San Cristoforo, San Macario e San Saba di Montesanto

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Oggi, nel trattare il tradizionale tema dei santi italo-bizantini, scriverò un post alquanto complicato, dato che non parlerò di una persona, ma di un’intera famiglia di asceti, quella di Cristoforo, di sua moglie Calì e dei figli San Saba il Giovane e Macario di Collesanto.

La loro vita è narrata da due bios, uno dedicato a Cristoforo e Macario, l’altro a Saba il Giovane, entrambi scritti dal patriarca di Gerusalemme Oreste, che li aveva conosciuti in suo viaggio nella Calabria bizantina, in cui da Rhegion si era spinto sino al Mercurion.

Le due bios scritte da Oreste si differenziano, però, molto l’una dall’altra. Mentre la Vita di Saba fa frequenti riferimenti a persone ed avvenimenti storici noti, permettendo così un inquadramento cronologico sicuro del santo, la Vita di Cristoforo e di Macario è priva di connotazioni precise e non offre alcun elemento utile per la datazione.

Ora Cristoforo, il capofamiglia, era di origine siciliana, nato forse intorno al 905 d.C.; proprietario terriero, viveva in un borgo in provincia di Palermo, risalente d’epoca bizantina e cresciuto d’importanza dopo la conquista araba. Si tratta di Collesanto, oggi famoso per il suo museo dedicato alla Targa Florio, all’epoca noto Qal’at as-sirat (“rocca sulla retta via”), citato anche dal geografo arabo Al-Muqaddasi, per i casi della vita, anche lui di Gerusalemme. Idrisi, dopo la conquista normanna, che lo aveva distrutto dopo un lungo assedio, così lo descrive

Rocca sopra un colle scosceso ed elevato poggio, abbonda d’acque ed ha molte terre da seminare, alle quali sovrasta un alto e superbo monte; una volta sorgeavi un castello fortissimo e difendevolissimo [ne’ cui dintorni poteano pascolare] pecore e buoi; ma il ridottato re Ruggiero ha fatto diroccare il castello e tramutar l’abitato nel sito dove è oggi.

Qal’at as-sirat, però, a metà del IX secolo, a quanto risulta dagli scavi archeologici, doveva essere assai prospera: la fonte della sua ricchezza era la fornitura di derrate alimentari alla metropoli di Balarm, in forte espansione. Intorno al 930, Oreste è assai vago sulla cronologia, Cristoforo ebbe una crisi mistica, secondo il bios fu ispirato dalla visione dell’arcangelo Michele, che lo spinse a mollare moglie e figli e a farsi monaco nel famoso monastero basiliano di San Filippo di Agira, il più importante centro di spiritualità italo-greca in Sicilia.

Il fatto che il parentado non lo prendesse a randellate in capo e, al contempo, non morisse di fame, è una riprova delle buone condizioni economiche della famiglia. Inoltre, dato il fatto che nei pressi di Balarm monaci ed ecclesiastici fossero esonerati dal pagamento della jizya, l’equivalente della nostra Irpef e il kharāj la tassa fondiaria, dovute dai dhimmi, potrebbe essere stato un incentivo, come per tanti altri siculo-bizantini, a tonsurarsi. Tra l’altro, nonostante l’elusione fiscale, le autorità musulmane guardavano con favore lo sviluppo del monachesimo basiliano in Sicilia, poiché questo facilitava la messa a reddito delle terre incolte.

In ogni caso, nel monastero Cristoforo dovette avere qualche problema di adattamento, tanto che l’egumeno Niceforo, per toglierselo dalle scatole, lo spinse a restaurare l’eremo di S. Michele in Ktisma, un piccolo eremo in una scomoda grotta. In quel luogo, dimenticato da Dio e dall’Uomo, Cristoforo trovò sia la pace, sia la sua dimensione spirituale.

La fama della sua vita ascetica e della sua santità si diffuse ben presto in tutta la Sicilia, tanto da indurre nel 935 i suoi figli Macario e Saba e numerosi suoi concittadini a seguire il suo esempio e ad abbracciare la vita monastica: se Macario, il più socievole, si trovò bene nel monastero di San Filippo Argira, Saba seguì il padre nell’eremo. Nel 937 Calì, forse stanca di stare sola, decise di imitarli a sua volta, fondando un monastero femminile nella zona di Enna.

Nel 939-940 la sanguinosa campagna militare del comandante fatimide Halil contro i ribelli arabo-berberi siciliani, che porterà poi alla nascita della dinastia Kalbita, causò una grave carestia in Trinacria: per non morire di fame, Cristoforo, con il resto della famiglia, i monaci di San Michele e un nutrito gruppo di amici e parenti, sia cristiani, sia musulmani, decise di emigrare nella Calabria bizantina, sperando nell’ospitalità di alcuni parenti, che vivevano a Caroniti, nei pressi di Nicotera.

Parenti che rischiarono probabilmente un coccolone, quando, invece di quattro persone, se ne trovarono davanti un’ottantina e che diedero rapidamente il benservito ai nuovi arrivati. Per cui, Cristoforo e compagnia presero armi e bagagli, per trasfersi nel Mercurion, dove fondarono la nuova comunità di San Michele, in cui coesistevano due monasteri basiliani, maschile e femminile, guidato da Calì, una ribat comprensiva di moschea e un borgo abitato da coloni di entrambe le religioni. A causa della fama di santità di Cristoforo, delle capacità diplomatiche di Saba e della buona gestione amministrativa di Macario, la comunità crebbe rapidamente, diventando famosa per l’impegno messo nel bonificare e dissodare nuove terre.

Santità, quella di Cristoforo, cosa strana per i santi italo-bizantini, poco legata ai miracoli: ne sono infatti ricordati soltanto due.Avrebbe indotto un orso ad abbandonare l’orto del monastero e avrebbe procurato con le sue preghiere un figlio alla moglie sterile di un personaggio importante di Rossano.

Nel 952, Cristoforo e Macario decisero di recarsi in pellegrinaggio a Roma, lasciando la gestione di San Michele a Saba, il quale dovette però affrontare un grossa grana: a causa della disastrosa campagna del patrizio Malakeinos, le truppe kalbite misero a ferro e fuoco la Calabria. Per evitare problemi, mentre i musulmani in parte tornarono in Sicilia, in parte si trasferirono nei pressi di Rhegion Saba decise con i suoi di migrare in una terra di nessuno, tra il thema bizantino di Lucania e il gastaldato longobardo di Latiniano, fondando un monastero presso un’antica cappella dedicata a san Lorenzo nelle vicinanze del fiume Sinno, nel territorio dell’attuale paese di Episcopia, che nel tempo è diventato il Santuario di Santa Maria del Piano.

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Ampliato nel XVI sec. e abbellito nel 1639 ad opera della Famiglia dei Marchesi Dalla Porta, fu sede dei monaci Colloritani. Il monastero venne soppresso nel 1750 e, tre anni dopo, passato in beneficio al “Regio Ospitale o sia Reclusorio de’ Poveri” di Napoli, in seguito venne acquistato dalla Famiglia Iannibelli e poi passò alla Famiglia Donadio.

Abbandonato per anni, è stato per più di un secolo una masseria, è stato di recente restaurato, con la cappella che conserva un importante ciclo di affreschi rinascimentali del sec. XVI sul tema del Diluvio Universale attribuiti al pittore Todisco da Abriola, un pulpito del 1004, una balaustra cinquecentesca in legno ed un pregevole soffitto ligneo a cassettoni con decorazioni floreali.

Particolare è la festa di Santa Maria del Piano, in cui si svolge il gioco della falce, durante il quale alcuni uomini con un falcetto di legno in una mano e un mazzo di spighe in un’altra, mimano un’azione rituale.

Sul suo significato sono state raccolte due versioni; una relativa al ritrovamento, da parte dei mietitori, dell’effigie miracolosa della Madonna all’interno di una quercia posta nelle vicinanze del santuario; l’altra relativa ad un episodio del XIX secolo allorché i mietitori insorti, mentre stavano per assediare i membri della locale famiglia baronale, furono dissuasi dal commettere un’azione delittuosa, dal Parroco, che recava in processione, l’Immagine della Madonna.

Tornando ai nostri eroi Cristoforo e Macario, al ritorno da Roma, presero di buon grado la decisione di Saba, trasferendosi nel monastero di San Lorenzo, dove Cristoforo, probabilmente intorno al 985 morì, seguito subito dopo dalla moglie Calì, lasciando la gestione della comunità monastica ai figli Macario e Saba, che a turno alternarono la vita eremitica a quella comunitaria. Entrambi furono poi impegnati in un’instancabile attività di fondazione di comunità monastiche e luoghi di culto in numerose aree dell’Italia meridionale e mantennero legami con altre figure oggetto di venerazione nel mondo italo-greco: nel 984 assistettero, per esempio, al trapasso di s. Luca di Demenna.

Se l’attività di Macario si svolse tra il Latiniano e il Mercurion, Saba fu invece, suo malgrado, un gran viaggiatore. In corrispondenza della spedizione antisaracena di Ottone II (981-82), il catepano d’Italia Romano, gli chiese di intercedere presso l’imperatore per scongiurare una sua invasione in Calabria, che sarebbe stata motivata da sommosse delle popolazioni latinofone del Catepanato contro il governo bizantino. Tale missione diplomatica sarebbe databile alla prima metà del 981. Durante il viaggio il monaco fu però costretto dagli attacchi dei saraceni a rifugiarsi ad Amalfi, dove fondò un cenobio

Dovette tornare in Calabria per prendersi cura degli anziani genitori, ma, una volta spirati questi ultimi, riprese le sue peregrinazioni che lo condussero a Lagonegro, località in cui costituì un monastero dedicato all’apostolo Filippo. Successivamente ulteriori attacchi lo spinsero a trasferirsi nel territorio di Salerno, dove con i suoi discepoli diede vita a un’altra comunità religiosa.

Quando era ormai in età avanzata, infatti, sia il principe di Salerno sia il duca di Amalfi Mansone chiesero la sua intercessione presso la corte di Ottone III e di sua madre Teofano per ottenere la liberazione dei loro figli, presi in ostaggio da Ottone II durante la precedente campagna. A questo scopo Saba si recò due volte a Roma, dove il giovane imperatore si era trasferito, per conto dei due regnanti, conseguendo in ambedue i casi la liberazione degli ostaggi, grazie all’aiuto del vescovo di Piacenza Giovanni Filagato, anch’egli di origine italogreca

Nel corso della seconda missione, tuttavia, Saba morì a Roma, nel monastero di San Cesario, probabilmente nel 995. Monastero, quello di San Cesario, che tra l’altro ha una storia affascinante: nasce infatti come oratorio, dedicato al martire di Terracina, nel palazzo imperiale del Palatino, ai tempi di Valentiniano III, quando l’imperatore vi fece trasportare le sue reliquie nella Domus Augustana, l’ala “privata” del palazzo fatto costruire da Domiziano, in modo da avere un sostituto cristiano del genius Augusti.

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A riprova di questo, l’oratorio fu realizzato nell’ambiente destinato a larario – ossia la parte della casa riservato al culto domestico, costituita da un sacrario o da un’edicola, dove vi erano anche le immagini degli antenati; in più, vi era la consuetudine di conservarvi i ritratti imperiali inviati da Costantinopoli, per celebrare l’ascesa del nuovo basileus.

Nell’Ottavo secolo, a valle della secessione del Ducato Romano, l’oratorio fu preservato dal monastero basiliano, che continuò ad esistere sino a fine Trecento, dove morì il nostro Saba, le cui spoglie miracolose furono venerate dalla stessa imperatrice Teofano. Così il fratello Macario gli successe nella direzione dei nei numerosi conventi disseminati nelle eparchie del Mercurion e del Latiniano.

Oreste rende testimonianza alla prudenza con cui governò, alla sua profonda umiltà e, soprattutto, alla sua grande purezza, per cui “etsi in carne degeret, veluti totus spiritualis et absque corpore esse videbatur”. A queste virtù univa l’esercizio di quell’eccessivo rigorismo corporale, che caratterizzava i monaci italo-greci del tempo. Macario dieci anni il fratello, cioè il 16 dicembre del 1005.

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