Il vicus di Molina Aterno

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Il fascino dell’Abruzzo è legato al fatto che, nei luoghi più impensati, saltano fuori tracce di un passato inaspettato. Un esempio, è il Molina Aterno, un paesino, con meno di quattrocento abitanti, in provincia dell’Aquila, il cui nome deriva dal tardo latino molina, con il significato di molino in quanto la zona ne è particolarmente provvista. La seconda parte del nome è stata aggiunta nel 30 giugno 1889 e si riferisce al passaggio del fiume Aterno.

La presenza umana nel suo territorio sin dalla tarda età del bronzo è provata dalla presenza delle cinte murarie megalitiche di Mandra Murata, sulla montagna ad est di Molina, e di Colle Castellano, testimonianze della civiltà appennica. Cinte megalitiche che servivano sia al controllo dei tratturi, sia come rifugio per le greggi e luogo di tosatura e produzioni di formaggi.

Presenza umana che continuò nel tempo, come testimoniato dal rinvenimento nel territorio di buccheri italici risalenti al VI secolo a.C. , tombe, mura e mosaici, capitelli ed epigrafi romane. Uno scavo archeologico del 1877 presso la stazione ferroviaria restituì un cippo con dedica ad Ercole, risalente al I secolo a.C., particolarmente venerato in zona come protettore dei pastori.

Nella contrada chiamata Campo Valentino e nella contrada Pretoli, intorno al lago Acquaviva, già nel secolo scorso si scoprivano regolarmente mura, tombe, mosaici, sepolcri, capitelli, una statua priva di testa, una grande idria di creta finissima (ora conservata nel palazzo dei signori Pietropaoli) ed ancora: ceramiche, rocchi di colonne, monete e alcune iscrizioni, di cui parlerò poi.

Negli ultimi anni, questi scavi, che erano stati eseguiti senza particolare interesse scientifico, ma solo per raccattare materiale da vendere a collezionisti, sono stati ripresi, portando alla scoperto di un vicus.

L’area scavata è attraversata da una strada, lungo la quale si distribuiscono numerosi ambienti che individuano zone con diversa destinazione d’uso. Sono state localizzate, infatti, aree residenziali, i cui ambienti hanno mura intonacati e pavimenti pregiati in mosaico e in cocciopesto. Zone pubbliche che, invece, sono delineate da grandi spazi aperti, in alcuni casi porticati, lungo i quali è collocata una struttura tripartita con ambiente centrale pavimentato a mosaico e ingresso incorniciato da due colonne, da interpretare come edificio sacro.

Di grande interesse è il quartiere destinato alle attività artigianali, contraddistinto contraddistinto da una complessa articolazione degli spazi interni e servito da un canale. L’insediamento sorse ed ebbe un fiorente sviluppo tra la fine del II° e il I° secolo a.C. per essere poi abbandonato a seguito di un terremoto, Dopo un periodo di abbandono, l’area vene utilizzata in età tardo antica sia a scopo abitativo e in alcuni casi l’articolazione interna dei vani venne modificata per esigenze di sepoltura, a scopo funerario, per essere poi abbandonato, a seguito delle invasioni barbariche.

Tuttavia è possibile come il vicus fosse a sua volta parte di una realtà urbana più ampia e articolata. A testimonianza di questo vi sono le iscrizioni, murate nel marciapiede di piazza S. Nicola, nelle quali si attestano le presenze dei seguenti amministratori pubblici: aediles, per la gestione dei lavori pubblici, duoviri, una versione locale dei consoli, e prefecti iure dicurldo, magistrati che dal pretore urbano erano delegati alla giurisdizione di città distanti dall’urbe dette praefecturae

 

 

 

I stigghiola

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Sempre parlando di cibo da strada palermitano, oggi è il turno de i stigghiola specialità, che, per i romani, utilizza la stessa materia prima dei nostri digiuni d’abbacchio, ossia la sezione centrale dell’intestino tenue.

In entrambi i casi, questa si cucina alla brace, ma con una differenza: a Palermo le interiora, dopo essere state lavate in acqua e sale e condite con cipolla e prezzemolo, vengono arrotolate attorno a un cipollotto di scalogno, in modo da formare una sorta di involtino. Questo le rende eredi di una lunga tradizione, risalente al mondo greco bizantino, che propone, in giro per il Mediterraneo, numerosi piatti simili, basati sulle interiora d’agnello.

In Grecia, abbiamo, il kokoretsi, una stigghiola extralarge, cucinata di solito nel periodo pasquale, in cui lo scalogno è sostituito da un ripieno di fegato, cuore e polmoni. In Turchia e nei Balcani vi è il kokorec, dove, i digiuni d’agnello, dopo essere cucinate arrotolate attorno a un lungo spiedo, viene tagliato a fette e in seguito a pezzettini, saltato con pomodori, peperoncino e peperone, insieme ad altre spezie.

In Sardegna, il kokoretsi assume il nome di sa trattalia ed esiste anche variante, realizzata con lo stomaco dell’agnello, la sa corda. Nel complesso mondo del Catepanato d’Italia, da Gaeta a Rhegion, si mangia un qualcosa di simile alle stigghiole, chiamati genericamente gnummareddi, benché la metodologia di cottura sia assai diversa.

Tornando alle nostre stigghiole, l’antichità di tale piatto è testimoniata anche dal nome, che deriva anche dal latino Extilia, che significa appunto intestino, budella.

Le bancarelle degli stigghiolari sono in piena attività soprattutto di pomeriggio, quando cominciano a preparare la griglia con la brace, in largo anticipo rispetto alla cottura del piatto. Ciò che attira praticamente tutti è il fumo che si leva alto, tanto da dare origine al detto locale

Cca in giru c’è u stigghiularu ca v’attira sulu sulu c’u ciavuru senza bisuognu r’abbanniari!

ossia, in Italiano

Qui vicino c’è un venditore ambulante di stigghiole che senza bisogno di dire nulla ti attrae col solo profumo

I stigghiola sono protagoniste anche nella versione domestica delle arrustute (grigliate), tanto che il palermitano

s’ava addumari a rarigghia a prima cosa c’hannu a essiri i stigghiola va sinnó un c’avi piaciri

che tradotto da

se il palermitano deve accendere il braciere è meglio che ci siano anche le stigghiole se no non c’è piacere.

Essendo i stigghiole molto grasse, vanno mangiate caldissime, quindi, per evitare agli avventori lunghe e fastidiose attese davanti al rogo fumante, lo stigghiularu le cuoce parzialmente in anticipo e poi le sposte lateralmente sulla griglia in modo che si mantengano calde, senza però bruciare. Prima della consumazione, sono rimesse sulla brace per ultimare la cottura. Quindi vengono tagliate a piccoli pezzi e servite con una spolverata di sale e del limone spremuto sopra.

Dopo tutte queste chiacchiare, però, è il caso di tornare al dunque: dove si possono mangiare buone stigghiole a Palermo ? I migliori stigghiulari si possono trovare di fronte al mercato ittico, in piazza Kalsa, in viale Regione sotto il ponte vicino ai Pagliarelli, in via Ernesto Basile Alta, nella corsia che scende verso il centro (zona università), in via Altofonte e a Brancaccio, nella zona industriale.

Insomma, fuori dai soliti giri turistici, però, insomma, la fatica per trovarli viene abbondantemente ricompensata…

Sul Tempo e sul Decoro

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Dal punto di vista marxista, l’evoluzione tecnologica pone un grosso problema al sistema capitalista: aumentando la produttività per singolo lavoratore, permette alle imprese di ottenere un volume maggiore di merci, lasciandone però invariato il valore.

In teoria, diminuendo il tempo necessario alla produzione della merce, aumenterebbe il plusvalore, ma il mercato, saturandosi con maggiore rapidità e imponendogli di conseguenza una riduzione del prezzo, affinché la merce non rimanga invenduta, compensa tale effetto.

Di conseguenza, il sistema capitalista si è inventato diverse soluzioni per compensare tale effetto: il più banale, è stata la creazione e la ricerca di nuovi mercati, per poi passare alla trasformazione della merce da bene durevole a bene transitorio, basti pensare all’obsolescenza programmata degli elettrodomestici o la feticizzazione tramite marketing, come quella indotta sugli smartphone e il sottoutilizzo della forza lavoro potenziale

Ciò, oltre a creare una fisiologica quota di disoccupazione, ha portato una sempre riduzione dell’orario di lavoro. Dato che però pone sempre il problema della riduzione del plusvalore, il sistema capitalista si è posto il problema di come utilizzare in qualche modo questo tempo libero, rendendolo economicamente produttivo: ciò ha causato la nascita della cosiddetta società dello spettacolo.

Fin qui, si è parlato di un modo di produzione, una struttura, tipica delle prime fasi dell’industrializzazione: ora, che si sta realizzando la singolarità tecnologica, il paradigma sta cambiando. Dal materiale si è passati al virtuale, dalla merce all’informazione, creando un’unico mercato liberato dai vincoli del tempo e dello spazio: sotto certi aspetti, ci stiamo avvicinando a una società del post lavoro, senza gli strumenti sociali e culturali utili per gestire al meglio tale transizione.

E in questo contesto, in cui la società dello spettacolo si è polverizzata, diventa primaria la questione della gestione del Tempo extra lavoro, affinché non diventi vuoto: tempo che può essere utilizzato per la propria crescita personale, all’ozio creativo, per compensare i limiti di un welfare sempre più inadeguato, il volontariato, oppure in qualche modo, come un strumento di oppressione delle marginalità, portando alla cosiddetta ideologia del decoro, un’ estetica idealista in grado di produrre nemici immaginari, nel senso che esso viene pensato e affrontato come pura immagine, senza giungere alle radici socio-economiche che portano alle situazioni cittadine limite. In

Un’ideologia che, in fondo, è l’elogio del conformismo. Scrive al riguardo Alessandro dal Lago:

Si comprende pertanto che il modello implicito e mai dichiarato di “conformità”, (nella teoria struttural-funzionalista, che ha dominato la scena sociologica per gran parte del Ventesimo secolo) ad altro non rimanda che all'”uomo in grigio”, l’abitante dei “suburbs”. Costui infatti è definito precisamente dal non cadere nella tentazione o nella pratica dei comportamenti devianti citati sopra. Non credo che sia necessario grande acume sociologico per scoprire che il cittadino conforme è quello che non partecipa ad alcun tipo di conflitto, non si mescola a culture marginali, alternative o antagoniste, non soffre di problemi personali, mentali o di comportamento, è insomma definito in tutto e per tutto da quello stile di vita che un certo cinema americano ha diffuso con successo fino all’avvento del fatale ’68 (di qua e di là dall’Oceano Atlantico). Un personaggio altrettanto irreale del protagonista di “Truman Show

Conformismo, che ad esempio, guardando con sospetto la potenza anarchica e eversiva dell’Arte, che si illude, mettendosi la coscienza a posto, pulendo un giardinetto o strappando un adesivo, ossia colpendone i sintomi superficiali, di curare i mali di una società.

Finalmente, a via Giolitti

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Come molti sanno, qualche tempo fa mi sono pubblicamente lamentato dell’inerzia da parte degli uffici preposti nel verificare le condizioni del portico di via Giolitti 225, che era stato soggetto a sequestro i primi di febbraio, a causa di possibili problemi di stabilità.

Sequestro, che ha impattato gravamente sulla vita di chi abita in quel palazzo, riducendo anche l’attività della scuola d’italiano de la Casa dei Diritti Sociali e complicando la vita al nostro buon Gaetano.

Per caso, che per effetto delle mie parole, nei giorni successivi questo benedetto sopralluogo è stato effettuato. La prima buona notizia è che il portico, grazie a Dio, non rischia di crollare sulla testa dei passanti. La seconda è che, da lunedì scorso sono cominciati i lavori di sistemazione e pulitura dell’area, che spero terminino entro questa settimana.

Dato che tutto è bene quello che finisce bene, a questo punto che si fa ? L’idea è che ad Aprile, in funzione della disponibilità di Mauro Sgarbi, santo subito, realizzeremo il nuovo murale dedicato a Gaetano. Quando sarà finito, per festeggiare la chiusura di una vicenda assurda, faremmo una bella sonata con Le danze di Piazza Vittorio…

Rimanendo in tema, continua la polemica sulla poster art all’Esquilino. Premesso che la cosa comica è chi più si riempie la bocca di rispetto delle regole, quando viene interrogato sul tema, sembra averne idee assai vaghe, tra un post e l’altro mi è venuto in mente come più di un anno fa, sulla facciata delle Viperesche, edificio ben più storico dei nostri Portici, un artista di Piazza Vittorio fece un intervento simile.

Nessuno all’epoca si stracciò le vesti. Perché non era un luogo di passaggio ? Per una sorta di razzismo nei confronti di chi vive fuori del Rione ? In realtà sospetto che la questione sia più complessa.

L’intervento dell’artista nostrano era più finalizzato a fornire uno spettacolo piacevole allo sguardo, che a fare riflettere. Per cui ha realizzato un’immagine neutra, dal contenuto rassicurante.

Ben altro fanno Pino Volpino e Collettivo Qwerty, che incidono quel bubbone di ipocrisia che nascondiamo dietro il concetto di decoro. Loro non sono sopportati non per quello che fanno, ma per ciò che comunicano…

Ambasciator non porta pena

 

Così, non si sa bene con quanto reale entusiasmo, Prisco si aggregò all’ambasciata, in cui, sin dall’inizio si rischiò un incidente, causato dalla linguaccia di Bigilas, che come ambasciatore era assai scarso , risolto poi da Massimino, che diede fondo alle sue risorse economiche

Allora, insieme con i barbari abbiamo,prendemmo la strada e raggiungemmo Sardica; un viaggio di tredici giorni da Costantinopoli per un uomo che cammini leggero. Una volta giunti pensammo bene di invitare Edeco, e i barbari che viaggiavano con lui, a cena. Subito dopo, gli abitanti ci diedero pecore e bovini, che abbiamo macellato e quindi preparato il pasto. Nel corso del pasto, così come i barbari elogiavano Attila e l’imperatore, Bigilas disse che non era opportuno confrontare un dio con un uomo, intendendo Attila in quanto uomo e Teodosio in quanto dio. Quindi gli Unni si irritarono, e man mano si scaldarono sempre più, fino ad infuriarsi. Ma noi abbiamo rivolto il discorso ad altre questioni, con aperture amichevoli, ed essi stessi così calmarono il loro spirito; dopo cena, come ci fummo separati, Massimino lusingò Edeco ed Oreste donando loro capi di seta e gemme indiane.”

Doni che pur evitando una poco piacevole rissa, provocarono le rimostranze di Oreste, a quanto pare roso dall’invidia sin da giovane, che chiese spiegazioni sul fatto che lui, romano, a Costantinopoli fosse stato trattato peggio del barbaro Edeco… Ovviamente Massimino e Prisco, ignari del complotto, si arrampicarono sugli specchi. Anche in questo caso, Bigilas mostrò il suo ehm straordinario tatto, che lo aveva  reso famoso tra romani e  barbari, causando uno dei suoi soliti casini

“In attesa della partenza di Edeco, Oreste disse a Massimino che lo riteneva saggio e più nobile, in quanto egli non aveva mai recato offese, come quelli alla corte imperiale. Infatti loro, disse, dopo aver invitato Edeco ad una festa senza che egli lo sapesse, lo avevano onorato con doni. Questo discorso non aveva senso per noi, perché non sapevamo nulla di ciò che è stato rivelato in precedenza; quindi se ne andò senza averci dato alcuna risposta, sebbene gli avessimo chiesto più volte come e quando egli fosse stato trascurato, ed Edeco fosse stato onorato. Il giorno successivo, mentre proseguivamo il viaggio, riferimmo a Bigilas quello che Oreste aveva detto a noi. Egli rispose che Oreste non sarebbe dovuto essere arrabbiato, solo perché non aveva ricevuto lo stesso trattamento di Edeco, perché egli era un servo e segretario di Attila; ma Edeco, al contrario, era un uomo rinomato in campo militare e, poiché era della razza degli Unni, veniva considerato di gran lunga superiore rispetto ad Oreste. Detto questo, e dopo aver conversato in privato con Edeco, ci riferì poi – ma non so se dicesse la verità o simulasse – che aveva riferito ad Oreste ciò che era stato detto, e solo con difficoltà lo aveva calmato, in quanto era molto contrariato per via di queste questioni”

Dopo una sosta nella malridotta Naissus, una dimostrazione di scarso senso dell’orientamento e la consapevolezza che Attila stava per scatenare una nuova guerra, i nostri eroi giunsero all’accampamento del khan degli Unni.

Giunti a Naissus trovammo la città priva di uomini, dal momento che era stata rasa al suolo dal nemico. Nelle chiese cristiane erano radunate molte persone colpite dalla malattia. Ci arrestammo in un luogo aperto, a breve distanza dal fiume, ed ogni luogo lungo la riva era piena di ossa di quelli uccisi in guerra; quindi giungemmo il giorno dopo presso Agintheus, il comandante delle forze in Illiria, non lontano da Naissus, per annunciare i comandi dell’imperatore e ricevere i fuggitivi. Doveva consegnarne cinque dei diciassette a proposito di cui era stato scritto ad Attila. Conversammo con lui e stabilimmo che avrebbe dovuto consegnare agli Unni i cinque fuggitivi, che inviò con noi, dopo averli trattati gentilmente.”

“Dopo aver passato la notte facemmo il viaggio dalle frontiere al Naissus verso il Danubio ed entrammo in una selva fittamente ombreggiata, in cui il percorso ha molte curve, torsioni e avvolgimenti. Qui, quando il giorno spuntò, il sole che sorge si presentò di fronte a noi, anche se avevamo avuto l’impressione di aver viaggiato verso ovest, con il risultato che coloro che ignoravano la topografia del paese si meravigliarono, supponendo che sicuramente il sole stava andando nella direzione opposta, e stava quindi preannunciando eventi strani e insoliti. Tutto questo a causa della irregolarità del luogo, per cui parte della strada rigira verso est.”

“Dopo questo tratto difficile, giungemmo in una pianura boscosa. I barbari traghettatori ci ricevettero in barche che essi stessi costruiscono, tagliando e scavando gli alberi, e ci traghettarono attraverso il fiume Danubio. Essi non avevano fatto tutti questi preparativi al meglio,ma in realtà eravamo stati ricevuti e traghettati da un gruppo di barbari che ci aveva ricevuto sulla strada, perché Attila era ansioso di attraversare al territorio romano, come per una battuta di caccia. Il re degli Sciti aveva avuto veramente l’intenzione di fare questo, come preparativo per la guerra, con il pretesto che tutti i fuggitivi non era stati riconsegnati.”

“Dopo aver attraversato il Danubio e proceduto con i barbari per circa 70 stadi, ovvero otto miglia, fummo costretti ad aspettare in un determinato luogo, in modo che Edeco e il suo seguito potessero recarsi ad Attila come araldi del nostro arrivo. I barbari che avevano agito come nostre guide rimasero con noi, e nel tardo pomeriggio, quando stavamo per consumare la nostra cena, udimmo il rumore dei cavalli venire verso di noi. Poi due Sciti apparvero e ci ordinarono con decisione di recarci da Attila. In primo luogo chiedemmo loro di rimanere a cena, e loro, scesi da cavallo, vennero trattati bene; poi, il giorno dopo ci guidarono nel nostro cammino.

Ovviamente, non potevano, vista la loro ignoranza sugli usi e costumi unni, i nostri eroi non causare un altro colossale casino, che avrebbe potuto mandare a peripatetiche tutto il viaggio

Verso l’ora nona del giorno, giungemmo alle tende di Attila e vedemmo che ve ne erano molte altre intorno; ma quando stavamo per piantare le nostre tende su una collina, i barbari che si erano uniti a noi ce lo impedirono, in quanto la tenda di Attila era su un terreno più basso. Ponemmo il campo dove sembrava meglio per gli Sciti, quindi Edeco, Oreste e Scottas, e altri uomini scelti scelti tra gli Unni, giunsero e ci chiesero cosa stavamo cercando di guadagnare facendo quell’ambasciata.

“Noi rimanemmo stupiti dalla richiesta inaspettata, e ci guardavamo l’un l’altro, ma loro continuavano a pretendere da noi una risposta. Rispondemmo quindi che l’imperatore ci aveva dato l’ordine di parlare con Attila, e senza intermediari; ma Scottas, arrabbiandosi, rispose che questo era l’ordine del loro capo per loro, e che egli non sarebbe venuto da noi in proprio.”

“Rispondemmo che questa legge non era mai stato prevista per gli ambasciatori – vale a dire che costoro debbano negoziare con altri le cose per cui sono stati incaricati dell’ambasciata. Inoltre, dicemmo loro che gli Sciti non ignoravano tutto questo, dato avevano già tenuto frequenti ambasciate all’imperatore, ed era giusto ottenere una parità di trattamento, e non aggiungemmo nulla circa l’aspetto economico della nostra ambasciata.”

“Così Scottas ci interruppe e andò da Attila; e quindi di nuovo ritornò senza Edeco. Ci riferirono tutto ciò per cui eravamo venuti come ambasciatori e ci ordinarono, quindi, di ripartire il più presto possibile a meno che non avessimo dell’altro da dire. Rimanemmo ancora più sbigottiti di fronte a queste parole, perché non era facile capire come le questioni stabilite dall’imperatore in segreto, fossero diventate ben note.”

“Considerammo che non vi era alcun vantaggio per la nostra ambasciata in quella risposta, a meno che non avessimo avuto accesso allo stesso Attila. Così dicemmo loro: ‘il dubbio del vostro capo è se veniamo da ambasciatori per trattare delle questioni menzionate dagli Sciti o per altre attività, ma per nessun motivo potremmo discutere di tutto questo con altri uomini.’ Tuttavia ci ordinarono ancora di partircene immediatamente.”

L’impresa sarebbe finita qui e il nostro Prisco, con suo sommo sollievo, sarebbe tornato ai suoi agi a Costantinopoli, sennonché Begilas, che immagino somigliante al buon Filini, se ne uscì con il più classico

Tranquilli, non vi preoccupate, ci penso io ! State in una botte di ferro

Il che provocò scongiuri, invocazione a Giove Pluvio e segni della croce da parte di tutto il gruppo

“Mentre stavamo facendo i preparativi per il viaggio Bigilas venne a lamentarsi con noi a causa della nostra risposta, dicendo che sarebbe stato meglio nascondersi dietro una bugia che tornare senza successo. Disse: ‘Ho conversato con Attila, e dovrei averlo facilmente convinto a mettere da parte le sue divergenze con i romani, da quando sono diventato suo amico durante l’ambasciata con Anatolio.’ Disse tutto questo, e che Edeco era ben disposto verso di lui. Con questo artomento a proposito dell’ambasciata, e di questioni che dovevano essere discusse in ogni caso, cercò di ottenere – sia vero o falso – la possibilità di attuare il piano, secondo quanto era stato deciso contro Attila; anche perché aveva portato con se l’oro che, come aveva detto Edeco, era necessario distribuire tra gli uomini nominati.

Come sempre succede, il diavolo fa le pentole e non i coperchi

Ma senza che lui ne fosse a conoscenza, poiché Edeco o aveva dato una falsa promessa o aveva avuto paura che Oreste riferisse ad Attila quello che aveva detto a noi in Sardica, dopo il banchetto; In ogni caso, egli temeva di venire incolpato per aver conversato con l’imperatore e l’eunuco, e non con Oreste; e così rivelò ad Attila il complotto contro di lui, e la quantità di oro da inviare. E inoltre rivelò anche lo scopo della nostra ambasciata.”

Così il presunto Flagello di Dio invece di scuoiare vivi o impalare i fedifraghi, decise di sopportare con somma pazienza quella banda di scocciatori e di intriganti

“Il nostro bagaglio era già stato caricato sulle bestie da soma, e, non avendo altra scelta,cercammo di iniziare il nostro viaggio di ritorno durante la notte; ma altri barbari ci raggiunsero edissero che Attila ordinava di attendere a causa dell’ora tarda. Nel luogo in cui ci trovavamo, comeho appena esposto, giunsero poi alcuni uomini portandoci un bue e del pesce di fiume mandati daAttila, e così potemmo cenare e poi tornammo a dormire.

San Cristoforo, San Macario e San Saba di Montesanto

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Oggi, nel trattare il tradizionale tema dei santi italo-bizantini, scriverò un post alquanto complicato, dato che non parlerò di una persona, ma di un’intera famiglia di asceti, quella di Cristoforo, di sua moglie Calì e dei figli San Saba il Giovane e Macario di Collesanto.

La loro vita è narrata da due bios, uno dedicato a Cristoforo e Macario, l’altro a Saba il Giovane, entrambi scritti dal patriarca di Gerusalemme Oreste, che li aveva conosciuti in suo viaggio nella Calabria bizantina, in cui da Rhegion si era spinto sino al Mercurion.

Le due bios scritte da Oreste si differenziano, però, molto l’una dall’altra. Mentre la Vita di Saba fa frequenti riferimenti a persone ed avvenimenti storici noti, permettendo così un inquadramento cronologico sicuro del santo, la Vita di Cristoforo e di Macario è priva di connotazioni precise e non offre alcun elemento utile per la datazione.

Ora Cristoforo, il capofamiglia, era di origine siciliana, nato forse intorno al 905 d.C.; proprietario terriero, viveva in un borgo in provincia di Palermo, risalente d’epoca bizantina e cresciuto d’importanza dopo la conquista araba. Si tratta di Collesanto, oggi famoso per il suo museo dedicato alla Targa Florio, all’epoca noto Qal’at as-sirat (“rocca sulla retta via”), citato anche dal geografo arabo Al-Muqaddasi, per i casi della vita, anche lui di Gerusalemme. Idrisi, dopo la conquista normanna, che lo aveva distrutto dopo un lungo assedio, così lo descrive

Rocca sopra un colle scosceso ed elevato poggio, abbonda d’acque ed ha molte terre da seminare, alle quali sovrasta un alto e superbo monte; una volta sorgeavi un castello fortissimo e difendevolissimo [ne’ cui dintorni poteano pascolare] pecore e buoi; ma il ridottato re Ruggiero ha fatto diroccare il castello e tramutar l’abitato nel sito dove è oggi.

Qal’at as-sirat, però, a metà del IX secolo, a quanto risulta dagli scavi archeologici, doveva essere assai prospera: la fonte della sua ricchezza era la fornitura di derrate alimentari alla metropoli di Balarm, in forte espansione. Intorno al 930, Oreste è assai vago sulla cronologia, Cristoforo ebbe una crisi mistica, secondo il bios fu ispirato dalla visione dell’arcangelo Michele, che lo spinse a mollare moglie e figli e a farsi monaco nel famoso monastero basiliano di San Filippo di Agira, il più importante centro di spiritualità italo-greca in Sicilia.

Il fatto che il parentado non lo prendesse a randellate in capo e, al contempo, non morisse di fame, è una riprova delle buone condizioni economiche della famiglia. Inoltre, dato il fatto che nei pressi di Balarm monaci ed ecclesiastici fossero esonerati dal pagamento della jizya, l’equivalente della nostra Irpef e il kharāj la tassa fondiaria, dovute dai dhimmi, potrebbe essere stato un incentivo, come per tanti altri siculo-bizantini, a tonsurarsi. Tra l’altro, nonostante l’elusione fiscale, le autorità musulmane guardavano con favore lo sviluppo del monachesimo basiliano in Sicilia, poiché questo facilitava la messa a reddito delle terre incolte.

In ogni caso, nel monastero Cristoforo dovette avere qualche problema di adattamento, tanto che l’egumeno Niceforo, per toglierselo dalle scatole, lo spinse a restaurare l’eremo di S. Michele in Ktisma, un piccolo eremo in una scomoda grotta. In quel luogo, dimenticato da Dio e dall’Uomo, Cristoforo trovò sia la pace, sia la sua dimensione spirituale.

La fama della sua vita ascetica e della sua santità si diffuse ben presto in tutta la Sicilia, tanto da indurre nel 935 i suoi figli Macario e Saba e numerosi suoi concittadini a seguire il suo esempio e ad abbracciare la vita monastica: se Macario, il più socievole, si trovò bene nel monastero di San Filippo Argira, Saba seguì il padre nell’eremo. Nel 937 Calì, forse stanca di stare sola, decise di imitarli a sua volta, fondando un monastero femminile nella zona di Enna.

Nel 939-940 la sanguinosa campagna militare del comandante fatimide Halil contro i ribelli arabo-berberi siciliani, che porterà poi alla nascita della dinastia Kalbita, causò una grave carestia in Trinacria: per non morire di fame, Cristoforo, con il resto della famiglia, i monaci di San Michele e un nutrito gruppo di amici e parenti, sia cristiani, sia musulmani, decise di emigrare nella Calabria bizantina, sperando nell’ospitalità di alcuni parenti, che vivevano a Caroniti, nei pressi di Nicotera.

Parenti che rischiarono probabilmente un coccolone, quando, invece di quattro persone, se ne trovarono davanti un’ottantina e che diedero rapidamente il benservito ai nuovi arrivati. Per cui, Cristoforo e compagnia presero armi e bagagli, per trasfersi nel Mercurion, dove fondarono la nuova comunità di San Michele, in cui coesistevano due monasteri basiliani, maschile e femminile, guidato da Calì, una ribat comprensiva di moschea e un borgo abitato da coloni di entrambe le religioni. A causa della fama di santità di Cristoforo, delle capacità diplomatiche di Saba e della buona gestione amministrativa di Macario, la comunità crebbe rapidamente, diventando famosa per l’impegno messo nel bonificare e dissodare nuove terre.

Santità, quella di Cristoforo, cosa strana per i santi italo-bizantini, poco legata ai miracoli: ne sono infatti ricordati soltanto due.Avrebbe indotto un orso ad abbandonare l’orto del monastero e avrebbe procurato con le sue preghiere un figlio alla moglie sterile di un personaggio importante di Rossano.

Nel 952, Cristoforo e Macario decisero di recarsi in pellegrinaggio a Roma, lasciando la gestione di San Michele a Saba, il quale dovette però affrontare un grossa grana: a causa della disastrosa campagna del patrizio Malakeinos, le truppe kalbite misero a ferro e fuoco la Calabria. Per evitare problemi, mentre i musulmani in parte tornarono in Sicilia, in parte si trasferirono nei pressi di Rhegion Saba decise con i suoi di migrare in una terra di nessuno, tra il thema bizantino di Lucania e il gastaldato longobardo di Latiniano, fondando un monastero presso un’antica cappella dedicata a san Lorenzo nelle vicinanze del fiume Sinno, nel territorio dell’attuale paese di Episcopia, che nel tempo è diventato il Santuario di Santa Maria del Piano.

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Ampliato nel XVI sec. e abbellito nel 1639 ad opera della Famiglia dei Marchesi Dalla Porta, fu sede dei monaci Colloritani. Il monastero venne soppresso nel 1750 e, tre anni dopo, passato in beneficio al “Regio Ospitale o sia Reclusorio de’ Poveri” di Napoli, in seguito venne acquistato dalla Famiglia Iannibelli e poi passò alla Famiglia Donadio.

Abbandonato per anni, è stato per più di un secolo una masseria, è stato di recente restaurato, con la cappella che conserva un importante ciclo di affreschi rinascimentali del sec. XVI sul tema del Diluvio Universale attribuiti al pittore Todisco da Abriola, un pulpito del 1004, una balaustra cinquecentesca in legno ed un pregevole soffitto ligneo a cassettoni con decorazioni floreali.

Particolare è la festa di Santa Maria del Piano, in cui si svolge il gioco della falce, durante il quale alcuni uomini con un falcetto di legno in una mano e un mazzo di spighe in un’altra, mimano un’azione rituale.

Sul suo significato sono state raccolte due versioni; una relativa al ritrovamento, da parte dei mietitori, dell’effigie miracolosa della Madonna all’interno di una quercia posta nelle vicinanze del santuario; l’altra relativa ad un episodio del XIX secolo allorché i mietitori insorti, mentre stavano per assediare i membri della locale famiglia baronale, furono dissuasi dal commettere un’azione delittuosa, dal Parroco, che recava in processione, l’Immagine della Madonna.

Tornando ai nostri eroi Cristoforo e Macario, al ritorno da Roma, presero di buon grado la decisione di Saba, trasferendosi nel monastero di San Lorenzo, dove Cristoforo, probabilmente intorno al 985 morì, seguito subito dopo dalla moglie Calì, lasciando la gestione della comunità monastica ai figli Macario e Saba, che a turno alternarono la vita eremitica a quella comunitaria. Entrambi furono poi impegnati in un’instancabile attività di fondazione di comunità monastiche e luoghi di culto in numerose aree dell’Italia meridionale e mantennero legami con altre figure oggetto di venerazione nel mondo italo-greco: nel 984 assistettero, per esempio, al trapasso di s. Luca di Demenna.

Se l’attività di Macario si svolse tra il Latiniano e il Mercurion, Saba fu invece, suo malgrado, un gran viaggiatore. In corrispondenza della spedizione antisaracena di Ottone II (981-82), il catepano d’Italia Romano, gli chiese di intercedere presso l’imperatore per scongiurare una sua invasione in Calabria, che sarebbe stata motivata da sommosse delle popolazioni latinofone del Catepanato contro il governo bizantino. Tale missione diplomatica sarebbe databile alla prima metà del 981. Durante il viaggio il monaco fu però costretto dagli attacchi dei saraceni a rifugiarsi ad Amalfi, dove fondò un cenobio

Dovette tornare in Calabria per prendersi cura degli anziani genitori, ma, una volta spirati questi ultimi, riprese le sue peregrinazioni che lo condussero a Lagonegro, località in cui costituì un monastero dedicato all’apostolo Filippo. Successivamente ulteriori attacchi lo spinsero a trasferirsi nel territorio di Salerno, dove con i suoi discepoli diede vita a un’altra comunità religiosa.

Quando era ormai in età avanzata, infatti, sia il principe di Salerno sia il duca di Amalfi Mansone chiesero la sua intercessione presso la corte di Ottone III e di sua madre Teofano per ottenere la liberazione dei loro figli, presi in ostaggio da Ottone II durante la precedente campagna. A questo scopo Saba si recò due volte a Roma, dove il giovane imperatore si era trasferito, per conto dei due regnanti, conseguendo in ambedue i casi la liberazione degli ostaggi, grazie all’aiuto del vescovo di Piacenza Giovanni Filagato, anch’egli di origine italogreca

Nel corso della seconda missione, tuttavia, Saba morì a Roma, nel monastero di San Cesario, probabilmente nel 995. Monastero, quello di San Cesario, che tra l’altro ha una storia affascinante: nasce infatti come oratorio, dedicato al martire di Terracina, nel palazzo imperiale del Palatino, ai tempi di Valentiniano III, quando l’imperatore vi fece trasportare le sue reliquie nella Domus Augustana, l’ala “privata” del palazzo fatto costruire da Domiziano, in modo da avere un sostituto cristiano del genius Augusti.

Hülsen_1927_Oratorio_di_San_Cesareo_in_Palatio

A riprova di questo, l’oratorio fu realizzato nell’ambiente destinato a larario – ossia la parte della casa riservato al culto domestico, costituita da un sacrario o da un’edicola, dove vi erano anche le immagini degli antenati; in più, vi era la consuetudine di conservarvi i ritratti imperiali inviati da Costantinopoli, per celebrare l’ascesa del nuovo basileus.

Nell’Ottavo secolo, a valle della secessione del Ducato Romano, l’oratorio fu preservato dal monastero basiliano, che continuò ad esistere sino a fine Trecento, dove morì il nostro Saba, le cui spoglie miracolose furono venerate dalla stessa imperatrice Teofano. Così il fratello Macario gli successe nella direzione dei nei numerosi conventi disseminati nelle eparchie del Mercurion e del Latiniano.

Oreste rende testimonianza alla prudenza con cui governò, alla sua profonda umiltà e, soprattutto, alla sua grande purezza, per cui “etsi in carne degeret, veluti totus spiritualis et absque corpore esse videbatur”. A queste virtù univa l’esercizio di quell’eccessivo rigorismo corporale, che caratterizzava i monaci italo-greci del tempo. Macario dieci anni il fratello, cioè il 16 dicembre del 1005.

Polemiche sulla Poster Art a Piazza Vittorio

 

Come molti sanno, nell’ultimo anno Piazza Vittorio sta diventando uno dei luoghi simbolo della poster art, ospitando molte opere di artisti come Pino Volpino e il Collettivo Qwerty.

Anche se non c’entro nulla con tale fenomeno, mi fa molto piacere e quando posso, cerco di dargli un poco di visibilità, pubblicando le foto delle loro opere sui vari gruppi social dell’Esquilino, sia perché lo ritengo un modo per combattere il brutto che avvelena il nostro Rione, sia perché i messaggio contenuti nelle loro opere, ci aiuta a riflettere su cosa stiamo diventando e a rimettere in discussione i nostri pregiudizi e le nostre ipocrisie.

Non l’avessi mai fatto: una minoranza mi ha accusato di essere complice di un reato e di favorire il degrado. Nonostante qualche polemica di troppo, in cui sono stato anche bloccato da chi a quanto pare non ha argomenti per sostenere un confronto razionale, è nata una discussione molto interessante.

Gli argomenti di chi considera gli interventi della poster art una forma di degrado sono essenzialmente tre:

  1. Non è Arte;
  2. Viola la Legge;
  3. Viola le regole della civile convivenza, cosa diversa dal punto precedente, perchè fa riferimento non alla norma giuridica, ma alla cosiddetta ragione naturale.

Nel dibattito, ho provato a rispondere punto per punto. Di seguito, tento di sintetizzare le mie argomentazioni

Non è Arte

Concetto che di fatto può essere parafrasato in

“Non lo riconosco come Arte, perché non mi piace e non lo capisco”,

giudizio anche rispettabile, ma su cui non si può basare nessun discorso generale, dato che il gusto e l’esperienza di ogni individuo appartengono alla sfera della soggettività e per di più variano nello Spazio e nel Tempo.

Proviamo quindi a fare un discorso più ampio, sia dal punto gnoseologico, sia da quello formalistico-legale.

Dal punto di vista gnoseologico, adottiamo una vecchia e trita definizione, in fondo risale al buon vecchio Aristotele, che però ha il vantaggio di essere semplice da contestualizzare

Arte è ciò che muove da un sentimento e smuove un sentimento, realizzando un sinolo tra forma e contenuto

La-Venere-degli-stracci.-Fonte-cultura.biografieonline.it_

Nel nostro caso specifico, la poster art all’Esquilino è mossa da un sentimento, una profonda passione civile, sicuramente smuove in sentimento, due giorni di polemiche su Facebook ne sono testimonianza, hanno una forma estetica e contenuto: ad esempio, la Venere delle Monnezza di Pino Volpino, oltre a criticare la latitanza dell’AMA dai portici di Piazza Vittorio, è una citazione postmoderna, piena di ironia, della Venere degli Stracci di Pistoletto, in cui l’Arte Povera, perde lo status d’avanguardia per essere a sua volta storicizzata e ridotta a oggette di dissacrazione e citazione.

Dal punto formalistico legale, abbiamo ahimè una definzione tanto brutta quanto tautologica, ma che purtroppo serve per sviscerare il punto successivo.

E’ Arte ciò che è realizzato da coloro che sono riconosciuti come Artisti ed è identificata come tale da terze parti autorevoli, che la rendono oggetto di studi e pubblicazioni

Ora, che Pino Volpino e il Collettivo Qwerty siano riconosciuti come artisti è indubbio, come il fatto che le loro realizzazioni siano oggetto di studi, articoli, pubblicazioni e recensioni. Per cui, per la giurisprudenza, i loro interventi a Piazza Vittorio rientrano senza dubbio alcuno nell’ambito delle opere d’arte

Viola la Legge

Ammesso che sia vero, di quale Legge si sta parlando ? Fino al 1956, si poteva fare riferimento all’articolo 663 del Codice Penale, che comprendeva anche l’affissione abusiva, ma essendo stato all’epoca depenalizzato, non si parlerebbe di reato, ma di infrazione amministrativa; se gli artisti fossero presi in fragrante nell’affiggere i loro manifesti, sarebbero soggetti al massimo a una multa da euro 51 ad euro 309. Ma essendo i loro interventi opere d’arte e non comunicazioni pubblicitarie, non sarebbero neppure oggetto di una multa.

Neppure si potrebbe fare riferimento, all’articolo 635 del Codice Penale, dato che la poster art di certo non

Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia

o

distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le seguenti cose altrui:

1. edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto, o su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici

Perchè essendo opere d’arte, al massimo valorizzano quanto presente ed essendo la poster art effimera, certo non deteriora o rende inservibile pietra, intonaco e mattoni

Non violando la legge dello Stato, passiamo ad esaminare i regolamenti locali. La disposizione attuativa dell’area Unesco a Roma, quella che vieterebbe di decorare le serrande dei negozi, non parla della poster art, semplicemente perché nel 2007, nessuno si era posto il problema. Inoltre, nell’Urbe, a differenza di Torino e di Firenze, non esistono regolamenti urbani dedicati alla street art e derivati.

Per cui, se non esistono le norme, queste non possono essere violate. In più parlando di opere d’arte, per cui in teoria, dovrebbe essere garantito lro diritto all’integrità d che consente all’autore di opporsi “a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione” (art. 20 Legge n. 633/41). In linea puramente teorica e paradossale, gli artisti potrebbero invece denunciare chi, sia un troppo zelante retakers, sia un condomino brontolone, strappa o deturpa le loro creazioni.

Viola le regole della civile convivenza

Qui il discorso è meno tecnico e più filosofico. Gli interventi di poster art sono visti, da alcuni, come imposizioni di una visione estetica ed etica a chi non la gradisce: per fare un esempio concreto, il Collettivo Qwerty non potrebbe affiggere le loro opere a favore del salvataggio dei migranti in mare, perché ciò offenderebbe la sensibilità di chi li vorrebbe vedere tutti affogati.

Però se la Street Art, nelle sue varie forme, è un bene comune, se un artista la mette a disposizione della Collettività, ciò non viola la libertà di nessuno, perché il singolo che non la gradisce e non vuole usufruirne, non è obbligato a farlo: in termini concreti, se non voglio vedere un’opera di Pino Volpino, posso sempre girarmi dall’altra parte o dire che non mi piace, senza timori di sanzioni.

Al contrario, chi la distrugge, per un suo arbitrio, impedisce a chi vorrebbe il contrario, di usufruirne. Per cui chi viola un diritto, quello del “pieno sviluppo della persona umana” non è chi crea, ma chi distrugge…

Insomma, in fondo, Pino Volpino e il Collettivo Qwerty,con le loro opere, hanno ottenuto la loro vittoria, sui pochi che nel Rione li disprezzano: ci hanno costretto a riflettere e a discutere, alla faccia degli uomini vuoti…

Festeggiando il Nowrūz all’Esquilino

Caratteristica dell’Esquilino è quella di essere area di frontiere, con tutte le sfumature e le permeabilità che la contraddistingue, tra due visioni del mondo differenti: di chi è prigioniero delle sua presunta area di confort ed entra in crisi per la minima infrazione al suo ordine borghese, come un’opera di poster art sulla colonna del portico di Piazza Vittorio…

Dall’altra, invece, chi guarda con curiosità al nuovo e al diverso, pronto a rimettersi in discussione e apprendere all’altro.

E oggi, questa parte dell’Esquilino si è riunita nei giardini di Carlo Felice, per celebrare il Nowrūz, il capodanno persiano. Per chi non lo sapesse in Iran, tra i Curdi e in Afghanistan vige in calendario diverso da quello gregoriano, la cui ultima ricalibratura, effettuata da una commissione di scienziati della quale faceva parte Omar Khayyam, cioè uno dei maggiori matematici, astronomi e poeti del suo, durante il regno del sultano selgiuchide Jalāl ad-Din Malik Shah Seljuqi.

Commissione che, tra l’altro, fece un ottimo lavoro, dato che questo calendario risulta essere assai più accurato del nostro: mentre il calendario gregoriano presenta un errore di un giorno ogni 3.226 anni, il calendario persiano necessita una correzione ogni 141.000 anni. Esso infatti individua gli anni bisestili (anni di 366 giorni) con un sofisticato procedimento di intercalazione; inoltre fissa l’inizio dell’anno in un fenomeno naturale, il verificarsi dell’equinozio di primavera da osservare di anno in anno con rilevamenti astronomici.

Inizio dell’anno che è appunto il Nowrūz, la cui invenzione, nella tradizione mitologica iraniana, risale al tempo di Yima, il primo re-sacerdote, che perse la sua immortalità a causa del peccato. Come racconta Mircea Eliade, Yima, per favorire un suo amico in una causa di successione, cominciò a mentire: per questo fu punito dagli dei, rendendo infelici le generazioni future.

Così veniva descritta la sua età dell’oro

In quel tempo gli uomini e gli animali non morivano, la siccità non torturava le piante e gli alimenti erano inesauribili sotto il dente che li divora. Non c’era vento freddo né vento caldo, né malattia né invidia, né sonno né veglia; e nemmeno la vecchiaia, perché i padri e i figli restavano adolescenti, non sfiorati dal tempo, dalle rughe, dalle passioni e dalle fatiche – eternamente immobili nel fiore dei loro quindici anni. sotto il segno di Yima trascorsero novecento primavere: il mondo era così gremito di uomini, cani, piccolo e grande bestiame e fuochi rossi ed ardenti, che non vi era più posto per nessuna creatura. Yima si avanzò nel cammino del sole e pregò l’angelo della terra. Schiacciò la terra col suo sigillo d’oro, la forò con la spada; e per tre volte il globo si allargò, ogni volta di un terzo, fino a contenere la moltitudine crescente degli uomini e degli animali.

Zoroastro, prese questa festività pagana e la dedicò ad Ahura Mazdā; da quel momento in poi, divenne la principale festa per gli Achemenidi, i Parti e i Sasanidi, in cui il sovrano concedeva udienza pubblica, avveniva l’amnistia dei prigionieri e, come il nostro Natale, ci si scambiavano i doni.

Nonostante l’avvvento dell’Islam, questa festa, pur non avendo una valenza religiosa, continuò ad essere celebrata; in particolare i festeggiano questa festa, che chiamano “Sultan Nevruz”, in quanto credono che in questa data il profeta Muhammad, che la pace sia con lui, abbia ricevuto da Allah l’ordine di diffondere a tutti il suo messaggio, inoltre per i sufi è il giorno in cui il mondo cominciò a girare per volontà divina

Detto questo, che cosa si fa in questo periodo ? I festeggiamenti cominciano con il Khane Tekani, letteralmente “scuotere la casa”, dodici giorni prima l’equivalente delle nostre grandi pulizie di primavera, in cui ogni famiglia si dedica alla pulizia della casa e alla sua decorazioni con fiori, in particolare giacinti e tulipani, alla visita a parenti ed amici e all’acquisto dei nuovo vestiti.

Qualche giorno prima del Nowruz, tra le strade iraniane, potreste incontrare uomini vestiti di rosso e con la faccia coperta di fuliggine. Sono gli Haji Firuz, araldi precursori dell’anno nuovo. Cantano, danzano e annunciano che il Nowruz è in arrivo. Gli Haji Firooz sono gli amici di Zio Nowruz (Amu Nowruz), l’equivalente di Babbo Natale nella cultura persiana. Come lui, infatti, è un signore anziano con la barba bianca che distribuisce doni e buona fortuna alla gente.

L’ultimo mercoledì dell’anno si celebra invece una festa di ascendenza zoroastriana, lo Chahârshanbe Sûrî, la festa del fuoco. Durante la notte del Chahârshanbe Sûrî è tradizione uscire nelle strade ed appiccare piccoli e grandi falò, sui quali i giovani uomini saltano cantando i versi tradizionali Zardî-ye man az to, sorkhî-ye to az man, letteralmente “il mio colore giallo a te, il tuo colore rosso a me”, che simbolicamente significa “la mia debolezza (giallo) a te, la tua forza (rosso) a me”. Esistono molte altre tradizioni collegate al Chahârshanbe Sûrî; una di esse vuole che in questa notte gli spiriti dei morti possano tornare a far visita ai loro discendenti vivi, altre tradizioni prevedono la rottura di alcune anfore di terracotta, in un auspicio di buona fortuna (Kûzeh Shekastân), e il Gereh-goshâ’î: l’atto di fare un nodo a un angolo di un fazzoletto e successivamente chiedere a qualcuno di scioglierlo, altro atto simbolico beneaugurante.

Ciò che rappresenta meglio il Nowruz è la tradizione delle Haft Sin (che in farsi significa “le sette S”), che indicano un modo per apparecchiare la tavola in maniera simbolica. Il sette, infatti, è un numero sacro e simboleggia i sette arcangeli con l’aiuto dei quali, quasi tremila anni fa, Zarathustra ha fondato la sua religione, cosa che di riffe e di raffe, simbologia che, grazie alla mediazione di Pitagora, è stata recepita anche in Occidente.

L’Haft Sin porta agli abitanti della casa fortuna, salute, prosperità, purezza spirituale e lunga vita; nella decorazione della tavola sono presenti fiori, il libro sacro seguito dalla famiglia, la bandiera tricolore persiana, Verde Bianco e Rosso in orizzontale (patria, fede, rosso sangue versato dagli eroi). Non mancano mai le candele accese, una ciotola di acqua a simboleggiare la trasparenza della vita e una foglia sull’acqua per la caducità della vita, lo specchio per essere visibili come siamo.

In particolare, le sette S consistono nel:

  • sabzeh – chicchi di lenticchie, orzo o frumento, germogliati (sabzeh) a simboleggiare la rinascita
  • samanu – un impasto di orzo germogliato e tostato, a simboleggiare l’abbondanza
  • senjed – frutti secchi di oleastro, è legante, a simboleggiare l’amore
  • sîr – aglio, a simboleggiare la salute
  • sîb – mele, scrupolosamente rosse, a simboleggiare la bellezza
  • somaq – bacche di Sommacco, a simboleggiare l’asprezza della vita
  • serkeh – aceto, a simboleggiare la pazienza e la saggezza.

Dato che i festeggiamenti durano dodici giorni, che succede nel tredicesimo ? Come da noi, sempre per l’influenza, che troppo spesso sottovalutiamo, di Zoroastro nel definire il nostro universo spirituale, il tredici è un numero sfortunato. Per cui, per esorcizzarlo, si organizzano picnic fuori porta (Sizdah Bedar, il giorno in cui ci sono queste scampagnate, significa esattamente “sbarazzarsi del tredicesimo”). In questo giorno molte ragazze intrecciano tra loro i fili di Sabzeh, prima di buttare il piatto, per esprimere il desiderio di sposarsi prima del successivo Sizdah Bedar!

Oggi, nei giardini di via Carlo Felice, abbiamo condiviso molte di queste esperienze: abbiamo viaggiato con la fantasia, grazie a tanti racconti, nel Tempo e nello Spazio, scoprendo tante cose sul Medio Oriente. Abbiamo condiviso pasti e bevande, imparato a fare gli aquiloni e scoperto antiche leggende afghane, su fabbri che, tessendo e colorando bandiere, sconfiggono mostri e tiranni. E abbronzati, siamo tornati a casa, più ricchi nel nostro spirito.

Pani c’a meusa

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Cosa è il gusto acquisito ? Secondo i sociologi e gli antropologi, con questo termine si intende un alimento o una bevanda che è improbabile possa essere apprezzata da una persona che non abbia avuto con esso un’esposizione sostanziale e durevole negli anni. E questo a causa di numerosi fattori, tra cui l’aspetto, gli odori, il sapore, l’origine, e così via: tutti elementi che, per varie ragioni, sono considerati “tabù” da altre culture. Rovesciando la definizione, si potrebbe dire che “gusti acquisiti” siano tutti quei cibi che troviamo “normali” solo perché ci siamo abituati a mangiarli – e, alla lunga, perfino ad apprezzarli – fin da bambini.

Uno gusto acquisito, per noi romani, sono le frattaglie: in altre parti d’Italia e d’Europa viene visto con molta perplessità il nostro amore per la coratella, per la pagliata, la trippa e la coda alla vaccinara. Ad esempio, una volta, un tizio fiorentino che conoscevo, assai fighetto e pieno di sè, in una cena di lavoro da Checco er Carrettiere a Trastevere, ebbe praticamente un attacco di panico davanti a un piatto di succulenta coda alla vaccinara.

Era un cencio e continuava a ripetere

“Oddio non ce la faccio. Ma che schifo. Come fate a mangiarla, con tutti quei nervetti”.

mentre i romani presenti se la godevano con sommo gusto e piacere. Non lo condanno assolutamente, anzi. Di certo, sarei andato anche io in tilt dinanzi all’hakarl, lo squalo marcio islandese o il suri peruviano, la larva di un coleottero che vive nelle palme. L’uovo centenario, no, perché l’ho mangiato all’Esquilino, anche se, a dire il vero, non è che mi faccia impazzire.

Il tutto per dire che l’abitudine romana ad avere a che fare con le frattaglie, ci facilita quando ci confrontiamo con piatti simili, come il lampredotto fiorentino, che mangio con sommo gusto, o il palermitano pani c’a meusa.

Per chi non lo conoscesse, questo piatto di street food, consiste in un panino morbido (vastella), superiormente spolverato di sesamo, che viene imbottito con pezzetti di milza, polmone e, talvolta, trachea (scannaruzzatu in dialetto) di vitello. Questi vengono prima bolliti interi e, una volta cotti, tagliati a fettine sottili e soffritti a lungo nella sugna (lo strutto). Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato o ricotta (in questo caso si dice maritatu, ossia sposato, accompagnato da qualcos’altro), con limone o pepe oppure semplice (schettu, ossia senza nient’altro).

Può sembrare strano, ma il pani c’a meusa, a differenza di tanti piatti tradizionali di Balarm, non è di origine araba, ma ebraica. I loro macellai, che operavano tra San Cataldo e la zona dove sorgerà Palazzo Sant’Elia, non potendo percepire denaro per il proprio lavoro, a causa della loro fede religiosa, trattenevano come ricompensa le interiora del vitello: budella, polmone, milza e cuore. Tra queste frattaglie non c’era il fegato, perché aveva un valore economico maggiore e veniva venduto separatamente.

Per cui, i nostri eroi si posero il problema di cosa fare con le frattaglie: un giorno si accorsero che i cristiani, erano soliti mangiare le interiora degli animali, accompagnandoli con formaggio o ricotta, ispirati da questa usanza, idearono questo panino. Dopo che Ferdinando d’Aragona e Isabella la Cattolica ebbero la demenziale idea di cacciare tutti gli ebrei dai loro domini, l’usanza rimase, grazie ai mevusari, gli ambulanti cristiani che cominciarono, nei vari mercati di Palermo, a preparare tale pietanza.

Caratteristico è il loro armamentario, costituito da una pentola inclinata, con strutto bollente nella parte bassa, mentre in alto attendono le fettine di interiora e unaa forchetta a due denti serve per estrarre le fettine fritte dal grasso di cottura e infilarle nel panino. Dopo tutte queste chiacchiere, dopo possiamo assaggiarlo a Palermo ? Alcuno nomi sono ricorrenti, come l’Antica Focacceria San Francesco, sempre se abbiate la pazienza di subirvi tutta la fila, a via Alessandro Paternostro 58, da Ninu ‘u ballerinu, a in Corso Finocchiaro Aprile 76/78, poco distante dal Tribunale di Palermo, che riesce veramente, l’ho visto con i miei occhi, a preparare un ottimo panino in meno di 10 secondi e il leggendario Nni Francu ‘U Vastiddaru, in in Corso Vittorio Emanuele 102.

Per chi vuole conoscere un pezzo di storia palermitana, consiglio una visita alla bancarella di Rocky Basile, che si sposta tra il mercato della Vucciria e Corso Vittorio Emanuele. Il nonno di Rocky durante un viaggio in Cina, rimase colpito dalla bellezza della città di Shanghai tanto che, al suo ritorno apri’ la Trattoria Shanghai dove era solito mangiare il pittore Renato Guttuso, e proprio in uno di quegli incontri, la famiglia Basile racconta di aver chiesto al pittore di poter fare qualcosa per la Vucciria e così prese spunto per dipingere quello che ancora oggi è uno dei più grandi capolavori di pittura ,il quadro La Vucciria. Rocky, per chi come il sottoscritto ama la televisione spazzatura, è stato protagonista di una puntata del noto programma “Unti e Bisunti” di Chef Rubio dove i due si sfidarono a suon di panini, gara che terminò’ con un pareggio.

Altro luogo consigliabile è Dal 1943 Pani ca meusa Porta Carbone, in Via Cala 62, proprio di fronte al Porto di Palermo, friggitoria che gode della fama di preparare il pani c’a meusa più farcito della città e in cui, oltre alla classica mafalda, il panino intrecciato con semi di sesamo, si può scegliere anche la foccaccia o un generico pane. In ogni caso, Porta Carbone merita una visita per la visto delle barche e del mare.

E dopo una giornata sulla spiaggia di Mondello, ci si può godere una sosta alla friggitoria dei Fratelli Testaverde,  in Via Lorenzo Iandolino 8, dove si può assaggiare anche il pane cunzato, altra pietanza tipica locale, un panino farcito con olio extravergine d’oliva, alici sott’olio, un pizzico di pepe e l’immancabile Ragusano.

23 marzo 2019 “Capodanno Persiano” all’Acquario Romano

Esquilino's Weblog

 Inizio alle ore 19.00 con i saluti del Presidente dell’ordine degli Architetti di Roma e Provincia

 spettacolo teatrale del regista iraniano, Ali Shams

 Concerto di musica tradizionale persiana a cura dell orchestra Toranj

 Rinfresco con degustazione di piatti della cucina persiana e italiana

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