Un paio di giorni fa, parlando delle feste romane in onore dei defunti, ho citato i riti degli Argei, talmente arcaici da non essere indicati nel calendario ufficiale romano delle feste religiose, cioè non erano feriae publicae, essendo antecedenti alla fondazione dell’Urbs.
Riti che come già accennato consistevano a marzo in una processione che percorreva 27 sacraria, cappelle dalla regio Suburana a quella Esquilina, Collina e Palatina, secondo quanto ci tramanda Ulpiano, a cui partecipava anche la la Flaminica Dialis, la moglie del flamine diale, il sacerdote preposto al culto di Giove, in abbigliamento di lutto e nella cerimonia al termine della Lemuria, in cui le Vestali gettavano nel Tevere da ponte Sublicio fantocci in giunco (scirpea).
La Flamica Dialis, tra l’altro, che secondo il buon Gellio, doveva rispettare una serie di divieti, che in altri contesti, sarebbero stati definiti tabù tribali: doveva portare una veste colorata (quod venenato operitur), doveva mettere un germoglio di albero “felice” nello scialle (et quod in rica surculum de arbore felici habet), non doveva salire più di tre scalini se non si trattava di una scala “greca” cioè coperta da entrambi i lati (et quod scalas, nisi quae Graecae appellantur, escendere ei plus tribus gradibus religiosum est atque etiam), e nel nostro caso, specifico, quando partecipava alla processione degli Argei non si doveva ornare la testa, né pettinare i capelli (cum it ad Argeos, quod neque comit caput neque capillum depectit).
Cerimonie che prima del sinecismo che porta alla nascita di Roma, dovevano servire a rafforzare i legami tra i pagi delle popoli albensi che abitavano l’area, che Plinio il vecchio chiama con il nome di Foreti, Latinienses, Munienses, Querquetulani, Velienses, ricordando l’origine da un comune antenato mitico e fungere da grande purificazione collettiva, in cui gli Argei fungevano da capri espiatori e da sacrificio per placare gli antenati, inquieti per le cattive azioni compiute dai loro discendenti.
Dove erano questi sacraria ? A darci una sorta di mappa ci pensa il buon Varrone, anche se, a dire il vero, nel suo elenco si perde una buona metà di queste cappelle. L’ unica regione di cui il grande erudito, nomina tutti i distretti in numero di sei era, forse, la seconda, Esquilina, ma il testo è arrivato a noi mutilo. Per la prima regione, Succusana o Suburana, egli nomina solo due distretti, il quarto e il sesto; per la terza, Collina, dal terzo al sesto; per la quarta, Palatina, il quinto e il sesto.
Parlando del nostro Esquilino, un’ipotesi, accettata dalla maggior parte degli studiosi, di ricostruzione del testo originario, farebbe
Esquiliae suo montes habiti, quod pars [Oppio, pars Cespio monte continentur]. Cespeus mons suo antiquo nomine etiam nunc in sacris appellatur. In sacris Argeorum scriptum sic est: ‘Oppius mons princeps [uls Carinas(?), sinistra via in tabernola(?) est. Oppius mons biceps] uls lucum Facutalem, sinistraque secundum m[o]erum est. Oppius mons terticeps cis lucum Esquilinum, dexterior via in tabernola est. Oppius mons quarticeps u[l]s lucum Esquilinum, [secundum] viam dexteriorem in figlinis est. Cespius mons quin ticeps cis lucum Poetelium Esquili[is fi]nis est. Cespius mons sexticeps apud [a]edem Iunonis Lucinae, ubi [a]editumus habere solet
Che tradotto in italiano, risulterebbe
Formano le Esquilie due diversi monti, visto che esse sono comprese parte nell’ Oppio e parte nel Cispio. Nei libri sacri il Cispio è chiamato ancora nella forma antica di «Cespio». Infatti, nei libri degli Argei troviamo scritto quanto segue: “Il primo distretto esquilino è nell’Oppio, oltre le Carine (?), con il suo lato sinistro sulla via delle bottegucce (?); il secondo, sempre nell’Oppio, al di qua del lucus Fagutalis, con lato sinistro sul muro; il terzo, al di qua del lucus Esquilinus, col suo lato destro sulla via delle bottegucce; il quarto, ancora sull’Oppio, si situa oltre il lucus stesso, col lato destro sulla via delle figuline; il quinto è sul Cespio, al di qua del lucus Poetelius, e risulta il più estremo dell’Esquilino; il sesto è sul Cespio ancora, dove si trova il tempio di Giunone Lucina, che dispone di un custode”
Dove appare evidente come nella sua descrizione Varrone faccia riferimenti a un documento assai più arcaico, il libro degli argei, dato che uno dei riferimenti, in relazione alle Carine, non è il muro della fortificazione «serviana», ma il murus terreus Carinarum o aggere preistorico, sopra la Velia, che assieme al murus mustellinus, “il muro della donnola”, costituivano i resti della più antica fortificazione della città.
Ora, abbiamo forse ritrovato, proprio all’Esquilino, uno dei santuari citati dal nostro erudito latino preferito: nel 1987 a Roma, in un’area sul Colle Oppio, tra viale del Monte Oppio e via delle Terme di Traiano, una volta appartenente ai giardini Brancaccio, si compì uno scavo archeologico, dove, oltre ai resti di una fullonica (lavanderia) di età medio-imperiale, saltarono fuori: una grande struttura circolare, in uso dal tardo periodo repubblicano fino ad età tardo-antica (o altomedioevale),rappresentata in un frammento della Forma Urbis, che rappresentava lo stranissimo quartiere, molto simile al rione attuale, che si estendeva tra il fronte nord delle Terme di Traiano e il limite meridionale della Porticus Liviae, in cui convivendo grandi residenze signorili, riconoscibili dai vasti cortili colonnati, ma pure più modesti caseggiati, preceduti da tabernae e portici prospicienti le strade, dove vivevano gli immigrati siriani, greci ed egiziani.
All’interno di tale struttura fu trovato un deposito votivo, di fine VII-VI sec. a.c., contenente sette rocchetti da telaio e nelle sue vicinanze,una piccola area sacra, costituita da un altare in tufo litoide, già danneggiato e semidistrutto in epoca antica, al quale era stato sovrapposto un pavimento di lastre dello stesso materiale, racchiuso da racchiuso in un recinto formato da grandi blocchi di tufo che formavano una struttura di forma rettangolare della quale è attualmente difficile ricostruire la pianta e le dimensioni. Accanto all’altare vi era un deposito votivo. A sud ovest dell’edificio è stato reperito un un pavimento di tufo con un deposito votivo del IV sec. a.c., contenente una statuina bronzea di Kouros, tre tazze di bucchero in miniatura, tre focacce in miniatura e vari frammenti di bucchero
La rotonda fu in principio interpretata come una piscina degli Horti di Mecenate, citata anche questa da fonti antiche, ma il ritrovamento dell’area sacra, coeva a tale struttura, dei depositi votivi e il fatto che nella fase iniziale fosse costruita in cappellaccio e tufo palatino, materiali di costruzioni usati nella Roma più arcaica, fece decadere tale ipotesi.
Ora l’antichità e la sacralità del sito, il fatto che coincidesse con quanto descritto da Varrone, che ne poneva il quarto
viam dexteriorem in figlinis est
ossia in una via caratterizzata dalle botteghe di vasai, che sono state ritrovate nelle vicinanze, cosa rafforzata anche dai cumuli di materiale ceramico di scarto trovato in Via Merulana, ha fatto ipotizzare di avere trovato uno dei santuari argei.
Con un grande forse: alcuni studiosi hanno fatto notare come le fonti antiche, riferite ai sacraria argei, facessero pensare a strutture meno imponenti, la rotonda ha un diametro di 16 metri, di quelle ritrovate e che queste facessero più pensare a una sorta di heroon. In più, nell’ipotesi che un’altra struttura presente nello stesso frammento della Forma Urbis della Rotonda, ancora non identificata e scavata, ma dalla pianta risulta esservi adiacente, caratterizzata di un atrio tuscanico e da una struttura di tipo arcaico, analoga a quelle della via Sacra e alla Regia, potesse essere la domus di Servio Tullio, che sappiamo dalle fonti antiche essere stata eretta nell’Esquilino, allora la costruzione potrebbe essere quanto rimane del Sepulcrum Servii, la tomba del penultimo re di Rom, e il sacrario l’aedes Fortunae Servii, il tempio privato che fece erigere alla sua dea protettrice.
In entrambi le interpretazioni, ci troveremmo sempre davanti a una delle rare testimonianze della Roma arcaica…
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