Può sembrare paradossale, ma se abbiamo un’idea abbastanza chiara di quale fosse la prassi degli antichi romani nel misurare i terreni, questo grazie ai Gromatici veteres, una corposa raccolta di manuali di agrimensura messa insieme durante il V secolo d.C. la nostra conoscenza, per quanto attiene alla legislazione amministrativa e catastale, specialmente urbana, è invece alquanto sommaria.
Grazie ai Gromatici veteres, sappiamo come funzionasse la groma. lo strumento utilizzato nel tracciare sul territorio allineamenti tra loro ortogonali, costituita da un’asta verticale che si conficcava nel terreno e recante in sommità un braccio di sostegno per due aste tra loro ortogonali. Le estremità delle aste avevano dei fori a distanza uguale sui quali venivano appesi dei fili a piombo, che risultavano due a due tra loro ortogonali. O come utilizzassero, per misurare le inclinazioni del terreno, una sorta di antenata della nostra livella.
E tramite questi strumenti, I Romani delimitarono vaste estensioni di terra mediante limitationes (delimitazioni, limitazioni), che per lo più erano centuriationes (centuriazioni), composte da quadrati o rettangoli di terreno definiti da vie di campagne dette limites (limiti) fra loro parallele o ortogonali, o strigationes, vale a dire suddividendo i campi in strisce separate da limiti paralleli. Gli spazi fra limiti
successivi, sempre uniformi nell’ambito di una singola limitatio, erano costantemente pari a un multiplo di un actus (=35,48 m) o, in vari casi di più antica delimitazione, di un vorsus (= 30 m). I limiti principali nelle centuriazioni erano il decumano massimo e il cardine massimo e tutti gli altri limiti erano paralleli a uno dei due. L’orientamento più ortodosso per tali limiti, precisamente definito nel Corpus, era da oriente a occidente per i decumani e dal meridione al settentrione per i cardini.
Se però passiamo al catasto vero e proprio, la situazione cambia totalmente: la prima citazione certa l’abbiamo da Granio Liciniano, una sorta di autore di romanzi storici dell’epoca di Adriano, ci informa che, almeno dal 165 a.C., una documentazione catastale esisteva già per il «territorio del popolo romano» (ager populi Romani), tanto che Cornelio Lentulo, il nemico giurato di Tiberio racco fu in grado di recuperare, con atti ufficiali alla mano, almeno 50.000 iugeri di terra dal territorio campano, illegittimamente usurpati da privati e collettività, lasciando traccia dell’operazione in «una mappa bronzea di detti campi che fece affiggere nell’atrium Libertatis, mappa più tardi distrutta da Silla»
L’Atrium Libertatis, per chi non lo sapesse, era un monumento dell’antica Roma, sede dell’archivio dei censori, situato sulla sella che univa il Campidoglio al Quirinale, a breve distanza dal Foro Romano, in cui erano conservate le liste dei cittadini e in cui si svolgeva la cerimonia di liberazione degli schiavi da parte dei padroni. L’edificio scomparve agli inizi del II secolo, in seguito all’eliminazione della sella montuosa sulla quale sorgeva per la costruzione del Foro di Traiano. Le sue funzioni furono ereditate dall’insieme costituito dalla Basilica Ulpia e dalle due biblioteche collocate ai lati della colonna di Traiano.
Silla, per dirla tutta, distrusse tale documentazione per impedire che qualcuno in futuro rivendicasse la proprietà delle terre di cui, più o meno illegamente si erano impadroniti i suoi seguaci. Avendo poi la mappa di Lentulo un ruolo più propagandistico che pratico, è probabile che nella realtà quotidiana le mappe catastali, conservate negli armadi del complesso, fossero realizzate in membrana (pergamena), linteae (su tela), chartaceae (su papiro). Inoltre è assai probabile che documentazione simile fosse conservata nella Curia del Senato e nell’aerarium Saturni o tesoro di Stato e più tardi nel fisco imperiale alla annona. Sempre a tale epoca, risalgono il caso del tempio di Mater Matuta del Foro Olitorio, in cui compariva una mappa della Sardegna datata al 174 a.C.20. Simile era il caso del tempio di Tellus presso le Carinae
E’ probabile che la riorganizzazione augustea di Roma, che passa dalla suddivisione arcaica, basata motivazioni sacrali, articolata sulle le quattro tribù «primigenie», Suburana, Esquilina, Collina e Palatina, con asse Nord-Sud e con il centro geometrico sulla Velia, forse per la presenza sul colle del tempio dei Lares populi Romani, a quella razionale e matematica, ispirata alle esperienze ellenistiche, con le quattordici regioni, elencate in senso antiorario, con un centro geometrico collocato sul Capitolium e con il Sud-Est in alto. Convezioni, queste, che indipendentemente dalla probabile esistenza di una Forma Urbis risalente alla prima età imperiale, sono adottate anche da quella Severiana.
La documentazione catastale relativa alle province, invece, comincia con l’amministrazione imperiale, ma questo non vuol dire che prima non esistessero archivi locali: un’iscrizione dell’anno 68 d.C., risalente, quindi al breve regno di Galba, ci informa che documenti del genere si conservavano in un «santuario del Cesare» o «del Principe», da localizzare nell’ambito del palazzo imperiale del Palatino, secondo Nicolet
Essi erano costituiti dai due elementi distinti: una mappa, o forma, e la relativa leggenda didascalica, o lex. Qualche volta, delle mappe abbiamo delle monumentali versioni marmoree, come gli esemplari del catasto di Orange (Arausium), in Francia, o versioni in bronzo, purtroppo molto frammentarie. Per quanto riguarda la leggenda, è interessante la scoperta, avvenuta recentemente nella provincia di Zamora, in Spagna, di un frammento bronzeo relativo ad una divisio agri et finium nella quale il modo stesso della descrizione mostra chiaramente che una mappa doveva accompagnarsi al testo…
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