Come tradizione, in questi giorni leggo in giro parecchi post e commenti che legano tra loro Saturnalia, Solstizio d’Inverno, Sol Invictus e Natale, come se fosse la cosa più lineare del mondo; in realtà a causa del bislacco e conflittuale rapporto che i Romani avevano con il calendario, le cose sono assai meno semplici di quanto appaiano a prima vista.
Ai tempi del Septimontium, la federazione protourbana di pagi, villaggi, che dalla seconda metà del IX secolo a.C. precede il sinecismo che porta alla nascita di Roma, era in vigore un peculiare calendario, che gli annalisti, per sottolinearne l’antichità, attribuiva a Romolo.
Tale calendario, secondo quanto raccontano Ovidio e Macrobio, aveva come primo mese Marzo, nel cui primo giorno si attizzava il fuoco sacro dedicato a Vesta, che forse simboleggiava il rinnovo del foedus che univa i vari villaggi, e terminava a Dicembre.
Di fatto era così articolato
Martius (31 giorni)
Aprilis (30 giorni)
Maius (31 giorni)
Iunius (30 giorni)
Quintilis (31 giorni)
Sextilis (30 giorni)
September (30 giorni)
October (31 giorni)
November (30 giorni)
December (30 giorni)
Con una durata complessiva di 304 giorni. Un calendario, a prima vista fatto apposta per fare venire l’esaurimento a tutti gli studiosi e gli eruditi: da una parte, non rispetta, come evidenziava Macrobio, le caratteristiche specifiche di un calendario lunare, dato che questo dura 354 giorni e ha mesi, detti siderali, di 29.5 giorni. Ancora più labile è il legame con l’anno solare, con i suoi 365 giorni. Gli eruditi latini, consapevoli di tale stranezza, arrivano a ipotizzare che esistessero ben 61 giorni extracalendariali, in cui il tempo non veniva misurato.
Il che, nonostante i prisci latini fossero strani assai, è un’idea parecchio campata in aria: negli ultimi anni, però, alcuni studiosi si sono resi conti due particolari interessanti. Il primo è che tra l’anno romuleo e quello lunare vi fosse un rapporto di 7 a 6, ossia sette anni romulei coincidevano, come numero di giorni, con una piccola approssimazione, a sei anni lunari. Per cui, ogni sette anni romulei, vi era un riallineamento tra i due calendari.
Di conseguenza, è possibile che l’anno romuleo fosse parte di un ciclo più ampio, di 7 anni, che doveva rispecchiare delle motivazioni politico religiose di cui si è persa memoria. Questo spiegherebbe il perché, nel calendario latino, vi fosse una duplicazione delle feste, a febbraio e dicembre legate alla purificazione del Tempo e al passaggio tra il nuovo e vecchio anno: probabilmente alcune erano connesse all’anno romuleo, mentre altre erano legate al ciclo di 7 anni.
Il secondo è legato al cosiddetto ciclo nundinale; i romani del periodo regio e repubblicano adottavano una settimana di otto giorni, i quali erano contrassegnati con le lettere dalla A alla H. Dato che l’anno iniziava sempre con la lettera “A”, ogni data era sempre contraddistinta dalla stessa lettera.
Tale settimana veniva chiamata ciclo nundinale ed era cadenzata dai giorni di mercato, che si svolgevano ogni otto giorni. Essi erano le cosiddette nùndine (dal lat. nundinae, composto da novem nove e dies giorno,) da cui l’aggettivo nundinale per scandire la periodicità settimanale di “nove giorni” (dovuta al conteggio tutto incluso dei Romani, laddove oggi diremmo periodicità di otto giorni). Nell’anno romuleo, vi sono esattamente 38 nùndine.
Per cui i giorni di mercato, in cui i membri dei pagi, i mercanti provenienti da fuori e le genti del suburbio si scambiavano i beni, i giorni fasti e nefasti erano rigidamente regolati e ancorati a un ciclo predeterminato, che si ripeteva uguale in ogni anno romuleo. Ora questo calendario aveva due specifiche peculiarità: la prima, la totale indipendenza delle feste dagli eventi astronomici dell’anno solare. Ad esempio, a seconda dell’anno romuleo, i Saturnalia potevano anche capitare nei pressi del solstizio d’estate o degli equinozi; per cui, il loro significato sacrale era di fatto indipendente da questi fenomeni.
Il secondo, la sua totale inutilità pratica in relazione alle attività concrete della pastorizia e dell’agricoltura: insomma, essendo slegato dal ciclo delle stagioni astronomiche, non dava indicazioni utili su quando seminare o fare la transumanza delle pecore; di conseguenza, alcuni studiosi hanno ipotizzato l’esistenza di un secondo calendario, basato su eventi celesti, di cui si è persa memoria: alcune indicazioni potrebbero essere rimaste nelle numerose attestazioni che rimangono nei poeti e negli trattatisti latini sull’utilizzare le stelle per individuare i periodi di pioggia o di semina.
Per esempio, quando Virgilio afferma nell’Eneide che, con il suo tramonto acronico in novembre, il Orione annunciava un periodo di pioggia, nell’utilizzo delle Pleiadi per individuare l’inizio o la fine dei lavori agricoli, della levata eliaca del Cane Maggiore per indicare il periodo in cui la vegetazione seccava o del tramonto acronico della Lira per individuare il termine delle attività agricole estive.
Con l’evolversi della vita urbana, i problemi legati a tali peculiarità calendariale si manifestarono in pieno: anche per la non perfetta coincidenza del ciclo dei sette anni romulei, che durava 2128 giorni, con i sei anni lunari, che invece comprendevano 2124 giorni, fu decisa la trasformazione, da una figura che la tradizione identifica con Numa Pompilio, del calendario romuleo in un calendario lunare puro, basato su 12 mesi, per un totale complessivo di 355 giorni, aggiungendo i mesi di gennaio e febbraio ai dieci preesistenti. Complessivamente, egli aggiunse 51 giorni ai 304 del calendario di Romolo,
ma, togliendo un giorno da ciascuno dei sei mesi che ne avevano 30 (facendoli così diventare dispari), portò a 57 giorni il totale di quelli che i mesi di gennaio e febbraio dovevano spartirsi. A gennaio vennero assegnati 29 giorni e a febbraio 28. Degli undici mesi con un numero dispari di giorni, quattro ne avevano 31 e sette ne avevano 29. Poiché i numeri pari erano ritenuti sfortunati,febbraio fu considerato adatto come mese di purificazione. Esso fu diviso in due parti, ciascuna con un numero dispari di giorni: la prima parte finiva il giorno 23 con la Terminalia, considerata la fine dell’anno
religioso, mentre i restanti cinque giorni formavano la seconda parte. Tale modifica fu probabilmente realizzata in anno in cui il ciclo romuleo e quello lunare coincidevano
Secondo Macrobio e Plutarco, il calendario numano era così articolato
Ianuarius (29)
Februarius (28)
Martius (31)
Aprilis (29)
Maius (31)
Iunius (29)
Quintilis (31)
Sextilis (29)
September (29)
October (31)
November (29)
December (29)
Tuttavia, vi è una singolare divergenza delle fonti: Ovidio, nei fasti cita un ordine differente: Ianuarius, Martius, Aprilis, Maius, Iunius, Quintilis, Sextilis, September, October, November, December, in fine Febrarius (posto in fondo poiché doveva valere come purificazione prima dell’inizio dell’anno). Il che ha fatto scatenare una ridda di discussioni tra gli studiosi: nulla vieta che nei primi secoli della vita di Roma, questo calendario lunare possa avere avuto delle modifiche e le fonti possano fare riferimento a diversi momenti della sua evoluzione. Sappiamo però che nel 449 a.C Febrarius venne posto dopo Ianuarius e che soltanto nel 153 a. C. si pose il capodanno al primo di Ianuarius.
E’ probabile che con la riforma numana, fossero fissati come punti di riferimento del mese le Calende, coincidenti con la luna nuova, le Nonae, con il primo quarto e le Idi, con il plenilunio. Ora in questo calendario lunare, che senza dubbio più utile per pastori e agricoltori del precedente, manteneva, come l’attuale calendario islamico, l’indipendenza delle festività dagli eventi dell’anno solare; per cui, anche in questo caso, i Saturnalia erano slegati dal Solstizio d’Inverno.
Le cose cambiarono ulteriormente quando avvenne la conquista etrusca di Roma: questi avevano una religione in cui il rapporto con il divino era fondata sul timore (in latino metus). L’individuo, nella concezione etrusca, era in un rapporto di totale sottomissione di fronte alla volontà degli dei, che poteva solamente comprendere e subire. Erano gli dei, infatti, a stabilire il destino degli uomini (e anche quello degli Stati). Unica opportunità concessa agli uomini era quella di scrutare e prevedere anticipatamente il destino attraverso l’individuazione e l’analisi dei segni che gli dei mandavano
periodicamente sulla terra; era inoltre possibile tentare di alterare in minima misura il destino compiendo atti idonei a compiacere le divinità
Ora, l’avere delle feste totalmente slegate dall’ordine cosmico stabilità dall’anno solare, rendeva assai probabile sbagliare il momento più idoneo per eseguire i riti adatti a soddisfare la volontà degli dei. Per cui, ai tempi dei Tarquini si passò a un calendario lunisolare, in cui un calendario lunare, in cui la durata media dell’anno lunare è uguale a un anno solare. Ciò è ottenuto introducendo con una certa periodicità un mese aggiuntivo, che compensa le loro differenti durate.
Nel caso specifico dei romani, tale mese era il Mercedonio, inserito al termine della prima parte di febbraio (la cui durata quindi restava di 23 giorni). I 22 giorni inseriti a cui venivano aggiunti i 5 giorni della seconda parte di febbraio componevano un mercedonio di 27 giorni: le sue none cadevano il quinto giorno e le idi il tredicesimo giorno. In questo modo, non si verificavano cambiamenti nelle date e nelle festività. L’anno intercalare, con l’aggiunta del mercedonio, risultava di 377 o 378 giorni, a seconda che esso iniziasse il giorno dopo o due giorni dopo la Terminalia.
La decisione di inserire il mese intercalare spettava al pontefice massimo e in genere veniva inserito ad anni alterni. Inizialmente il mese intercalare era inserito con lo schema: anno normale, anno con mercedonio di 22 giorni, anno normale, anno con mercedonio di 23 e così via. Successivamente per correggere lo sfasamento della corrispondenza tra mesi e stagioni dovuta all’eccesso di un giorno dell’anno medio romano sull’anno solare, l’inserimento del mese intercalare fu modificato secondo lo schema: anno normale, anno con mercedonio di 22 giorni, anno normale, anno con mercedonio di 23 e così via per i primi 16 anni di un ciclo di 24.Negli ultimi 8 anni l’intercalazione avveniva solo con mese mercedonio da 22 giorni, tranne l’ultima intercalazione che non avveniva: anno da 355, anno da 377, anno da 355, anno da 377, anno da 355, anno da 377, anno da 355, anno da 355. Il risultato di questo schema ventiquattrennale, alquanto complicato, era però di una grande precisione per l’epoca:
365,25 giorni.
Anche in questo caso, come nel nostro calendario ebraico e cinese, le festività erano slegate dagli eventi astronomici dell’anno solare; però, come la nostra Pasqua, l’intervallo di variabilità era assai più ridotto. I Saturnalia ad esempio, variavano tra la fine del nostro novembre e l’inizio del nostro gennaio
Questo in teoria. In pratica, i Pontefici Massimi non erano assai scrupolosi nell’applicare tale ciclo, aggiungendo il Mercedonio a capocchiam; da ciò ne conseguì, nel corso dei secoli, un sempre più crescente sfasamento della corrispondenza tra mesi e stagioni, tanto che all’epoca di Giulio Cesare (I secolo a.C.) i mesi che avrebbero dovuto corrispondere all’inverno cadevano in realtà in autunno. Lo stesso Cesare, una volta rivestita la carica di pontefice massimo, volle porre rimedio allo sfasamento che si era nel frattempo creato, e nel 47 a.C. incaricò un astronomo alessandrino, Sosigene, di
riformare il calendario romano. Sosigene, per correggere lo sfasamento di ben 67 giorni creatosi nel corso dei secoli a causa dell’arbitrio dei pontefici massimi, propose di aggiungere, oltre alla già prevista intercalazione di 23 giorni, due ulteriori mesi all’anno 46 a.C., che dunque fu eccezionalmente di ben 15 mesi (corrispondenti a 456 giorni). Secondo Svetonio, infatti
Rivòltosi poi a riordinare lo Stato, riformò il calendario, che già da tempo, per colpa dei pontefici – mediante l’abuso di inserire giorni intercalari – era talmente scompigliato, che il tempo della mietitura non cadeva più in estate e quello della vendemmia non più in autunno. Regolò l’anno sul corso del sole: esso fu di trecentosessantacinque giorni, e, eliminato il mese intercalare, si inserì un giorno ogni quattro anni. E perché in avvenire, a partire dalle successive Calende di gennaio, il conteggio del tempo fosse più preciso, tra novembre e dicembre inserì altri due mesi; con ciò, l’anno in cui si fissavano queste innovazioni fu di quindici mesi, compreso quello intercalare che, secondo la vecchia norma, era caduto in quell’anno.
In più, per evitare che si riproponesse anche in futuro tale caos, sempre al buon Sosigene l’incarico di definire un calendario solare, il calendario giuliano: con la sua adozione, i Saturnalia furono ancorati al Solstizio d’Inverno, mantenendo però la connotazione sacrale arcaica, legata alla dialettica tra Natura e Cultura e alla liberazione dalla schiavitù del Divenire. Nello specifico, a fissarne definitivamente il periodo di festeggiamenti e la sua durata, compresa tra il 17 e il 23 dicembre, fu Domiziano.
Ora, con la diffusione nel II secolo dell’Apocalisse di Giovanni, qualche intellettuale cristiano romano, affascinato dal ruolo soterologico del Cristo e dal suo essere Signore dell’Alfa e dell’Omega, origine e fine del Tempo, lo contrappose a Saturno; per cui fissò arbitrariamente la celebrazione della nascita di Gesù, che nel resto dell’impero era celebrato in momenti differenti dell’Anno, nei pressi del solstizio d’Inverno.
E’ probabile dalla testimonianza del 204 di Ippolito Romano, grande intellettuale dal pessimo carattere, tanto da essere stato il primo antipapa della storia, in perenne lite, e come dargli torto, con papa Callisto, visti i suoi precedenti come truffatore, la data fosse celebrata il 25 dicembre, per evitare sovrapposizioni con la festa rivale. Problema simile lo ebbe Aureliano, il quale, per accentuare la dimensione sacrale e carismatica del potere imperiale, considerandolo come emanazione dell’Ordine cosmico e detentore di un mandato celeste, riprendendo l’intuizione di Eliogabalo, si inventò il culto
del Sol Invictus, la cui celebrazione, per rispetto delle feste tradizionali, fu sempre piazzata il 25 dicembre, che era nel calendario pagano, il primo giorno libero utile.
Per cui la coincidenza tra le date è frutto di una causalità: ragionando in termini ucronici, se Domiziano avesse fissato i Saturnalia i primi di dicembre, come poteva accadere prima della riforma di Giulio Cesare, avremmo avuto un Natale il 10 dicembre e un Sol Invictus il 21.
Tuttavia. Aureliano ha dato comunque un contributo importante alla questione Natale: oltre ad essere convinto sostenitori della pax deorum, sia per motivi pratici, l’Impero aveva già troppi problemi di suo, che non era il caso di complicarli con controversie religiose, sia per motivi filosofici, probabilmente, come i Severi, riteneva i vari culti misterici come adorazioni dei diversi aspetti del Sol Invictus, e quindi tollerante con i cristiani, riconosceva un ruolo politico e sociale della Chiesa, anche perché il suo patrimonio, all’epoca, cominciava ad essere tutt’altro che trascurabile
Si colloca infatti nel suo regno l’episodio che riguarda il vescovo di Antiochia Paolo di Samosata, che considerava il suo ministero come una professione lucrosa e lo esercitava con metodi più consoni ad un magistrato imperiale che ad un vescovo, senza trascurare una condotta libertina. Lo scandalo destato dalla gestione del suo ufficio non scosse tanto la Chiesa ufficiale quanto le sue eretiche convinzioni in merito alla Trinità.
Venne destituito da due concili ma riuscì a rimanere al suo posto finché, temendo che la questione sfociasse in disordini, dovette intervenire lo stesso imperatore. Lungi dall’addentrarsi in questioni teologiche e in giudizi sull’ortodossia, delegò il giudizio ai vescovi italici, giudicati i più imparziali e rispettabili, e diede immediatamente esecuzione al loro giudizio di condanna di Paolo, costringendolo ad abbandonare la sua sede e ponendo un successore al suo posto.
In più decretò che qualsiasi sede vescovile avrebbe dovuto essere assegnata a chi fosse stato designato dal vescovo di Roma, imponendo di fatto il Primato di Pietro, all’epoca ancora in corso di definizione e di fatto dando il via all’adozione del calendario ecclesiastico dell’Urbe alle altre chiese dell’Impero, con il Natale fissato il 25 dicembre.
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