
Sempre parlando di santi bizantini del Sud Italia, quasi dimenticati, uno dei più affascinanti è senza dubbio Elia il giovane, la cui vita, anche depurata da tutti gli elementi agiografici e favolistici, è stata ricca di viaggi e avventure. La conosciamo grazie a una sua biografia in greco, scritta da un monaco che non aveva conosciuto direttamente il santo, ma che aveva avuto a che fare con alcuni suoi discepoli.
Da quanto racconta la sua bios, Elia nacque verso l’823 ad Enna in Sicilia dalla nobile e pia famiglia dei Rachites e fu battezzato col nome di Giovanni. I suoi genitori, prima che il territorio della città fosse devastato dai Musulmani nell’828, si trasferirono nella fortezza di Santa Maria, di cui si è persa memoria, in cui vissero senza troppi problemi, finché, a otto anni, Elia ebbe un’apparizione notturna che gli rivelò come avrebbe raggiunto l’Africa in qualità di prigioniero, che vi sarebbe stato servo, e che avrebbe convertito alla fede molti in quella terra. Episodio, a dire il vero, che pare una rielaborazione della biblica visione di Samuele.
Allora, i genitori, impauriti gli impedirono di lasciare la fortezza: nel frattempo, per vincere la noia, cominciò a pregare e a meditare sulle Scritture, affinando il suo dono per la profezia: secondo l’agiografo, predisse l’assalto che di lì a tre giorni i Musulmani avrebbero sferrato contro Santa Maria (835 c.) e la strage di cittadini che vi avrebbero fatta. I difensori, invece di spernacchiare Elia, lo ascoltarono e si prepararono alla battaglia: così le truppe arabe, che contavano sulla sorpresa, furono prese a randellate in capo.
Questa storia si ripeté per un paio di volte, per cui, i Saraceni, per risolvere alla radice il problema, decisero di rapire Elia; grazie a una spia, in occasione di un viaggio dei suoi genitori, lo convinsero a uscire da Santa Maria, dove fu catturato, legato come un salame e imbarcato nella prima nave diretta in ‘Ifrīqiya.
Elia, che nonostante la profezia, non era molto contento di come si stesse evolvendo la situazione, ebbe un sogno: un cavaliere vestito di bianco, gli disse di essere Anania, il discepolo di Cristo, e gli predisse che lui e i suoi compagni presto avrebbero raggiunto la libertà. Svegliatosi, guardò l’orizzonte, dove apparve un dromone bizantino, mosso da Siracusa, che abbordò la nave araba, liberandone i prigionieri. Giovanni rimase poi per tre anni (837 c. – 839 c.) presso la famiglia e, morto il padre, la madre riponeva in lui ogni sua speranza. Una apparizione gli rinnovò l’ordine del Signore di compiere in Africa la missione che gli era stata assegnata.
Così Elia cominciò a vagabondare nei pressi di Santa Maria, finché non fu catturato di nuovo dai Musulmani, acquistato prima da un mercante di schiavi, condotto in Africa e quindi rivenduto ad un ricco conciapelli, di religione cristiana. Questi, apprezzate le sue virtù gli affidò il governo della casa. Ma l’invidia del demonio non tardò a farsi sentire: infatti il diavolo cercò di ridurre il santo in suo potere, suscitando nel giovane la nostalgia dei suoi familiari. Essendo stata inutile tale tentazione, ne escogitò un’altra, puntando sulla buona, vecchia lussuria.
Durante un viaggio d’affari del padrone la moglie di questo tentò di sedurre Elia e dato che il Santo non gli diede retta, al ritorno del marito la donna lo accusò di tentato adulterio. Elia, imprigionato e adeguatamente torturato. La sua innocenza tuttavia non tardò ad essere riconosciuta, che il padrone sorprese l’adultera, che voleva rifarsi delle smacco subito, con un altro amante, la cacciò di casa e apprese la verità, liberando Elia e coprendolo di scuse e di doni. Facendo il serio, si tratta con tutta evidenza di un adattamento della storia di Giuseppe dell’Antico Testamento, topos prediletto
dall’agiografia monastica dei Bizantini.
Pochi giorni dopo essere stato liberato, il santo si riscattò ed “aveva agio di andare negli oratori e di trascorrere le notti nelle salmodie”, il che doveva essere anche abbastanza fastidioso, per i suoi vicini di casa, sia cristiani, sia musulmani. Uno di loro, per toglierselo dalle scatole, gli propose di recarsi in pellegrinaggio in Palestina e vestire il santo abito dei monaci; incerto sul da farsi, Elia ebbe una nuova visione, che lo esortava a realizzare i suoi proponimenti e gli annunziava il conferimento del potere taumaturgico.
Così, da buon santo calabrese, cominciò a compiere miracoli in quantità industriale: il primo riguardò un Cristiano, che in lite condominiale dell’epoca, aveva rotto la testa con una mazza ad un Musulmano ed era stato condannato a morte. L’emiro aghlabita di turno,tuttavia prosciolse il reo, dopo che il santo ebbe sanato il colpito. A seguito di tale evento l’emiro locale gli permise pertanto di esercitare liberamente la sua attività di guaritore
Ovviamente alle miracolose guarigioni seguirono le conversioni; i musulmani furono battezzati nottetempo con la complicità di un vescovo del luogo di nome Pantoleone, che non risulta altrimenti attestato, cosa assai poco gradita all’emiro, che prima lo fece arrestare, poi, per non sapere né leggere, né scrivere, invece di martirizzarlo, lo affibbiò alla prima carovana disponibile diretta per la Palestina. Secondo quanto è possibile congetturare, Elia avrebbe trascorso nell’ ‘Ifrīqiya aglabita un periodo che andrebbe dall’839 c. all’878 c., cioè poco meno di un quarantennio.
Il Santo giunse nell’aprile (dell’878) a Gerusalemme, ove il patriarca Elia III, il primo personaggio storico citato nella biografia gli conferì l’abito di monaco e gli attribuì consentendo al desiderio da lui manifestato, il suo stesso nome. Ora, nel monachesimo bizantino era diffusa la consuetudine di scegliere, al momento di abbracciare la vita monastica, un nome che avesse la stessa iniziale di quello secolare. Anche in questo caso l’usanza fu rispettata perché nella pronuncia del greco bizantino le iniziali di Iohannes ed Helias corrispondevano foneticamente.
Dopo l’omaggio reso ai venerandi luoghi della città, si recò presso il fiume Giordano, il lago di Genesaret, il monte Tabor, in una località denominata “Dodici Seggi” e successivamente si trasferì nel monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, dove trascorse tre anni, da cui se ne andò, per sfuggire alla fama di santità che si stava diffondendo – anche questo, a partire dalla Vita Antonii, è un topos dell’agiografia monastica
Si recò quindi ad Alessandria d’Egitto, dove poté pregare nei templi intitolati a Marco evangelista, a Pietro, a Mena, e a Ciro e Giovanni. Sempre in vena di vagabondaggi, Elia decise di recarsi in Iraq e in Persia, cosa che potrebbe anche essere vera, visto che il biografo afferma come una rivolta di barbari gli impedisse di realizzare la cosa. Proprio in quegli anni, infatti era in corso in Iraq la rivolta degli Zanj, la ribellione di schiavi neri d’origine africana contro il potere degli Abbasidi.
Così, brontolando, Elia si trasferì ad Antiochia, dove la la solita voce divina gli disse che era tempo di tornare a casa; imbarcatosi in una nave musulmana diretta a Balarm, dove si era trasferita la madre, riuscì a convertire l’intero equipaggio e il resto dei passeggeri.Se fino al ritorno di Enna in Sicilia la Vita non fornisce, a parte il nome del patriarca di Gerusalemme Elia III (878-906), alcun dato cronologico precisamente inquadrabile, successivamente la biografia del santo risulta strettamente collegata con gli avvenimenti storici dell’Italia meridionale.
Sbarcato nel porto della Cala, dopo avere salutato la famiglia, dove ebbe una nuova visione. In quel tempo l’emiro aglabita preparava una spedizione navale contro Rhegion, e l’imperatore Leone VI mandava a difesa della città l’ammiraglio Basilio Nasar con una flotta di quarantacinque navi. Elia predisse la vittoria dell’armata bizantina e rassicurò i Reggini che, paventando l’attacco dei Musulmani, stavano prendendo armi e bagagli per rifugiarsi come tradizione nelle Motte, le fortezze bizantine a monte della città. La profezia fu pienamente confermata dal trionfo di Basilio sul nemico (nelle acque
di Milazzo, ai primi di agosto dell’880).
La cosa giunse all’orecchio dell’emiro aglabita, che poco gradì: per cui, per evitare guai peggiori, Elia si trasferì nella fortezza bizantina di Taormina, dove prese come discepolo un giovane di nobile famiglia, cui conferì l’abito e impose il nome di Daniele. Avendo Elia previsto la sanguinosa sconfitta dello stratega bizantino Barsakios sulla costa orientale della Sicilia (estate 881), per sfuggire al successivo attacco degli Arabi, lui e Daniele si imbarcarono in fretta e furia per il Peloponneso, stabilendosi a Sparta, presso il monastero dei santi Anargiri Cosma e Damiano. Mentre Elia guariva ammalati e invasati, accadde che Daniele fosse colpito a sferzate dai diavoli, annidati dentro l’antro nel quale dormiva. L’indomani il santo confortò il discepolo ricordandogli che anche il maestro e guida dei monaci (Antonio) aveva sopportato le loro percosse.
Tranquillizzata la situazione in Sicilia, Elia e Daniele decisero di ritornare: lasciata Sparta, i due santi monaci raggiunsero Buthrotum, , città marittima dell’Epiro Vetus, ove furono presi per spie dallo stratego locale e buttati in carcere. Quell’uomo empio e scellerato non arrivò a fare eseguire la condanna perché l’indomani venne colpito al petto dal suo cavallo imbizzarrito e morì. Per festeggiare lo scampato pericolo, Elia e Daniele avrebbero voluto imbarcarsi e andare a pregare in Roma, ma non trovando nessun passaggio, si trasferirono a Corfù e alloggiarono nell’episcopio, per poi partire in
direzione di Rhegion, da cui poi si diressero alla Turma delle Saline, nei pressi di Tauriana, dove fondarono un monastero.
E. vi condusse una vita ascetica basata su rigidi digiuni, preghiere ininterrotte e veglie; dai monaci richiese ubbidienza incondizionata; oltre a profezie e guarigioni di ogni genere e risma, si racconta che Elia e Daniele, nei loro vagabondaggi, capitarono nei pressi dello stagno dalle parti di Pentadattilo, e Daniele mostrava ad Elia un bel salterio. Questi gli ordinò prima di buttare il salterio nello stagno e quindi, percorse sei miglia, gli ingiunse di tornare indietro per riprenderlo. Il discepolo ritrovò il libro senza che l’acqua gli avesse procurato alcun danno.
Visto che le cose nel monastero procedevano discretamente bene, Elia e Daniele decisero di realizzare il vecchio sogno del pellegrinaggio a Roma, dove fu accolto con particolari onori dal pontefice Stefano V, il quale era un’eccezione in quel manicomio del Papato dell’epoca. Secondo il liber pontificalis, Stefano
Allorché prese possesso del palazzo Lateranense tutto era andato a ruba….ond’egli tutto misericordioso coì poveri, e che non si poneva a mensa se non erasi assicurato ch’erano stati sollevati, distribuì liberamente il suo patrimonio pingue, consumando anco per l’ornamento delle chiese, e nel riscattare gli schiavi […] Insigne per rare virtù e d’un disinteresse esemplare, nutria gli orfani come suoi figli, e chiamava ogni giorno a pranzo i nobili caduti in miseria: le sue incessanti limosine principalmente rifulsero in una crudele carestia che afflisse Roma. Celebrava quotidianamente la messa, e consagrava all’orazione o alla salmodia tutti i ritagli di tempo che gli lasciavano le sue cure benefiche, e le pastorali sollecitudini.
Elia ebbe una visione, sul fatto che gli Arabi avrebbero assalito Rhegion (settembre 888), cosa all’epoca tutt’altro che rare lasciato il monastero, come suo solito si trasferì col discepolo a Patrasso, da cui tornò, passata la buriana. La conquista di Reggio ad opera di Abû al- jAbbâs (10 giugno 901) fu rivelata al santo prima del suo compimento, ed egli si adoperò perché i Reggini, col fare ammenda dei loro peccati, ottenessero il perdono di Dio ed evitassero la terribile punizione. Quelli non prestarono ascolto e alcuni furono fatti prigionieri, altri perirono di spada. Elia e Daniele attesero la sciagura nel
castello di Santa Cristina (alle falde occidentali dell’Aspromonte). Colà le loro esortazioni furono ascoltate, e gli abitanti si serbarono incolumi dall’offesa del nemico. Accadde anche al comandante della flotta bizantina, Michele, di seguire i consigli del divino padre, allontanando le sue milizie dalla dissolutezza e dalla fornicazione, e di avere il soccorso celeste. Infatti, avvenuto il combattimento, trionfò sul nemico, così che molti dei Reggini poterono essere richiamati dalla prigionia (probabilmente primavera del 902).
Per festeggiare tale vittoria, Elia e Daniele se ne tornarono a Taormina, dove ebbe la rivelazione del prossimo attacco di Ibrahim, che a dire il vero, era la versione araba del nostro Brancaleone. Ibrahim, per questioni legate al mancato pagamento di tasse al Califfo, non era stato riconosciuto come Emiro; per sfida, si era autoproclamato ghazi, soldato della jihad, concependo un piano che mostrava tanto la sua capacità di pensare in grande, quanto la sua ignoranza in geografia. Confondendo Costantinopoli con Roma, voleva conquistare il Sud Italia, per poi marciare a Nord verso la presunta sede del
Basileus.
Elia avvertì allora i cittadini della gravissima minaccia, cui avrebbero potuto sottrarsi, se si fossero emendati dai peccati. Analoga ammonizione rivolgeva al patrizio Costantino, adducendo ad esempio la temperanza di Epaminonda e di Scipione l’Africano. Ma sia Costantino che i Taorminesi non tennero in alcuna considerazione le sue parole. Mentre il santo riposava per la tarda età in casa di Crisione predisse che in quel letto avrebbe dormito Ibrahim e in quella casa sarebbero stati trucidati molti dei notabili della città. Poi si levò col proposito di imbarcarsi per Amalfi. Giunto nel mezzo della città,
sollevò la tunica fino alle ginocchia e al meravigliato Daniele spiegò che vedeva una marea di sangue inondare quel luogo. In ciò imitava il famoso Geremia, cui era stato ordinato da Dio di attrarre con spettacoli inusitati la attenzione dei disobbedienti. Arrivati ad Amalfi, ove furono accolti dal vescovo e dove Elia guarì la nipote del praefecturius.
Intanto Ibrahim, dopo avere conquistato Taormina e Rhegion, proseguiva con il suo ehm geniale piano, assediando Cosenza: secondo la tradizione, Elia gufò così tanto contro il ghazi, da farlo morire per dissenteria fulminante. Alla notizia della morte del condottiero aghlabita, Elia e Daniele se ne ritornarono a casa, con il Santo che tornò a compiere miracoli a iosa: fece cessare colle sue preghiere una gravissima siccità, che si protraeva da cinque mesi; attraversò transumando il fiume Secro in piena, mentre era in viaggio con due suoi discepoli, Daniele e Saba; ottenne da Dio che una fonte di acqua
limpidissima sgorgasse per dissetare Daniele, mentre si trovavano in luoghi deserti e aridi; sanò a Santa Ciriaca (Gerace) un paralitico, un prete di nome Malachia.
Intanto lo stratega Michele aveva domato con la forza la rivolta dei piccoli proprietari terrieri calabresi, guidata da un certo Colombo: Elia, che sosteneva la necessità di un compromesso,intervenne a implorare che gli fosse risparmiata la vita al ribelle . Michele fu inflessibile. Elia la prese male e maledisse lo stratega, che morì dopo sette giorni, colpito da terribile malattia. Il nuovo stratega, visto i precedenti, concesse l’equivalente degli arresti domiciliari a Colombo, affidandolo in custodia ad Elia.
Dopo tutte queste vicende, Elia avrebbe voluto trascorrere una serena vecchiaia presso il suo monastero a Saline, ma non era destino. A Costantinopoli regnava il basileus Leone VI, la cui vita famigliare era , come dire, alquanto tempestosa. Aveva già seppellito tre mogli ed era fermamente intenzionato a impalmare la sua amante, la bellissima figlia dell’ammiraglio Ermerio, Zoe Carbonopsina (dagli occhi neri come il carbone). Per le strane leggi canoniche di Costantinopoli, il quarto matrimonio non era ammesso ed era considerato poligamia; in caso si fosse realizzato., le due parti erano obbligate a separarsi, con una scomunica dai sacramenti che durava molti anni.
Per ottenere una deroga a tale matrimonio, Leone aveva nominato come patriarca il suo ex segretario Nicola, ma non c’era verso: Elia, al contrario, da buon occidentale e uomo di mondo, era di più ampie vedute, non vedeva nulla di male in tale matrimonio. Per cui Leone lo chiamò a corte, affinché le parole di un santo taumaturgo riconducessero sulla retta via i testoni dei suoi prelati. Così Elia, Daniele e Colombo furono costretti con le buone e con le cattive a imbarcarsi per Costantinopoli.
Il trio raggiunse raggiunse Naupatto passando per Ericusa e Corfù, e di là per via di terra Tessalonica, dove morì ottantenne il 17 agosto di un anno imprecisato. Poiché durante il viaggio avrebbe profetizzato che una flotta araba, guidata dal pirata bizantino Leono di Tripoli, proveniente dalla Siria avrebbe saccheggiato non Costantinopoli bensì Tessalonica, il che in effetti avvenne il 31 luglio 904, l’anno della morte viene generalmente fissato al 903.
Il giorno seguente essa fu deposta nel venerando tempietto di San Giorgio martire, ove rimase per dieci mesi (dall’agosto 903 al giugno 904). In seguito giunse colà il senatore e patrizio Vardas (Focas), che chiese di poter venerare le sante spoglie. Aprirono la tomba e trovarono il corpo intatto e incorrotto. L’imperatore fu informato da Vardas del miracolo e ordinò che quel sacro tesoro fosse trasportato a Costantinopoli. Anche questo aveva previsto Elia e aveva consegnato, prima di morire, a Daniele una lettera per l’imperatore, nella quale esprimeva il desiderio che il suo corpo fosse seppellito nel monastero delle Saline. Leone dette disposizione che senza indugio si facesse secondo il volere del santo.
Della traslazione fu incaricato il calabrese Giorgio, uomo nobile e pio, che in quel tempo si trovava a Costantinopoli. II corteo mosse dalla località de “Le Fornaci”, attraverso successivamente le provincie di Tessalia, Ellade e Tesprozia, e arrivò a Butroto; di lì per mare raggiunse la cittadina di Rossano. Sbarcato, pervenne al castello di Bisignano (a nord di Cosenza). I monaci delle Saline, avvertiti da Daniele, mossero incontro alla salma in Tauriana, e la scortarono con il dovuto onore fino al monastero.
Nell’epilogo il biografo dichiara di avere ricercato la giusta proporzione del discorso, raccontando i fatti più rilevanti e famosi. Segue la preghiera che tutti gli uditori e lo stesso oratore siano imitatori delle gesta di Elia, per essere ritenuti degni della gloria nei cieli.
Nel XVIII secolo il monastero fondato da Elio fu raso al suolo dal terremoto ed oggi il culto del santo sopravvive a Seminara nel nuovo Monastero Ortodosso intitolato ai Santi Elia il Giovane e Filareto l’Ortolano, nella sua città natale Enna, a Reggio Calabria,presso Melicuccà, in provincia di Reggio.
Leggenda vuole che i monaci basiliani in fuga da Tauriana, trafugarono il corpo acefalo del santo, poiché la testa è stata portata , dagli stessi suoi seguaci, nel convento di Seminara, dove ancora oggi è custodita, in apposita teca di argento, nel “tesoro” del Santuario della Madonna dei Poveri e lo seppellirono nel loro nuovo convento di Sant’Elia in Galatro. Ad avvalorare tale notizia, si sa che nel 1200, di ritorno da un pellegrinaggio in terra santa, davanti alla tomba del basiliano ennese, venne a raccogliersi in preghiera San Cono, originario di Naso in provincia di Messina.
Tra l’altro, questo convento ebbe un ruolo fondamentale nella nascita dell’Umanesimo: Si ritiene anche che l’attività culturale dei monaci di Galatro sia stata notevole: Bernardo da Seminara, nella prima metà del XIV secolo fu ordinato sacerdote con il nome di Barlaam, la figura più eminente della tradizione greca dopo l’estromissione di Bisanzio dall’Italia meridionale: egli, infatti, teologo e filosofo, è il pensatore che mise al servizio della Chiesa orientale le conquiste speculative dell’occidente, con la scolastica di Duns Scoto e di Guglielmo d’Occam, . Con stima parlarono di lui il Petrarca, che lo ebbe come maestro di greco, ed il Boccaccio.