Come raccontato altre volte, le tavolette in Lineare B di Tebe delle serie Fq, Ft e Gp ci hanno fornito importanti informazioni sulla natura della religione egeo minoica. Ad esempio, da recenti analisi statistiche sulle offerte alle divinità, si è scoperto come queste impattassero in maniera assai ridotta sul budget dell’economia palaziale, con una percentuale inferiore al 10%. Questo implica come i santuari avessero delle loro specifiche risorse economiche, con un’amministrazione e contabilità distinta da quella del wanax, di cui sappiamo ben poco, che però mina l’ipotesi che svolgesse solo il ruolo
di re sacerdote.
Al contempo però, i burocrati del megaron erano però ossessionati dal rispettare le ricorrenze dei calendari religiosi, probabilmente sia per motivi di prestigio, come se svolgessero la funzione di una sorta di potlatch; è probabile inoltre che le élites micenee, come forse testimoniato dai miti risalenti all’età del Bronzo, garantissero la loro legittimità a governare dall’affermazione della loro discendenza divina e dal loro essere quindi garanti dell’ordine cosmico, concetti ribaditi e sottolineati dalla ciclicità del rito… Per fare un volo pindarico, il caos politico, economico e climatico del 1200 a.C. forse è
stato visto dalle popolazioni greche come una sorta di ritiro del mandato celeste a governare, affrettando il crollo sistemico.
Altro dato interessante, in quelle tavolette, è la grande quantità di zoonimi ricorrenti; in un contesto cerimoniale, che prevedeva l’offerta di cibi e bevande destinati a essere consumate in occasione di un banchetto rituale, sono menzionati, tra i destinatari muli, serpenti, uccelli, cani, oche, maiali e gru. E’ probabile che alcuni di questi animali siano stati veri, date le testimonianze residuali dell’età classica, come i serpenti di Asclepio ad Epidauro o i maialini di Demetra a Eleusi.
Tuttavia, facendo riferimento ad esempi dell’età classica, ad esempio i “tori” di Efeso o le “orse” di Artemide a Brauron; è probabile che parte di questi zoonimi costituiscano dei titoli religiosi. Tali titoli sottendono, per coloro ai quali sono attribuiti, la partecipazione a una sorta di rituale sciamanico, basato dialettica di metamorfosi e trasformazione, di opposizione e sintesi, alla quale si addice particolarmente l’uso del travestimento e della maschera per simboleggiare momenti di transizione da una fase all’altra della vita o da uno status sociale all’altro.
Questi rituali si svolgevano al termine delle teofanie realizzate nei santuari pubblici, che secondo Burker
la cui denominazione corrisponde esattamente al tipo greco successivo di nomi di festività: oltre alla “preparazione del letto” esisteva anche una festa del “portare il trono qua e là” a Pilo e una festa del “trasporto del dio”, Theophória (θεοφορία), a Cnosso. Una volta vengono destinate a Posidone, o piuttosto ad una sconosciuta divinità Pere -lo scrivano ha corretto- un bue, una pecora e un maiale si prescrive qui un “sacrificio tipo suovetaurilia, in seguito diffuso presso Greci e Romani
E fungevano da loro completamento e integrazione e prevedevano prevedevano almeno – per citare solo le letture più sicure – un’offerta ignea alla divinità e lo svolgimento di un banchetto rituale. A quest’ultimo avrebbe partecipato personale verosimilmente impegnato nello svolgimento di processioni, musicisti, lavoratori specializzati e desservantes de sanctuaire recanti titoli più specificamente religiosi; infine, individui menzionati con l’antroponimo.
In tale occasione si svolgevano canti e danze: a testimonianza di tale ritualità sciamanica, oltre che ai miti risalenti al tale epoca, in cui appare assai spesso la tematica della metamorfosi, vi sono numerose testimonianze iconografiche, dagli affreschi alla ceramica e alla glittica, di personaggi travestiti da animali partecipanti a cerimonie religiose.
Va bene, ma al resto del mondo, del fatto che i micenei, oltre che ai sacrifici umani e al cannibalismo, continuassero a praticare lo sciamanesimo, cosa può importare ? Proviamo a compie un salto, a prima vista di palo in frasca, parlando della Tragedia, nome che letteralmente significa “canto del capro”. Sulle sue origini, gli studiosi si devono confrontare con poche e confuse notizie. Il buon Aristotele nella Poetica (IV, 144 9a) afferma che la tragedia deriva da “coloro che intonavano il ditirambo”, un canto corale in onore di Dioniso in cui avveniva un dialogo fra chi guidava il coro, detto corifeo, e il resto del coro.
Invece Erodoto nelle Storie (I, 23) racconta che inventore della tragedia e il cantore Arione di Metimna, non poiché creò i ditirambi, ma per il fatto che fu il primo a dare un titolo a cio che pronunciava il coro recitando in opposizione al canto. Egli insegno agli uomini truccati da satiri, con orecchie caprine, a cantare tali inni; il momento di transizione verso la rappresentazione drammatica e segnato dal cosiddetto Ditirambo dialogato. Sempre Erodoto, nelle Storie (V, 67), ci dice che anticamente a Sicione i cori tragici rappresentavano le sventure di Adrasto, un eroe di Argo vissuto ai tempi della guerra dei Sette contro Tebe. Nel VI sec. a. C. poi, Clistene, tiranno della citta, trovandosi in lotta con Argo, elimino il culto di Adrasto e volle trasferire i cori a lui dedicati a Dioniso.
In realtà, sia Aristotele, sia Erodoto raccontano, da punti di vista differenti, la stessa storia: la tragedia deriva da canti e danze, eseguiti da personaggi vestiti da capri, in cui si celebrava un antenato divinizzato e assimilato a Di-wo-nu-so, il figlio di Di-we e della Potnia Theron, ossia da qualcuno dei riti sciamanici celebrati nei megaron micenei.
Mentre al contrario la commedia, che significa letteralmente “canto del kòmos”, dove komos significa a seconda delle interpretazione dalla parola greca che significa ebbrezza o da “kome” ossia “villaggio” in dialetto dorico, dalle processioni pubbliche precedenti ai riti nel megaron in cui i personaggi vestiti da animali, che diventeranno le vespe, le rane e gli uccelli di Aristofane, accompagnavano il simulacro di Di-wo-nu-so, che poteva essere, come nell’età classica ad Atene, un enorme fallo di legno e come nei trionfi dell’antica Roma, ricordavano con beffe e lazzi la mortalità dei loro nobili…
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