius di Napoli. Dall’altra sfruttò al meglio le spade dei suoi nuovi sudditi; così nel 903 Atenolfo di Capua e Benevento fu definitivamente sconfitto.

Ora non si conosce bene neppure la data di morte di Docibile: si sa che è compresa tra il 906, quando fa testamento e il 914, quando il figlio Giovanni viene ricordato per la prima volta come suo successore.In ogni caso, il mercante avventuriero di Amalfi, dai pochi scrupoli e dal tanto pelo sullo stomaco, sempre pronto a gabbare il prossimo, ma assai più tollerante e saggio di tanti nostri politici contemporanei, ne aveva fatta di strada..

Il signore dell’Aurum

2.1 amedeo_laboratorio

Tornando a parlare dei potenziali eroi dei romanzi dello steampunk italiano, oggi è il turno di un imprenditore pescarese, Amedeo Pomilio, nato il 13 giugno del 1882 a Chieti da Livio e Giuseppina Cortese, donna di origine partenopea. Suo papà era ingegnere capo della Provincia di Chieti: suoi sono i progetti del ponte sul fiume Pescara a Villanova di Cepagatti e la caserma Spinucci, oggi Berardi, che, in piazza Garibaldi a Chieti, ha ospitato fino a pochi anni fa il distretto militare.

La famiglia di Amedeo era senza dubbio numerosa: aveva otto fratelli e due sorelle. Due di questi, oltre ad Amedeo, hanno segnato la storia economica abruzzese. Il primo è Ottorino (1887– 1957), imprenditore e tecnico di eccezionale valore, fonda nel 1915, una fabbrica di aeroplani a Torino, fornitrice della Real Casa Savoia, e nel 1918 negli USA a Indianapolis con la collaborazione dei fratelli Alessandro, Ernesto e Vittorio oltre al futuro inventore dell’elicottero Corradino D’Ascanio.

Il secondo è Umberto (1890–1964) ingegnere chimico, specializzato in Germania, elaborò un metodo per l’estrazione della cellulosa da fibre povere come lo sparto e la paglia, che gli permise di ottenerne i brevetti tra il 1920 e il 1930. Creò impianti di fabbricazione della cellulosa che seguivano il suo “processo” a Chieti, a Foggia e in Argentina (Rosario di Santa Fè). Amedeo, invece, sin da piccolo si dedicò alla sua grande passione, l’alcol.

Fornito di un rudimentale alambicco, si era costruito un proprio laboratorio dove sperimentava, usando come cavie i suoi fratelli, che solo per un miracolo non divennero conclamati ubriaconi, nuove tipologie di distillati di acquaviti aromatizzate con infusi di frutta ed erbe strettamente locali. Da questi esperimenti e da studi approfonditi in Francia, nacquero rosoli dal nome oggi quasi dimenticato, ma che a inizio Novecento, spopolavano a livello nazionale e internazionale: Cerasella di fra’ Ginepro, la Mentuccia di san Silvestro e l’Aurum.

Come detto, il nome di quest”ultimo è un parto della fantasia e della cultura di D’Annunzio: nell’antica Roma pare fosse abitudine, per corteggiare con stile le belle e colte donne, regalare eleganti vasi dimulsum citreum» (vino mielato alsapore di cedro) citato anche nell’Ars Amandi di Ovidio. Alla fine dell’800 a Pompei ricompare anche l’elegante vaso della bottega “Mommus” e pian piano i miti dell’antichità si fanno strada nei discorsi dei salotti. Amedeo, vista anche la vicinanza con Sulmona, decide di sfruttare la moda e preparò un liquore, impiegando una particolare varietà di arancia abruzzese, che viene unita al brandy italiano invecchiato otto anni; dopo il blend, il liquore viene fatto riposare per dodici mesi in botti di rovere, senza aggiunta di coloranti né di conservanti.

Il problema fu come chiamarlo… Chiese così aiuto al Vate, suo amico d’infanzia, che pensò prima parola latina “aurantium”, arancio, poi all’oro e arrivare al nome “Aurum”. Poi, per completare l’opera, si inventò lo slogan pubblicitario levis ponderis aurum, oro di lieve peso. In più Amedeo si occupò della cartellonistica affidandola ad artisti famosi come Marcello Dudovich, una sorta di Toulouse-Lautrec italiano, questo suo aspetto rappresentò per quei tempi un elemento di autentica modernità e di notevole estro.

 

Con il successo Amedeo dovette cercare una distilleria adeguata a soddisfare l’ampia richiesta dei suoi prodotti. La fortuna, anche in questo caso, gli fu amica.Intorno al 1910 che l’Amministrazione Comunale di Pescara ebbe l’idea di valorizzare la zona della Pineta, per renderla una sorta di attrazione turistica dell’epoca, in modo da attirare sulla giovane città l’attenzione dei ricchi villeggianti. Così l’architetto Liberi, cognato del Vate, ricevette l’incarico di redigere non solo il piano regolatore dell’intera zona, il cosiddetto“Piano per il risanamento della contrada Pineta” prevedendo un intervento che ristabilisse il quartiere, trasformandolo in zona balneare con un radicale rinnovamento dell’edilizia e ricercando l’eleganza costruttiva attraverso ornamenti e decorazioni che richiamavano lo sviluppo dell’Art Nouveau.

Per fare questo progettò il Kursaal, nome sempre coniato da Gabriele d’Annunzio, un elegante fabbricato che spicca per la sua raffinatezza raggiungendo l’apice nello splendido doppio loggiato che incornicia l’ingresso, dagli incantevoli colori rosso antico e giallo, e per accompagnarlo previde anche la realizzazione di una serie di altri “villini”, che avrebbero trasformato l’intero sito in una città- giardino e in un’importante stazione balneare.

Per cui, il 14 agosto 1910, con un sontuoso banchetto campestre di cinquecento coperti, venne inaugurato il Kursaal; purtroppo, prima per la solita burocrazia italiana, che tirò fuori delle regole demenziali per la vendita dei lotti destinati ai villini, poi per la crisi economica e la Grande Guerra, il progetto di rilancio turistico della pineta si arenò. Così, l’amministrazione comunale cercò di appioppare a destra e manca il Kursaal, riducendo all’osso il prezzo.

Di questo ne approfittò Amedeo: l’intento non era speculativo, ma quello di coniugare le esigenze produttive con quelle dell’arte e della cultura. Questo perché Amedeo, oltre che essere grande amico del Vate, univa alla formazione scientifico-economica una discreta cultura umanistica e liberale ed era un estimatore e lettore di Benedetto Croce. Per cui si pose come obiettivo chela trasformazione d’uso dell’edificio non oscurasse l’intento di valorizzare l’intera zona periferica che doveva inserirsi nel tessuto sociale, culturale e soprattutto economico della Città.

Ovviamente, Amedeo utilizzo tutto anche come strumento di marketing. Una pubblicità dell’epoca diceva infatti

“Le distillerie dell’Aurum non nascono a caso sul temperato litorale pescarese: i vivai impiantati nella zona di produzione consentirono di ottenere arance selezionate più ricche di polpa, più dolci e profumate. La mentuccia di S.Silvestro prende il nome dal colle che domina le distillerie. È qui che prospera spontanea una profumatissima varietà di menta che è la base della preparazione dell’omonimo liquore…L’Aurum nasce dall’accostamento fra un distillato di vini pregiati e uno di arance. È il risultato di una perfetta fusione di profumi e di sapori, netti e precisi, condensati negli alambicchi della distilleria e poi equilibrati in botti di rovere nella quiete delle cantine della Pineta di Pescara”.

In poco più di vent’anni l’attività della distilleria crebbe notevolmente, tanto che nel 1938 fu necessario ideare un piano di ampliamento della fabbrica. Fu l’architetto Michelucci, uno dei geni del razionalismo italiano a elaborare il progetto, poi realizzato dall’ingegner Zeni. Punto nodale dell’intero programma, ispirato alla pittura metafisica di De Chirico, fu la scelta di mantenere intatto il vecchio edificio Kursaal e farne il cardine della nuova architettura, sottolineando il legame con la tradizione.

Michelucci ipotizzava di creare unità stilistica dell’intero edificio, prevedendo dunque un intervento che avrebbe dovuto alterare in parte le forme della struttura preesistente, ma ciò non venne eseguito dall’ingegner Zeni che preferì lasciare il Kursaal com’era delineando un nuovo edificio che si integrava perfettamente nell’ambiente precedente, con armonia, senza rinunciare ai canoni del razionalismo.

Il progetto principale prevedeva uno sviluppo di due corti di forma circolare che si articolavano attorno alla struttura centrale, seguendo gli ambienti planimetrici e i rapporti formali preesistenti ed estendendosi nella zona retrostante formando un ampio spiazzo circolare dedicato, oggi, proprio all’Architetto che lo ideò e creando un secondo accesso verso il mare di carattere funzionale per la fabbrica, senza alterare gli spazi e la loro percezione. Le corti laterali formavano dunque grandi aree idonee a ospitare la distilleria, senza però rinunciare a quel gusto architettonico di cui Michelucci era
forte esponente: un’architettura capace di catturare il suo tempo, di dialogare con la storia e con la Città, e di provvedere ai nuovi bisogni della collettività; una struttura legata alla memoria che rievoca le equilibrate forme di un passato classicismo, rielaborandole nella contemporaneità. Questa visione architettonica rientra nel principio, caro a Michelucci, dell’umanizzazione dell’architettura per il quale
grande importanza viene data all’utilizzo libero e creativo degli spazi che si traduce in una concezione dell’edificio che pone al centro l’uomo e il suo vivere, non la ricerca formale. Sulla base di questo concetto la fabbrica non fu intesa solo come area per la produzione, ma come luogo del lavoro collettivo, come un edificio pubblico.

L’intensa fase di espansione aziendale si interruppe in seguito al precipitare della seconda guerra mondiale, con il fronte che ristagna proprio in Abruzzo per diversi lunghi mesi. L’edificio dell’Aurum venne risparmiato dalle distruzioni belliche ma fu utilizzato dalla Wehrmacht prima e dagli Alleati poi, come centro di servizi, di raccolta uomini e salmeria. Le truppe tedesche in particolare saccheggiarono tutto ciò che lo stabilimento conteneva: impianti, attrezzature, scorte, prodotti finiti e semilavorati. I danni furono ingenti e la ricostruzione complicata: la distilleria stentava a riprendere i
ritmidell’anteguerra, vuoi per problemi di approvvigionamento delle materie prime, vuoi per la fame nera degli italiani, che tutto pensavano, tranne che a spendere in costosi liquori le loro poche lire.

In questo contesto dal futuro incerto, Amedeo tentò la carta dell’Argentina che allora sembrava un paese florido e aperto ad allentanti prospettive di sviluppo; nel 1947 volò a Buenos Aires per fondare un nuovo stabilimento Aurum ma la situazione economica in Argentina cominciò a precipitare ed anche per il liquorificio di Pomilio le cose si misero male.

Nell’aprile del 1948, Amedeo tornò in Italia, per tornare a gestire direttamente lo stabilimento di Pescara durante la sua assenza i problemi non si erano di certo risolti, data anche la scarsità di capitali. Proprio la necessità di reperire capitali portò ad una operazione che avrebbe segnato profondamente le sorti dello stabilimento: le risorse giunsero da alcuni imprenditori del Nord, l’ingresso dei quali nella società Aurum portò ad un radicale cambiamento negli assetti decisionali.

Iniziò per Amedeo una fase di emarginazione che culminerà di lì a poco nel suo totale esautoramento. Il 28 maggio del 1953 dopo essere stato l’anima della fabbrica che aveva creato e portato al successo mondiale sempre con enorme dedizione e passione sincera, Amedeo venne licenziato dal nuovo consiglio d’amministrazione della fabbrica di liquori. Morì dieci anni dopo, il 15 aprile del 1963. La fabbrica nella Pineta gli sopravviverà per un decennio prima della chiusura.

Nel mio universo narrativo, mi piace immaginare Amedeo amico di Andrea, impegnato, con l’aiuto di Rapagnetta e di Beppe, nella difficile impresa di fare aprire i cordoni della borsa all’oculato Principe Padre, poco convinto di investire i propri denari nella promozione turistica di Pescarea e nei liquori…

Dall’India alla Grecia (Parte I)

Alessio

La leggenda di sant’Alessio è un interessante esempio di come le storie mutino forma e pelle. Il suo originale, risalente ai tempi di Aśoka Maurya il Grande, parla di un discepolo del Buddha, che rinuncia al matrimonio e alla ricchezza per dedicarsi alla penitenza e alla meditazione. Intorno al 350 d.C. un fedele manicheo, la tradusse in persiano, rendendola una metafora del dovere dell’uomo sarà quello di tenere il proprio corpo puro da ogni corruzione fisica, praticando l’abnegazione ed impegnandosi nel grande lavoro di purificazione cosmica.

Nel 400 d.C. anno più, anno meno, la versione manichea di questa storia si diffonde in Siria, dove, nei pressi di Edessa, viene cristianizzata, parlando così di un giovane e ricco abitante della nuova Roma cioè Costantinopoli, il quale la sera delle nozze si era allontanato di nascosto imbarcandosi per l’Oriente. Giunto ad Edessa, si mise a chiedere l’elemosina con altri mendicanti sull’uscio della chiesa.Quello che raccoglieva di giorno, lo distribuiva di sera ai poveri della città, per il suo ascetismo venne chiamato Mar-Riscia (uomo di Dio); persone incaricate dal padre di ritrovarlo, giunti anche ad Edessa, non riuscirono ad identificarlo in quel mendicante lacero ed emaciato.

Dopo 17 anni, quando si sentì morire, il giovane mendicante rivelò al sacrestano della chiesa la sua vera identità ed origine, il quale una mattina lo trovò morto sul sagrato. Il sacrestano si precipitò dal vescovo Rabula (412-435) e lo supplicò di non far confondere nella fossa comune, il corpo di quel santo uomo, il vescovo allora si recò al cimitero per esumarlo, ma trovò solo le misere vesti, il corpo era scomparso.

Nel secolo IX comparve documentata la leggenda greca o bizantina, la quale trasformava significativamente quella siriaca. Prima di tutto dava un nome al giovane chiamandolo Aléxios (Alessio) che significa “difensore” o “protettore”, situando la sua nascita a Roma e non più in Oriente e datando la sua morte al 17 luglio, al tempo degli imperatori fratelli Arcadio e Onorio (395-408). La leggenda narra che un’icona della Vergine Maria nella chiesa di Edessa (oggi secondo la tradizione, venerata nella chiesa romana di Sant’Alessio sull’Aventino), ordinò al sacrestano di far entrare in chiesa quel mendicante da considerarsi un santo, la voce si diffuse rapidamente fra il popolo dei fedeli, che presero a venerarlo. Alessio cui non piacevano gli onori, fuggì imbarcandosi per Tarso, ma i venti prodigiosamente lo fecero approdare sulle coste italiane ad Ostia; questo fatto fu preso da Alessio come un’indicazione divina, pertanto decise di farsi ospitare come uno straniero povero nella casa paterna a Roma.

Il padre memore del figlio lontano e in difficoltà, senza riconoscerlo lo accolse con benevolenza in casa, dove Alessio rimase per 17 anni, dormendo in un sottoscala fra le umiliazioni e gli scherni dei servi.Quando Alessio sentì che la sua fine era vicina, decise di scrivere le avventure e le origini della sua vita su un rotolo, quando morì le campane di Roma si misero a suonare a festa e fu udita una voce divina che diceva: “Cercate l’uomo di Dio affinché egli preghi per Roma”, così fu scoperto il corpo del santo, ancora con il rotolo in mano, che solo gli imperatori Arcadio ed Onorio riuscirono a sfilarglielo e leggere.

Della leggenda latina non si hanno documentazioni prima del secolo X, comparve prima in Spagna e verso l’ultimo quarto del secolo a Roma.Qui il culto fu diffuso dall’arcivescovo metropolita di Damasco Sergio, il quale costretto a fuggire a seguito dell’invasione dei Saraceni, si stabilì presso la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino, qui fondò una comunità monastica mista, dove i greci osservavano la Regola di s. Basilio e i latini quella di s. Benedetto.

Le diversità apportate nella leggenda latina sono: la chiesa dove Alessio si sarebbe dovuto sposare divenne la stessa basilica dove il santo sarebbe stato sepolto; la mancata sposa, che la sera precedente le nozze accettò di vivere in castità, si chiamò chi sa perché Adriatica; il rotolo con scritta la sua vita, fu tolto di mano non dagli imperatori, ma dal papa stesso, presenti gli straziati genitori Eufemiano e Aglae, che finalmente seppero che quel mendicante in abiti da pellegrino, vissuto nella loro casa, era l’amato figlio.

Ai tempi del Barocco, nel 1625, quando bisognava inventarsi in fretta e furia una biografia per Santa Rosalia, fu usata come traccia, cambiando ovviamente il sesso e la location, propria la versione latina della leggenda di Sant’Alessio.

Ora, tutti questi mutamenti che possono fare inorridire noi moderni, in realtà si pongono in linea con una lunga e antica tradizione di scambi culturali tra Occidente e India, che cominciano ai tempi dell’antica Grecia, antecedente ad Alessandro Magno.

Cito alcuni nomi. Il primo è Scilace di Carianda (VI-V sec. a.C.), un navigatore che partecipò alla spedizione voluta da Dario I,re di Persia, con lo scopo di esplorare l’oceano indiano e il fiume Indo. Compilò un resoconto dal titolo Periplo, ora perduto (rimangono 5 frammenti, di cui 4 sull’India).

Segue poi Ecateo di Mileto (550-476 a.C.). A lui è attribuito un testo noto con il titolo di Periegesis (Giro della terra), frutto dei suoi numerosi viaggi (Agatemero, Abbozzo di geografia 1.1; III sec. d.C.) e di riflessioni contenute in testi già circolanti all’epoca (probabilmente Scilace). Ci restano in tutto 374 frammenti, di cui solo 7 sull’India. Tuttavia, è da escludere che egli abbia raggiunto l’India e le sue conoscenze in materia devono quindi essere derivate da fonti a lui precedenti.

Terzo è il più famoso, Erodoto di Alicarnasso (484-425 a.C.), il padre della Storia, Nel suo testo Storie egli espone alcune notizie relative all’India (3.98-106). Questo è il primo resoconto antico sull’India che ci resta completo, che mi diverto a riportare

[98] Questa grande quantità d’oro, di cui portano al Re la suddetta polvere, gli Indiani se lo procurano in tale modo. La parte del territorio indiano rivolta verso il sorgere del sole è una distesa di sabbia; tra quelli che conosciamo, infatti, di cui si ha qualche notizia sicura, gli Indiani sono i primi che abitano verso l’aurora e il sole nascente fra i popoli d’Asia: a Oriente degli Indiani, infatti, c’è un deserto di sabbia.

Vi sono molte tribù di Indiani e non parlano la stessa lingua; alcune sono nomadi, altre no; altre ancora abitano nelle paludi del fiume e si nutrono di pesce crudo, che catturano servendosi di barche di canna: ogni barchetta è costituita da un tronco di canna fra due nodi. Costoro fra gli Indiani, dunque, portano vestiti intessuti di giunchi: colta una canna dal fiume e battutala a puntino, la intrecciano poi a mo’ di stuoia e lo indossano [99] come fosse una corazza.

Altri Indiani, che abitano a Oriente di questi, sono nomadi, si cibano di carne cruda e si chiamano Padei. Si dice che abbiano abitudini di questo genere: quando un cittadino, donna o uomo che sia, cade ammalato, se è un uomo, gli uomini che sono a lui più vicini per parentela lo uccidono, sostenendo che, una volta logorato dalla malattia, le sue carni vanno in putrefazione; quello, dal canto suo, nega di essere ammalato, ma quelli, non prestandogli ascolto, dopo averlo ucciso, banchettano con le sue carni. Se ad ammalarsi è una donna, allo stesso modo, le donne a lei più prossime le riservano lo stesso trattamento usato sugli uomini. Essi fanno anche banchetto, immolando chi ha raggiunto la vecchiaia, ma sono ben pochi quelli che giungono a contare tanti anni, dal momento che, prima di ciò, [100] chiunque cada ammalato viene ucciso.

Altri Indiani hanno quest’altra usanza: non uccidono alcun essere vivente, non seminano nulla, né sono soliti avere case, ma si nutrono di erbe; hanno un certo legume grosso quanto un grano di miglio, avvolto in un involucro, che cresce spontaneo dalla terra e che essi, dopo averlo raccolto, lo fanno cuocere con l’involucro stesso e lo mangiano. Chi tra loro cade ammalato, dopo essere andato nel deserto, vi rimane: nessuno [101] si preoccupa di lui, né dopo che è morto, né prima mentre soffre. I rapporti sessuali di tutti questi Indiani che ho elencato avvengono in pubblico, proprio come le bestie, e hanno tutti lo stesso colore di pelle, molto simile a quello degli Etiopi. Il loro seme, che emettono nelle donne, non è affatto bianco come per gli altri uomini, ma scuro come la loro pelle: tale è anche il seme genitale degli Etiopi.

Tra gli Indiani questi sono quelli che abitano più lontano dai Persiani, verso il vento di Noto, [102] e non sono mai stati sudditi del re Dario. Altri Indiani, invece, confinano con la città di Caspatiro e con il territorio dei Pattii; sono stanziati, rispetto agli altri Indiani, verso l’Orsa e il vento di Borea, e conducono uno stile di vita simile a quello dei Battriani. Costoro sono i più bellicosi fra gli Indiani e sono questi ad andare alla ricerca dell’oro: in questa regione, infatti, si trova un deserto di sabbia.

Ebbene, in questo deserto e nella sabbia vivono formiche di taglia inferiore a quella dei cani e maggiore di quella delle volpi; di queste ve ne sono anche presso il Re dei Persiani, catturate proprio lì. Queste formiche, dunque, scavandosi la propria tana sottoterra, portano in superficie la sabbia proprio come le formiche che si trovano presso i Greci (proprio alla stessa maniera) e anche nell’aspetto sono estremamente simili ad esse: ma la polvere che sollevano è aurifera. Proprio per impadronirsi di questa sabbia gli Indiani fanno delle spedizioni nel deserto, dopo aver aggiogato ciascuno tre cammelli, due maschi ai lati a tirare, legati con una fune, e una femmina in mezzo. Il cammelliere monta sopra quest’ultima, assicurandosi di aggiogarla dopo averla allontanata dai cuccioli quanto più piccoli possibile. I loro cammelli, infatti, quanto a velocità non sono inferiori ai cavalli e, oltre a ciò, [103] sono molto più resistenti nel portare carichi pesanti. Non descrivo l’aspetto del cammello, dal momento che i Greci lo conoscono; dirò invece ciò che i Greci non sanno: il cammello, nelle zampe posteriori, ha quattro ossa femorali e quattro ginocchia; il membro tra le zampe posteriori è rivolto [104] verso la coda.

Gli Indiani, quindi, in questa maniera e avvalendosi di questo modo di aggiogare gli animali, si spingono alla ricerca dell’oro, dopo aver calcolato per farne rapina, quando il caldo è più ardente: a causa del caldo, infatti, le formiche stanno nascoste sottoterra. Per queste persone il sole più caldo è quello del mattino, non già, come per gli altri, quello di mezzogiorno, ma dal suo sorgere fino allo sgombero del mercato: durante questo lasso di tempo il sole brucia molto di più che in Grecia a mezzogiorno, tanto che si dice che in quelle ore la gente se ne sta ammollo in acqua; a mezzogiorno, dunque, brucia press’a poco allo stesso modo gli Indiani e gli altri uomini; sul far del pomeriggio, il sole diventa per loro come per gli altri quello del mattino, e a mano a mano che dal meriggio si allontana concede sempre maggior refrigerio, finché, al tramonto, fa [105] oltremodo fresco.

Dopo esser giunti sul luogo con dei sacchi, gli Indiani, non appena li hanno riempiti di sabbia, tornano indietro il più velocemente possibile: infatti, le formiche, avvertendo immediatamente il loro odore, a quanto dicono i Persiani, si lanciano all’inseguimento. Nessun altro essere ha una velocità pari alla loro, sicché, se gli Indiani non prendessero vantaggio nella corsa, mentre le formiche vanno raccogliendosi, nessuno di loro troverebbe scampo. I maschi dei cammelli, vista la loro inferiorità nella corsa, quando iniziano a farsi trascinare, vengono slegati, uno dopo l’altro; mentre le femmine, ricordandosi dei piccoli che hanno abbandonato, non danno segno di fiacchezza. Gli Indiani, dunque, a detta dei Persiani, si procurano in questo modo la maggior parte dell’oro; altro oro, seppure in quantità minore, viene estratto dal sottosuolo.

L’ultimo è Ctesia di Cnido (V-IV sec. a.C.). Fu medico alla corte persiana di Artaserse II.Scrisse una storia della persia (tà Persikà) e una sorta di addendum relativo all’India (tà Indikà). Di queste opere ci restano solo frammenti, nondimeno ne sopravvive un’epitome approntata da Fozio (IX sec. d.C.), patriarca di Costantinopoli, e inserita della sua raccolta titolata Biblioteca

A prima vista, tutti i racconti del logagrafi, come quello di Erodoto, paiono un’accozzaglia senza capo né coda di favolette, su cui si baserà un un immaginario favoloso, che ci porteremo dietro sino al Medioevo inoltrato. Ad esempio Ctesia cita come popoli reali i Monocoli (che avrebbero una sola gamba), i Macrocefali (dalla lunga testa),gli Otolicni (che userebbero le loro enormi orecchie come coperte), i Monoftalmi(con un occhio solo), i Cinocefali (dalla testa di cane)

Se però si da una letta alle fonti sanscrite, saltano fuori tutti questi esseri favolosi: significa che da Oriente a Occidente, non circolavano solo merci ed esperienze concrete, ma Storie, assimilate e riscritte, come quelle di Sant’Alessio, secondo le specifiche esigenze di chi le ascoltava e le tramandava. Esigenze che ai tempi dell’Ellade, erano legate alla necessità di ipotizzare un luogo, denso di meraviglia dove governo e società non si conformano al Logos, alla Ragione artificiale, ma alla nomos katà physin, dìkaion physikon (“legge secondo natura, giusto naturale”) la legge intrinseca alla Mondo Naturale