
In attesa di vestirmi da Babbo Natale, ritorno a parlare dei santi calabro-bizantini: oggi è il turno di San Giovanni Theristis. Sulle sue origini, come spesso accade in questi casi, abbiamo due differenti versioni, ma, cosa strana a dirsi, stavolta non c’entrano nulla le diatribe tra cattolici e ortodossi.
La questione è che abbiamo due bios distinti del Santo. Il primo, in un greco molto popolare e scorretto, e dalla grafia arbitraria, in cui l’autore, per darsi un tono, si è spacciato per Nilo da Rossano, che però ha, dal punto vista filologico, un’importanza straordinaria, dato che contiene in nuce alcuni elementi, che sono attualmente presenti nel grecanico o greco di Calabria. Il secondo, invece, è in elegante greco ecclesiastico più vicino ai modelli classici che al greco bizantino e al neogreco.
Ora i due testi concordano quasi per tutto, tranne che per le origini del Santo. Secondo la versione in lingua popolare, era figlio dell’ Arconte di Cursano. il capo di uno chorion bizantino sito in località Botterio Signore oggi nel territorio di Stilo.
La chorion, era un villaggio, unione di agridion, casali, in cui risiedevano gli stratioti, soldato-colono al quale erano attribuite una proprietà terriera e una carica militare, entrambe inalienabili ed ereditarie. Si trattava in pratica di un soldato a cavallo che aveva l’incarico di equipaggiarsi completamente a proprie spese, sia per il cavallo che per il proprio armamento. Aveva la responsabilità del proprio addestramento, doveva rispondere a tutte le convocazioni e doveva subire le riviste (adnoumion). La chorion svolgeva il ruolo entità giuridica e il livello base con in sui si raggruppano le entrate fiscali. La sua comunità stabiliva inoltre i beni comuni messi a disposizione dei contadini soldati.
A un certo punto, intorno al 995, i saraceni attaccarono Cursano, saccheggiandolo e uccidendo tutti i soldati; donne e bambini furono invece trascinati come schiavi a Balarm, tra cui la madre di Giovanni che, incinta di vi partorì il bambino, che crebbe in ambiente musulmano, ma nella fede cristiana. Citando la traduzione di questo bios
Ma quando giunse a quattordici anni gli disse la madre: “Sappi, figlio, che questa non è la nostra patria, né questo è tuo padre; ma sei figlio di un nobile; ed io fui condotta qui prigioniera di guerra; e tuo padre venne ucciso da questa gente barbara in Calabria nostra patria, nel nostro villaggio di Cursano, presso lo Stilaro, lungo il fiume sopra il monastero del luogo chiamato Rodo Robiano sotto il monte di Stilo; e in quel villaggio è il nostro palazzo e lì abbiamo nascosto i nostri tesori”: e gli indicava il luogo dove li avevano nascosti…
Così munito di una piccola croce, attraversò lo stretto di Messina in una barca senza remi o vela, per poi giungere sino a Stilo. Nel racconto agiografico Giovanni nel viaggio fu avvistato da una galera saracena, ma la barca improvvisamente sarebbe affondata per riemergere miracolosamente fuori dalla vista dei saraceni e approdare a Monasterace.
Invece, più sinteticamente, la versione dotta parla di un santo di origine mora: dato che il vescovo locale gli fece una sorta di duro interrogatorio, per appurare le sue intenzioni e la sua conoscenza della fede, per appurare se non fosse una spia, è quasi certo che fosse un dhimmi o un musulmano convertito, in fuga per evitare la condanna per apostasia.
Così racconta il bios
Il vescovo, per metterlo alla prova, gli disse: << Non puoi essere battezzato, essendo così grande di età, se prima non ti gettiamo una pentola di olio bollente >>. Quello subito con ardore rispose: << Sono pronto a sopportare tutto; sia fatto come vuole la tua signoria, affinché riceva questo santo battesimo: infatti sono venuto per questo >>. Allora il vescovo comandò di porre sul fuoco una pentola di olio a bollire, e stava ad osservare l’ardore del giovinetto: quello eccitava il fuoco, affinché bollisse subito, e quando vide che la pentola già bolliva, incominciò a togliersi le vesti, per gettarsi nudo nella detta pentola. Avendo visto ciò il vescovo che era stato a vedere e ad ammirare la sua audacia corse o glielo impedì, ed avendoIo preso lo portò in chiesa con molto o grande onore, lo battezzò e lo chiamò dal proprio nome Giovanni, e si trattenne li con, lui un numero sufficiente di giorni, in cui lo ammaestrò o gli insegnò le cose della fede.
Tale ipotesi non esclude però un’origine bizantina: buona parte degli impiegati statali del thema di Sikelia passarono, senza troppi problemi e molti senza neppure cambiare religione, al servizio del nuovo padrone islamico, tanto che, nella burocrazia fatimide, l’appellativo al-Siqilli, il siciliano, era tra i più diffusi. Il più famoso di loro fu Jawhar, conquistatore dell’Egitto e fondatore del Cairo.
Dopo il battesimo, Giovanni desiderò diventare monaco basiliano: nei pressi di Bivonci, intorno al 1050 un ricco latifondista di Stilo, Gherasimos Atulinos, per guadagnarsi il Paradiso, fondò su un suo terreno un piccolo monastero, un Katholicon, di cui non sappiamo il nome e di cui divenne il primo Egùmeno, che si trovò alla porta il buon Giovanni
Dati i tempi, in cui vigeva il principio del fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, Gherasimos rifiutò tale richiesta: tuttavia, quando Giovanni si presentò accompagnato da ricchi doni, l’Egùmeno cambiò idea. Nel bios popolare, a tale proposito, si racconta
Dopo non molto tempo si ricordò il santo delle parole che gli aveva dette la madre, e rivelò tutto a quei santi padri, e che egli era di quella regione, del villaggio devastato di Cursano, figlio del nobile che era stato ucciso dai barbari, e i tesori nascosti dove era il suo palazzo, e il resto. Un giorno dunque il santo, preso con sé uno di quei santi padri, andarono nel detto luogo e cercarono i suoi tesori; e avendoli trovati, distribuirono tutto ai mendicanti, secondo la regola del loro padre il grande Basilio
Diventato monaco, da buon santo calabrese, Giovanni si dedicò alla penitenza, era sua abitudine farsi il bagno e pregare in pieno inverno in una sorgente d’acqua fredda e a compiere miracoli. Il più famoso fu quello che gli diede l’appellativo di Theristis, mietitore. Come in precedenza, lascio la parola al bios
C’era un nobile in Robiano, che ora si chiama Monasterace, che era benefattore del monastero, e ogni anno usava donare ai santi padri ciò che fosse loro necessario. Voleva una volta il santo Giovanni recarsi da lui, nel mese di giugno e nel tempo della mietitura; prese con sé un piccolo vaso di vino e poco pane e andava. Giunto nei luoghi chiamati Muturabulo e Marone, vide una turba di mietitori che mieteva i campi del detto nobile, i quali, visto il santo, cominciarono a dileggiarlo e deriderlo; ma quello avvicinatosi li abbracciava, e invitandoli diede da mangiare e bere a tutti del pane e del vino che
aveva, e tutti si saziarono, e il pane e il vaso non diminuirono. Visto questo, il santo si gettò a terra ringraziando Dio, e mentre pregava si levò il vento e iniziò a piovere. Tutti i mietitori fuggirono sotto gli alberi. Solo il santo rimaneva a pregare. Terminata la preghiera, vide quei campi mietuti e tutti i covoni legati, e tornò al suo monastero. Cessata la pioggia vennero di nuovo i mietitori a completare il loro lavoro; e trovarono tutto ormai mietuto e legato; ma non videro il santo; ma si recarono a casa del padrone per ricevere il salario, cantando e danzando per strada. Fattosi loro incontro per strada il padrone cominciò a rimproverarli e svillaneggiarli dicendo loro: “Stolti e pazzi, perché fate ciò? chi vi ha insegnato a lasciare il lavoro a mezzodì in un giorno di mietitura?”, e risposero a lui: “Signore, è tutto mietuto e legato”. Egli disse: “Come è possibile ciò, se neppure per domani mi basterebbero trecento altri mietitori?”, e quelli confermavano quanto detto, che il tutto era andato così. Li interrogò dicendo: “Avete preso forse qualche altro aiuto?”; risposero: “Non abbiamo avuto altro aiuto se non un monaco del monastero, che venne da noi e ci diede da mangiare e bere, poi non l’abbiamo visto più”. Allora disse quel signore: “Questo monaco per grazia divina ha mietuto i miei campi ed io voglio che questi campi siano suoi”: e consacrò al monastero i detti luoghi di Muturabulo e Marone. Il monastero li ha e possiede fino ad oggi; e per questo miracolo il santo fu chiamato Therestì.
Dalle fonti si ipotizza che Giovanni sia morto intorno al 1060; poco dopo la sua dipartita, il monastero, che aveva acquisito fama e lustro dalla sua presenza, si trovò a gestire la questione dei Normanni, impegnati, con le buone e con le cattive, a ricondurre all’obbedienza romana le sedi vescovili che si trovavano sotto la giurisdizione del Patriarca di Costantinopoli. Ciò comportò sia la graduale sostituzione dei religiosi ortodossi, con altri prelati cattolici posti alla guida dei vecchi luoghi di culto greci, sia la nascita di nuovi luoghi di culto latini.
A peggiorare la situazione nel 1091, Papa Urbano II per dare un ulteriore impulso alla liquidazione dell’ortodossia calabrese, chiamò in Calabria Brunone da Colonia, il quale, nei boschi delle Serre Calabre, fondò la Certosa di Santo Stefano del Bosco, che fu subito, nel 1094, dotata da parte del Conte Ruggero il Normanno, di un vasto territorio, sottratto ai vecchi monasteri basiliani, che dai monti si estendeva sino al mare Ionio, nel quale erano compresi numerosi casali (Bingi, Bivongi, ecc.), mulini, miniere, ferriere, ecc.
Per il controllo di un così vasto territorio, ma ancor più per diffondere il rito cattolico, in opposizione a quello ortodosso, i Certosini fondarono, qualche volta su preesistenti luoghi di culto, numerosi conventi e/o Grange, come quella dei Santi Apostoli proprio vicino al Katholikon di San Giovanni. Nel 1096 viene latinizzata per volere di Ruggero, la diocesi greca di Squillace; di conseguenza il vescovato di Stilo, come pure quello di Taverna, venne assorbito dalla nuova istituzione ecclesiastica perdendo di fatto la propria autonomia. Dopo la morte di Mesimerio, ultimo vescovo greco di Squillace, la situazione era divenuta insostenibile e nei vari luoghi di culto della diocesi regnava una certa confusione; Ruggero preoccupato di tale stato chiamò come vescovo il latino Giovanni, canonico e decano della chiesa di Mileto.
In una situazione di crisi che pareva irreversibile, però accadde qualcosa che fece cambiare idea al capo normanno: la tradizione lo attribuisce a un miracolo compiuto dal Santo nei confronti del figlio, il futuro re Ruggiero. In realtà, il tutto fu causato dal timore che la romanizzazione forzata facesse scoppiare delle rivolte filobizantine.
Il Normanno, quindi, per la grazia ricevuta, si prodigò affinché il monaco. Giovanni avesse una degna sepoltura e che fosse ricordato e venerato in una grandiosa chiesa, “…cum igitur multa necessaria desint templo patris nostri S. Ioannis, Dei auxilio id abundanter providimus”, così recitava l’antico documento, normanno, di finanziamento” della costruzione di un Katholikon.

Esso si sviluppò in periodo normanno come uno dei più importanti monasteri basiliani nel Meridione d’Italia e mantenne splendore e ricchezza sino al XV secolo. I suoi monaci erano molto dotti e possedeva una vasta biblioteca e ricchi tesori.
Il monastero cominciò a conoscere in seguito fasi di declino, come tutti i monasteri greci della zona: nel 1457 il visitatore apostolico del Papa ne constatava la decadenza.Nel Seicento una banda di briganti creò molte difficoltà al monastero e nel 1662 i monaci lo abbandonarono definitivamente per trasferirsi nel convento più grande di San Giovanni Theristis fuori le mura a Stilo, dove furono portate le reliquie di San Giovanni Theristis e dei Santi asceti Nicola e Ambrogio.
Al contempo le sue laute rendite, che a seconda degli anni variavano tra i 900 e i 1300 ducati, furono affidate a commendari laici. All’inizio del XIX secolo, in seguito alle leggi napoleoniche, che requisivano i beni ecclesiastici, il Monastero di San Giovanni Theristis divenne proprietà del demanio nel Comune di Bivongi. I primi ad “accorgersi” della esistenza del Katholikon furono, sul finire del sec.XIX, E. Jordan con il suo “Monuments byzantin de Calabre”, pubblicato nel 1889 e C. Diehl nello stesso anno con una pubblicazione su “L’art byzantin dans l’Italie meridionale”.
Un piccolissimo cenno si ha nel 1894 da parte del Croce, che lo cita in un articolo ”Sommario critico della storia dell’arte nel Napoletano” apparso su “Napoli nobilissima”. Nel 1903, è ricordato dal Bertaux, nella sua opera “L’Art dans l’Italie meridional de la fin de l’Empire Romain à la conquete de Charles d’Anjou”, che la definì come “ una costruzione siciliana in Calabria” . In seguito si hanno solo pochi cenni da parte di altri studiosi minori.
Negli anni venti del ‘900 il monastero fu scoperto, in mezzo alla folta vegetazione dell’epoca, dall’archeologo Paolo Orsi, che così ne parla
A settentrione di Stilo una catena di modica elevazione separa le due contigue e parallele vallate dello Stilaro e dell’Assi. A cavallo del valico che collegai due bacini e che dovette essere attraversato da una mulattiera assai malagevole ma altrettanto frequentata nei tempi di mezzo, sorgono le ruine di S. Giovanni vecchio, quasi all’altezza di Stilo, emergenti in mezzo a macchie di neri elci e di verdi querce, e cosÌ segregate dal mondo per la profonda vallata che ben pochi degli Stiletani le conoscono, e nessuno studioso dell’arte le aveva visitate. In questa chiusa e quasi mistica solitudine assai prima del sec. X sorse un umile monastero basiliano….» «….a tanto assurse la sua fama, da esser proclamato «caput monasterium ordinis S. Basilii in Calabria
La proprietà del Monastero passò poi a diversi privati cittadini, che lo adattarono ad uso agricolo. L’abbandono ed alcuni terremoti ne distrussero la navata, ma si salvò l’antica basilica quadrangolare e la parte principale dell’abside che, in quegli anni, venne utilizzata come stalla. Nel 1965 fu “riscoperto” dall’allora sindaco di Bivongi Franco Ernesto, che si adoperò affinché il monastero ed il Katholicon fossero conosciuti e salvaguardati. Gli eredi dell’ultimo proprietario lo donarono nel 1980 nuovamente al comune di Bivongi
Nel 1994 è stato affidato ai monaci greci del Sacro Monte Athos, che con la loro dedizione e pazienza hanno riaffermato il monachesimo greco-ortodosso in Calabria ricreando l’antico luogo sacro con nuove immagini e, grazie agli ultimi restauri effettuati, riscoprendo un antico affresco del Santo, sotto l’intonaco del coro sinistro.
Per vicende interne all’organizzazione della Metropolia greco-ortodossa, negli anni successivi, il Metropolita Gennadios Zervos ha allontanato i monaci ortodossi dal monastero e le chiavi, a causa della temporanea assenza dei monaci, nel mese di maggio del 2007, furono affidate di nuovo all’Amministrazione Comunale di Bivongi, che unilateralmente, con la delibera n. 18 del 2008, ha disposto la revoca della Concessione a causa della mancata custodia del bene, «l’incuria del verde avrebbe potuto favorire l’insorgere di incendi». La Metropolia Greco-Ortodossa è andata in appello contro questa
sentenza, ma la vicenda si è conclusa con la perdita definitiva, da parte dell’Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, della custodia del Monastero, il quale, con successiva delibera del Consiglio comunale di Bivongi, n. 19 del 5 luglio 2008, è stato oggetto dell’approvazione di una nuova convenzione con la Diocesi Ortodossa di Romania in Italia. Nel 2008 il Consiglio Comunale ha dato in concessione per 99 anni tutto il complesso Monastico alla Chiesa Ortodossa Romena.

Dopo tutte queste complesse vicende, il Katholikon ha un importanza fondamentale nella storia dell’Arte, perché è uno dei prime esempi della sintesi tra arte normanna e bizantina, che sommata all’influenza fatimide, porterà alla grandi costruzioni religiose di Palermo, dalla Cattedrale alla Martorana, da San Cataldo ai San Giovanni dei Lebbrosi.
I resti consistenti che ancora oggi si possono ammirare su un pianoro di piccolissime dimensioni di fronte a Stilo, sono quelli della chiesa abbaziale voluta dal re normanno Ruggero II e consacrata il 24 giugno 1122 dal Papa Callisto II. Nel Katholicon, lungo m. 29,10 e largo m. 11,20, le influenze bizantine si manifestano nella triplice divisione interna degli spazi del presbiterio (prothesis, vima e diakonikon) e nella policromia del tessuto murario esterno che reca tracce di reminiscenze tardo romane e reimpieghi di epoca incerta, mentre le influenza normanne sono presenti nell’impianto basilicale (analogo a quello delle chiese di Santa Maria di Tridetti, Santa Maria della Roccelletta e la Cattedrale di Gerace) e nel verticalismo delle strutture, soprattutto della cupola, simile nella sua veduta iposcopica, a quelle non molto più tarde della chiesa di San Cataldo a Palermo; presenta, infine, ascendenze arabe negli archi acuti intrecciati in mattoni nei motivi murari esterni dell’abside (che costituiscono il primo esempio di tale stile nell’Italia meridionale , nei motivi a dente di sega, nell’arco trionfale ogivale interno e nella trasformazione, del tamburo quadrato in cerchio, del, grazie alle trombe angolari, in ottagono sul quale si erge la cupola.

Tuttavia, se il Katholikon è stato recentemente valorizzato, non lo è ancora la grotta in cui il santo si ritirava a pregare e fare penitenza, i cui affreschi sono purtroppo in condizione pietose.