L’oratorio di San Lorenzo

Corsi a quell’oratorio in via Immacolatella, proprio dietro la chiesa del convento mio. Entrai: mi parve d’entrare in paradiso. Torno torno alle pareti, in cielo, sull’altare, eran stucchi finemente modellati, fasce, riquadri, statue, cornici, d’un color bianchissimo di latte, e qua e là incastri d’oro zecchino stralucente, festoni, cartigli, fiori e fogliame, cornucopie, fiamme, conchiglie, croci, raggiere, pennacchi, nappe, cordoncini… Eran nicchie con scene della vita dei santi Lorenzo e Francesco, e angeli gioiosi, infanti ignudi e tondi, che caracollavan su per nuvole, cortine e cascate, a volute, a torciglioni. Ma più grandi e più evidenti eran statue di donne che venivano innanti sopra mensolette, dame vaghissime, nobili signore, in positure di grazia o imperiose. Ero abbagliato, anche per un raggio di sole che, da una finestra, colpendo la gran ninfa di cristallo, venia ad investirmi sulla faccia.

Così Vincenzo Consolo descrive l’emozione che si prova dinanzi a uno dei luoghi più affascinanti di Palermo, l’Oratorio di San Lorenzo; fascino che ha sedotto decine di artisti e intellettuali, dal teorico del Neoclassicismo Léon Dufourny, la cui sensibilità era la più lontana possibile da quella rococò, all’Argan. Oratorio che ha una lunga storia: nel 1200, mentre sulla città si alternavano dominazioni diverse (dagli Svevi agli Angioini,agli Aragonesi), l’Ordine dei Francescani, dopo una serie di pesanti vicende che videro i frati scacciati dalla Sicilia per ben due volte, prese possesso di quello che rimarrà
il suo più importante insediamento urbano nella contrata que dicitur ruga de Meneu; nome misterioso, che però sembra riferirsi alla misteriosa torre del Maniace, forse un residue delle vecchie fortificazione islamiche della Kalsa.

Così, tra il 1255 e il 1277, i francescani edificarono la chiesa dedicata al santo d’Assisi e il loro convento, nei cui pressi, venne edificata nel XIV una cappella dedicata a San Lorenzo, appartenuta alla famiglia dei Bologna, gli stessi di Palazzo Alliata, ceduta al Padre Guardiano del Convento di San Francesco da un componente della amiglia,Nicolò,nel 1554.

Nel 1564 i mercanti genovesi che risiedevano a Palermo fondarono la loro confraternita, sia per fungere da associazione di categoria, sia motivi benefici: in particolare, il suo compito era di provvedere alla sepoltura dei poveri che abitavano nella Kalsa. Tale confraternita, detta dei Bardigli per il colore turchino degli abiti, aveva inizialmente come sede la chiesa di San Nicolò la Carruba; il problema che questa antica chiesa, di rito bizantino cattolico e frequentata dai greci che risiedevano a Palermo, era soggetta a grandi lavori di ristrutturazione, per cui non era comodo, per i mercanti genovesi, svolgere le loro assemblee tra i muratori e gli operai.

Inoltre, con la scusa del fatto che la chiesa era di fatto la sede sociale della confraternita, i rettori della chiesa volevano affibbiare una parte dei lavori di ristrutturazione ai mercanti genovesi. Dinanzi a tale prospettiva, nel 1569 chiesero ospitalità ai francescani, i qual accettarono, in cambio del porre la confraternita sotto la protezione del santo di Assisi, da quel momento in poi si chiamerà Compagnia di san Francesco e della ristrutturazione della cappella di San Lorenzo, che divenne così un oratorio.

caravaggio-nativita-con-i-santi-lorenzo-e-francesco

Il primo problema che i nostri eroi si posero, fu quello di rimediare un’opportuna pala d’altare, che per i casi della vita, fu la Natività con i santi Lorenzo e Francesco del Caravaggio. Per secoli, il dipinto è stato considerato come frutto del soggiorno siciliano dell’artista, avvenuto tra 1608 e il 1609; di un presunto soggiorno palermitano ne parlano sia Giovanni Baglione, prima sia Giovan Pietro Bellori. Dagli anni Venti, in poi, però questa convinzione è stata rimessa in discussione, per una serie di motivi: non quadrano le tempistiche, mancano prove concrete di tale presenza, cosa difficile a spiegarsi perché,
diciamola tutta, Caravaggio non passava certo inosservato e perché, dal punto di vista stilistico, l’opera era assai più vicina alle opere del primo periodo romano, rispetto a quelle dipinte in Sicilia.

Nel 1982, Alfred Moir si accorse della somiglianza tra le dimensioni della Natività e quelle menzionate nel contratto che Caravaggio stipulò il 5 aprile 1600 a Roma con il mercante senese Fabio Nuti, in cuo il pittore si impegnava un’opera cum figuris, di 12 palmi d’altezza per 7 o 8 di larghezza. Se fosse stato così, la Natività sarebbe stata la prima pala d’altare commissionata a Caravaggio, però rimaneva il problema di capire come fosse potuta finire a Palermo.

Mistero risolto nel 2012 da Giovanni Mendola: si tratta di una lettera di cambio, risalente al marzo del 1601, che attesta una transazione finanziaria tra Fabio Nuti (del quale erano già noti i rapporti commerciali con l’Italia meridionale) e Cesare de Avosta, uno dei confrati della Compagnia di San Francesco, probabilmente legata all’acquisto del quadro.

Quadro, quella della Natività, rubato nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 e che prima o poi salterà fuori, è un presepe di tradizione controriformistica, in cui il soggetto non fa riferimento a un evento storico, da rappresentare filologicamente, ma a una sacra rappresentazione, un dramma sacro teatrale, in cui l’obiettivo non è la verosimiglianza, ma commuovere e rafforzare la fede del fedele, in cui il gruppo dei tre personaggi principali, ovvero Gesù Bambino, la Madonna e san Giuseppe, appare leggermente spostato sulla destra.

Fulcro della narrazione, com’è lecito aspettarsi, è il piccolo Gesù che, posto al centro della composizione, poggiato nudo su un misero pagliericcio, non brilla più di luce propria, come accadeva a molti suoi omologhi che popolavano le Natività contemporanee, ma secondo una precisa scelta stilistica di Caravaggio, è colpito dalla fonte luminosa a sinistra che taglia in due la sua figura illuminandone il volto e le spalle e lasciando nella penombra il resto del corpo. Fonte luminosa che è legata sia a un motivo tecnico, l’utilizzo della camera ottica, sia per indicare l’irruzione del divino nel Mondo.

La stessa luce irradia il volto di Maria: è una bellissima popolana dai capelli castani, dalle sottili sopracciglia scure e dal volto affilato, presa a contemplare suo figlio. La modella, che è a stessa di Giuditta e Oloferne, Marta e Maddalena, Santa Caterina d’Alessandria, è Fillide Melandroni, senese, prostituta e amante di Caravaggio; il pittore, tra l’altro, sviluppò un odio patologico per il suo protettore, Ranuccio Tomassoni, tanto da assassinarlo al campo della pallacorda nel 1606, eventò che provocò il suo esilio da Roma.

San Giuseppe è raffigurato, con una scelta iconografica molto originale, di spalle, come se, ponendo il santo nella posizione di chi osserva il dipinto, il pittore avesse voluto coinvolgere direttamente noi che guardiamo: sensazione che nel Seicento era accentuata dal fatto che è vestito con abiti di quell’epoca. Vediamo la nuca coperta dai capelli bianchi e il corpo che compie una torsione per rivolgersi a San Giacomo, rappresentato nelle vesti di un pellegrino, citazione del Giubileo celebrato nel 1600 a Roma.

San Giuseppe, con la mano destra, sta compiendo un cenno, come a voler invitare l’uomo ad adorare suo figlio. In tale attività risultano già impegnati san Lorenzo, vestito con una ricca dalmatica e che tiene in mano la graticola sulla quale, secondo la tradizione, sarebbe stato martirizzato, a sinistra, e san Francesco, a destra, il primo santo titolare dell’oratorio a cui era destinato il dipinto, il secondo santo eponimo della compagnia che, come anticipato, presso l’oratorio palermitano aveva sede, rappresentato come un frate conventuale della fine del XVI secolo.

La scena si svolge all’interno di una capanna coperta da un tetto di paglia ed è bilanciata, sulla sinistra, dall’angelo che sopraggiunge tenendo il cartiglio arrotolato al braccio sinistro, lo stesso che apparirà nella seconda versione di San Matteo e l’Angelo nella Cappella Contarelli, Tra l’altro, i legami tra la cappella di San Luigi dei Francesi e l’opera palermitana sono assai stretti: impressionante poi la somiglianza, notata da Michele Cuppone, tra la figura di san Giuseppe e quella del soldato che appare nel Miracolo di san Matteo che resuscita il figlio del re di Etiopia, uno degli affreschi che il Cavalier
d’Arpino (Giuseppe Cesari, Arpino, 1568 – Roma, 1640) eseguì nella Cappella Contarelli prima che il lavoro passasse al più giovane artista milanese: la posa dei due personaggi è praticamente identica. Similitudini accomunano poi il profilo di san Lorenzo all’uomo che, nella Vocazione di san Matteo, vediamo a sinistra, chino sul tavolo, colto nell’atto di contare le monete.

Nel 1699, poi i confratelli decisero di rimodernare ulteriormente la loro sede sociale; per cui, per la ristrutturazione architettonica si rivolsero a Giacomo Amato, architetto che da giovane aveva lavorato a Roma con Rainaldi, che essendo un religioso dell’ordine dei Camilliani, quelli degli ospedali, per capirci, aveva tariffe inferiori alla media del mercato e a Giacomo Serpotta per la decorazione. La scelta del Serpotta era legata, oltre al fatto che all’epoca fungeva da status symbol, sia alla necessità di risparmiare su materiali, utilizzando lo stucco invece che il marmo, sia, essendo l’artista a capo di una
numerosa bottega, per comprimere quanto possibile i tempi di realizzazione.

Ora il buon Serpotta, nell’oratorio di San Lorenzo, si trovò a confrontarsi con una serie di vincoli sfidanti: se per nei precedenti oratori, come Santa Cita e San Mercuzio, il vincolo architettonico da rispettare era legato solo alla presenza delle finestre, che sfruttò come fulcro della decorazione, rendendoli simili chiodo a cui sia appeso un quadro, qui si trovò invece davanti a una rigorosa ripartizione dello spazio architettonico, scandito da paraste corinzie che si chiudevano in un architrave continuo.

In più doveva tenere conto della presenza del quadro, che doveva essere valorizzato e di cui si doveva realizzare, nella controfacciata, un elemento con cui potesse realizzare. Infine, nella decorazione si doveva opportunamente onorare sia San Francesco, sia San Lorenzo.

Per cui, il modulo serpottiano, consistente nelle statue delle Virtù che inquadrano una finestra, decorata con puttini e che sovrasta un teatrino con una scena sacra, fu racchiuso in una sorta di gabbia geometrica, per farlo dialogare con il telaio architettonico: se la decorazione risultò meno spumeggiante, si guadagnò in rigore e unità visiva. Per celebrare entrambi i santi, Serpotta realizzò i seguenti «Teatrini»:

  • San Lorenzo dona i beni della Chiesa ai poveri, San Lorenzo e Papa Sisto II, Spoliazione di San Lorenzo prima del martirio, Ultima preghiera.
  • La tentazione di Francesco, San Francesco veste un povero, La preghiera del Santo al Sultano o L’incontro a Damietta, San Francesco riceve le stimmate.

Inquadrati  tutto  dalle statue allegoriche dell’Umiltà, Gloria, Accoglienza, Penitenza, Costanza, Misericordia, Carità, Elemosina, Verità, Fede.

Lato abside, invece Serpotta assecondò le soluzioni architettoniche pensate da Amato, basata su un sistema di porte ed affacci su tre livelli (porta trabeata – serliana – semiarco) che amplifica sia lo spazio virtuale creato da Caravaggio nel quadro, sia la sua illuminazione, realizzando un magnifico arco trionfale,sormontato dalla statua di San Francesco regge il cordiglio dell’Ordine. Infine, come controcanto al quadro, sulla controfacciata realizzò un grande altorilievo con San Lorenzo subisce il martirio sulla graticola, accentuato da un disegno tutto settecentesco realizzato da sovrapposizioni continue degli elementi, paraste seminascoste, capitelli fantasiosi e decorazioni inusuali.

Terminata la ristrutturazione nel 1707, bisognava affrescare la volta; l’incarico fu affidato nel 1728 al fiammingo Guglielmo Borremans, che andava per la maggiore nella Palermo dell’epoca e che aveva giù avuto a che fare con gli oratori serpottiani., che dipinse la scena raffigurante Giacobbe impartisce la benedizione ai figli. Nel 1738, infine, furono realizzati dal marmoraro Antonio Rizzo sia lo splendido pavimento, che presenta al centro una lastra di marmo decorata con una palma sormontata da una corona a cinque punte e la graticola simbolo del Martirio di San Lorenzo, sia gli arredi d’ebano intarsiati d’avorio e madreperla.

Le ultime modifiche avvennero nel 1806, quando lo sterro della strada, per motivi di traffico, di fatto portarono le due porte ,che un tempo consentivano l’accesso all’edificioa circa un metro e mezzo dal piano di calpestio, portando all’attuale situazione, in cui si entra da una porticina laterale, che forse, creando una sorta di effetto sorpresa, accentua l’emozione del trovarsi davanti l’opera del Serpotta…

4 pensieri su “L’oratorio di San Lorenzo

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