Santa Sinforosa

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Il buon compare Carnera, che nella sua semplicità e nel suo spessore umano è stato un maestro per tutti noi, era solito pregare e smadonnare una santa dal nome alquanto insolito, Sinforosa.

Per anni, ho pensato che fosse un nome immaginario o la deformazione di qualcun altro, invece scartabellando in rete, ho scoperto come tale veramente venerata e sia di presunta origine tiburtina, tanto che il buon monsignore Giuseppe Cascioli, grande erudito ed esperto di storia locale, gli dedico un capitolo di un suo libro dedicato alle personalità eminenti della storia di Tivoli

Le più rilevanti fonti letterarie antiche, infatti, tra cui il Martirologio Geronimiano e la Passio Sanctae Sympherosae,testo agiografico ripreso nel 1588 da F. Cardulo negli Acta Symphorosae et sociorum ricordano il luogo di deposizione del corpo della martire e dei suoi sette figli, al IX miglio della Tiburtina, e riportano la vicenda del martirio della santa, gettata nell’Aniene in suburbano eiusdem civitatis (l’antica Tibur) sotto l’imperatore Adriano.

Martirio, così descritto con molta fantasia

L’imperatore Adriano si era fatto fabbricare un palazzo e voleva consacrarlo con i soliti nefandi riti pagani. Cominciò a chiedere con sacrifici i responsi agli idoli e ai demoni che abitano in essi e tale fu la risposta: “La vedova Sinforosa, con i suoi sette figli, ci strazia tutti i giorni invocando il suo Dio. Pertanto, se costei, con i suoi sette figli, sacrificherà secondo il nostro rito, vi promettiamo di concedere tutto ciò che chiedete”. Adriano quindi la fece imprigionare con i figli e con fare insinuante cercava di esortarli a sacrificare agli dei.

Ma Sinforosa gli disse: “Il mio sposo Getulio e suo fratello Amazio, mentre militavano nel tuo esercito come tribuni, affrontarono tanti generi di torture per non consentire a sacrificare agli idoli e, simili ad atleti valorosi, con la loro morte vinsero i demoni. Preferirono infatti farsi decapitare che lasciarsi vincere, soffrendo la morte che, accettata per il nome di Cristo, cagionò loro ignominia nel mondo degli uomini legati agli interessi terreni, ma nel consesso degli angeli diede loro onore e gloria eterna. Si aggirano tra gli angeli ora e, innalzando i trofei della loro passione, godono in cielo la vita eterna con l’eterno re”.

Rispose l’imperatore a santa Sinforosa: “O sacrifichi con i tuoi figli agli dei onnipotenti, o farò immolare te stessa con i figli tuoi”. Soggiunse quindi santa Sinforosa: “Donde mi viene una simile grazia, di meritare di essere offerta come vittima a Dio con i figli miei?”. E l’imperatore: “Io ti farò sacrificare ai miei dei”. La beata Sinforosa rispose: “I tuoi dei non possono accettarmi in sacrificio. ma se sarò immolata in nome di Cristo mio Dio, avrò la potenza d’incenerire i tuoi demoni”. Disse allora l’imperatore: “Scegli una di queste due proposte: o sacrificherai ai miei dei o morirai di una morte tragica.”. Rispose allora Sinforosa: “Tu credi che il mio proposito possa cambiare per un qualche timore, mentre il mio desiderio più vivo è di riposare in pace accanto al mio sposo Getulio, che tu facesti morire per il nome di Cristo”.

L’imperatore Adriano la fece allora condurre al tempio di Ercole e lì dapprima la fece schiaffeggiare, quindi appendere per i capelli. Vedendo tuttavia che in nessun modo e con nessuna minaccia riusciva a farla deviare dal suo proposito, le fece legare una pietra al collo e la fece affogare nel fiume. Il fratello Eugenio, che ricopriva una carica presso la curia di Tivoli, raccolse il suo corpo e lo fece seppellire alla periferia di quella città. Il giorno seguente, l’imperatore Adriano fece chiamare alla sua presenza, contemporaneamente, tutti i sette figli di lei. Quando vide che in nessun modo, né con le lusinghe né con le minacce riusciva a indurli a sacrificare agli dei, fece piantare sette pali intorno al tempio di Ercole e, con l’aiuto di macchine, vi fece affiggere i giovani. Quindi li fece uccidere: Crescente, trafitto alla gola; Giuliano al petto; Nemesio al cuore; Primitivo all’ombelico; Giustino alle spalle; Stracteo al costato; Eugenio squarciato da capo a piedi.

L’imperatore Adriano, recatosi il giorno dopo al tempio di Ercole, fece portare via i loro corpi e li fece gettare in una profonda fossa, in una località che i pontefici chiamarono: “Ai sette giustiziati”. Dopo ciò vi fu nella persecuzione una tregua di un anno e sei mesi: in quel tempo fu data onorata sepoltura ai corpi dei martiri e furono innalzate delle tombe a coloro i cui nomi sono scritti nel libro della vita. Il giorno natalizio dei santi martiri cristiani Sinforosa e dei suoi sette figli è celebrato 15 giorni prima delle calende di agosto (17 luglio). I loro corpi riposano sulla via Tiburtina, a circa otto miglia da Roma, sotto il regno di nostro Signore Gesù Cristo, a cui sono dovuti onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”

Con molta fantasia, ci tengo a sottolinearlo, perché il buon Adriano, con tutti i suoi difetti, a tutto pensava tranne che a perseguitare i cristiani. Addirittura, confermando il rescritto di Traiano, impose di

  • Non fare d’ufficio alcuna ricerca di cristiani a fini persecutori.
  • Se essi fossero stati denunciati e confessi sarebbero stati da punire.
  • Vietare di dare seguito alle denunce anonime, da non doversi accettare in alcun modo

Inoltre, consigliò, nella speranza di rieducare i cristiani, di applicare, piuttosto che la pena di morte, una pena detentiva, l’esilio o la schiavitù in miniera

Scetticismo, quello su questa passione, confermato dall’archeologia, che ha compiuto una serie di interessantissime scoperte sul presunto luogo di sepoltura della santa e dei suoi figli. Le prime evidenze archeologiche di quel tratto della Tiburtina, risalgono proprio al II secolo d.C., appunto all’età adrianea, ma sono senza dubbio pagane.

Si tratta del cippo sepolcrale che menziona Cornelia Sympherusa e Claudia Primitiva, di due iscrizioni latine e il frammento di un sarcofago con iscrizione metrica in greco. Inoltre proviene dalla zona l’ara funeraria di Sextus Rufus Victor, oggi conservata a Castell’Arcione.

Tra la fine del III, inizi del IV sec. d.C. in pratica ai tempi di Massenzio, che come detto altre volte, è il primo a inaugurare la politica di tolleranza proseguita da Costantino, viene costruita una basilichetta, con pianta alquanto irregolare a forma di cella tricora (m 20 x 14 ca.) per custodire il corpo di un gruppo di martiri tiburtini, probabilmente vittime della grande persecuzione di Diocleziano.

La figura più venerata, doveva essere probabilmente di una donna: ai tempi di Teodosio, da una parte era aumentato notevolmente il numero dei pellegrini che si recavano a venerare le reliquie, dall’altra, non si avevano molti dubbi sull’identità di tali martiri. Per cui qualche prelato, ricco di spirito di iniziativa, associò il nome della martire alla Cornelia Sympherusa del vicino cippo sepolcrale, associato a qualche mausoleo, e trasformò gli altri corpi in quello dei suoi figli.

Inoltre, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, il martyrion fu affiancato da una basilica maior, che, nelle forme, ricordava la fase costantiniana di San Lorenzo fuori le Mura. Per esigenze di carattere devozionale, l’ignoto architetto creò un punto di collegamento tra la basilica maior e la cella memoriae, che avvenne tramite l’apertura, nelle absidi contrapposte, di una fenestella confessionis, permettendo in tal modo ai fedeli la visione del luogo di deposizione dei martiri.

La basilica maior, preceduta da un nartece, era un ampio edificio di m. 40 x 20 circa, diviso in tre navate scandite da una doppia fila di sei pilastri e terminante con un abside affiancata ai lati da due secretiores aedes. Presentava una copertura a capriata, mentre l’interno era decorato da affreschi; rimangono solo tracce di quelli dell’abside, caratterizzate dal motivo decorativo a “bande e festoni”.

Lungo l’abside e nel presbiterio, inoltre, vennero rinvenuti i resti di piccoli fori che hanno fatto pensare ad intarsi marmorei posti fino a tre metri dal piano del pavimento, sormontati a loro volta da una cornice di marmo situata alla base degli affreschi, che dovevano ornare anche la volta. Abside e presbiterio erano separati da transenne (plaustra) di cui sono state rinvenute le tracce di fondazione.
L’illuminazione interna era ottenuta da una serie di finestre aperte lungo il muro della navata centrale, larghe m. 2,20, mentre aperture minori illuminavano le navatelle.

L’area del presbiterio, inoltre, doveva essere priva di finestre per creare un suggestivo contrasto di luci ed ombre avvicinandosi progressivamente alle tombe venerate.

L’assedio longobardo del 756, che vide la devastazione della campagna romana e delle sue chiese, fu quasi certamente la causa per cui il Papa Stefano III, nel 757, fece traslare le reliquie della martire tiburtina e dei suoi figli intra moenia, presso la chiesa di S. Angelo in Pescheria, come riporta una iscrizione di piombo scoperta nel 1562 in cui si ricorda che “hic requiescunt corpora sanctorum Symphorosae et viri sui Zotici et filiorum eius a Stephano papa traslata”.

Ciò causò l’abbandono del complesso paleocristiano, benché la basilica sia ancora citata nel 944 in una bolla di Martino III ed in una del 991 di Papa Giovanni XV. Nel 1124 la chiesa di Santa Sinforosa è ancora menzionata come appartenente al monastero di San Ciriaco di Roma.

Nel 1585 viene ricordata da Marco Antonio Nicodemi tra le rovine del nono miglio della Tiburtina e nel 1632 il Bosio riporta di aver visto i resti della basilica di Santa Sinforosa e dei suoi figli di cui “rimangono tuttavia le parietine in un fondo dè Maffei, il quale fondo oggidì ritiene ancora la denominazione da quelli Santi”.

Nel 1660 la chiesa viene ricordata come “Anticaglia” in una vignetta della mappa 429/6 del Catasto Alessandrino. Nel 1676 nella pianta del Falda di Roma è ancora riportata la menzione di “S. Sinforosa”,
Nel 1745 la basilica è ricordata dal Vulpio come “magnifica struttura” e ancora nel 1828 viene ricordata dal Sebastiani, che ne descrive le vestigia.

Nel 1877 lo Stevenson, dopo averne individuato i resti, chiede ed ottiene dal duca Grazioli, allora proprietario del sito, il finanziamento per gli scavi del complesso . Gli anni successivi che vanno dal 1940 al 1960 hanno visto la distruzione del muro nord e dell’angolo sud est della basilica per la creazione della linea ferroviaria Roma-Tivoli e l’abbattimento dell’intera metà nord della chiesa per pubblici lavori di ampliamento della via Tiburtina.

Ultimi interventi che hanno interessato l’area sono stati gli scavi dell’Istitute of Fine Arts di New York e dell’Accademia Americana di Roma, condotti da R.W. Stappleford nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso

Una pallottola spuntata

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Come detto altre volte, i cinesi non hanno la possibilità di utilizzare il debito pubblico come leva per forzare la trattativa sui dazi con Trump, per due motivi specifici: uno per la capacità del mercato di assorbire senza problemi la loro quota di titoli di stato, come successo nell’asta del 28 maggio, sia per problemi intrinsechi alla loro economia.

Infatti le vendite di Treasuries costringerebbero Pechino a trasformare le proprie riserve valutarie da dollari a yuan, il quale si apprezzerebbe quindi in maniera esponenziale, mettendo in crisi, più dei dazi americani, le sue esportazioni; date le difficoltà del mercato interno cinese di assorbire tale sovrapproduzioni, il tutto comporterebbe una crisi economica difficile da gestire.

Anche l’altra arma paventata dal una certa vulgata, le terre rare, è alquanto spuntata: la questione è semplice, nonostante il nome, queste sono tutt’altro che poco diffuse.

Il loro nome, infatti, più che alla loro scarsa disponibilità, è legato all’enorme difficoltà di lavorazione e estrazione del minerale puro; le terre rare devono essere disciolte a più stadi in acidi, filtrate, ripulite, producendo residui tossici e radiattivi.

Ora, questo processo, dannoso per l’ambiente e per la salute pubblica, negli anni Ottanta è stato progressivamente vietato nei paesi occidentali; in Cina, in cui oggettivamente non si è ancora sviluppata una sensibilità analoga, si è preferito barattare la salvaguardia dell’ambiente e la salute con il guadagno.

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Ovviamente, Pechino ha provato a sfruttare questo monopolio: nella seconda metà del 2010 la Cina, in una prova di forza con l’hi-tech occidentale, ridusse del 70% l’esportazione delle terre rare mandando alle stelle i prezzi, con picchi superiori all’850%.

Perché di questo evento, teoricamente drammatico, non ce ne è memoria? Perché non avuto impatti concreti: non solo il resto del mondo aveva riserve sufficienti per supplire alla mancanza di alcuni minerali, ma hanno dimostrato come si poteva anche lavorare con quantità più basse di questi elementi.

E la situazione, in dieci anni si è ulteriormente modificata a sfavore di Pechino: un ipotetico embargo ai danni delle imprese americane, oltre a essere facilmente aggirabile da parte di broker di altri paesi, renderebbe semplicemente economicamente competitive le alternative basate sulle “magnetic core-shell nanoparticles”, partendo da complessi basati su un mix tra ferro e cobalto, molto più efficienti, ma meno economiche e rendere conveniente l’estrazione delle miniere in Giappone e in Corea del Nord. Di conseguenza, con una mossa del genere, Pechino strozzerebbe la sua gallina dalle uova d’oro.

Inoltre, benchè ZTE e Huawei riescano a produrre hardware con un ottimo rapporto qualità prezzo (ma mai quanto la Supermicro) hanno ancora il problema di essere dipendenti, in ambito microelettronica, dalla componentistica made in USA. Per cui, in guerra commerciale seria, oltre a pagare lo scotto di essere indietro nell’adozione del paradigma Software Defined, avrebbero diverse difficoltà nello stare indietro all’innovazione in tale campo.

Allora, la Cina non è modo di difendersi dalle pretese di Trump? Paradossalmente, la sua migliore difesa è nell’essere troppo grossa per entrare in crisi. Se la crescita diminuisse sotto il 6% annuo, si scatenerebbero una serie di tensioni sociali e di fallimenti bancari e industriali, che generebbero un’area di instabilità di un miliardo e mezzo di persone, che sarebbe quasi impossibile da gestire sia dall’Occidente, sia dai paesi vicini.

Per cui a Pechino, sapendo che non è interesse USA tirare la corda, posso esercitare la strategica virtù della pazienza e del compromesso…

Metafore

Apollo

Qualche giorno fa, sulla pagina della nostra sindaca, è apparso questo post, che riguarda l’Esquilino e via Giolitti

È iniziata la bonifica dell’amianto nell’ex cinema Apollo di Roma, lo storico edificio nel quartiere multietnico dell’Esquilino a due passi dalla stazione Termini.

Si tratta della prima fase dei lavori. I benefici dell’intervento saranno visibili fin da subito: l’amianto presente sul tetto dell’edificio verrà incapsulato ed eliminato. Una volta messa in sicurezza la parte esterna, si passerà all’interno dell’edificio dove saranno sigillate porte e finestre in modo da impedire qualunque fuoriuscita all’esterno di materiali contaminati e nocivi per la salute. Poi si procederà ai lavori di impermeabilizzazione dei muri che presentano intonaco ammalorato.

Tutto ciò consentirà la riapertura ai cittadini di parte del marciapiede di via Giolitti, che era stato chiuso nel tratto che costeggia i binari del tram.

Voglio ringraziare il Dipartimento Simu, che sta portando avanti i lavori, l’assessore ai Lavori Pubblici Margherita Gatta e i Consiglieri capitolini del Movimento 5 Stelle Alessandra Agnello, presidente della Commissione Lavori Pubblici, Eleonora Guadagno Presidente della Commissione Cultura e Marco Terranova, Presidente della Commissione Bilancio, che hanno lavorato a questo progetto

Post che un esempio concreto del perché i Cinque Stelle sono praticamente collassati a Roma: da una parte per l’uso spregiudicato della doppia verità, il Comune si prende i meriti di una cosa che ha fatto malincuore, ricordiamo che per mesi ha tentato di negare il problema, sospinto dalla protesta dei cittadini, che magari può incantare chi abita fuori dal Grande Raccordo Anulare, ma non chi ha vissuto il problema sulla sua pelle e che certo non è propenso a votare chi lo prende regolarmente in giro.

Dall’altra la totale mancanza di progettualità e di un’idea su come sviluppare la città. Ci si limita a sigillare il tutto, senza presentare uno straccio di idea su cosa fare di una struttura pagata nel 2001 a peso d’oro da parte del Campidoglio, in attesa di un improvviso miracoli, di un crollo risolutivo o della possibilità di svendere il tutto al primo speculatore di passaggio.

E pensare che di idee, da parte dei cittadini, che se sono a iosa. Provo a elencarne le più gettonate: la Casa del Cinema multietnico, il laboratorio museo della street art, ricollegandosi ai progetti in corso nel Rione, il museo urbano della storia dell’Esquilino, per descriverne le mutazioni nel tempo, proposta che chissà perché, sta particolarmente sulle scatole a Roma fa Schifo.

Ma invece di aprire un tavolo di lavoro e valutare quale di queste siano effettivamente praticabili, il Comune preferisce fare orecchie da mercante…

Sempre parlando di via Giolitti, si è scatenata una polemica infernale sul giallo con cui un commerciante del 225 ha colorato il muro; ora premesso che io trovo quel colore orrido, quel portico ha un problema assai più grave. I lavori fatti in fretta e furia dal Municipio, per mettere una pezza a una situazione di emergenza, sono stati fatti talmente da schifo che le perdite d’acqua sono tornate e in pochi mesi riporteranno tutto da capo a dodici.

Per cui le anime belle che passano il tempo a strapparsi le vesti per l’intonaco giallo, dovrebbero invece concentrarsi sul problema serio: altrimenti, possono essere paragonati a chi, mentre affondava il Titanic, protestava per la qualità della musica suonata dall’orchestra di bordo

Veicoli a guida autonoma

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Una volta, quando ero giovane, in qualsiasi comitiva vi era il cosiddetto espertone da bar, colui che riteneva, per scienza infusa e per sentito dire, magari da un mitologico cugino, esprimeva i suoi giudizi trancianti su qualsiasi ambito dello scibile umano.

I temi che attiravano particolarmente l’attenzione dell’espertone erano essenzialmente tre: il calcio, la politica e come risolvere incancreniti problemi dell’Urbe. Ovviamente, dato che il contraddirlo produceva delle scenate isteriche, doveva assecondarlo e sopportarlo con santa pazienza.

Con l’evoluzione tecnologica, l’espertone da bar, che era un fenomeno essenzialmente locale, si è globalizzato e sempre nell’Urbe, ha trovato la sua apoteosi nel blog Roma fa Schifo, che per i casi della vita tratta, suppongo in buona fede e senza secondi fini, le stesse tematiche, con particolare passione per la gestione del traffico e dei parcheggi, ignorando, che le relative problematiche, sono tutt’altro che semplici e che per una trattazione corretta, implicherebbero una competenza specifica nell’ambito di materie complesse dal punto di vista matematico, come la teoria dei grafi, la teoria dei flussi e la teoria delle code.

Materie di cui gli autori di tale blog hanno dimostrato di non avere la più minima competenza. Altro problema dei suddetti espertoni da bar 2.0 è la totale ignoranza di come la tecnologia stia cambiando, dall’IoT a i modelli di servizio della sharing economy, i modelli di traffico urbano.

E che questo fenomeno, sarà ancora più accentuato, dalla prossima diffusione dei veicoli a guida autonoma.

A tal proposito, colgo l’occasione per dare evidenza di un interessante intervento pubblicato sul gruppo facebook dei Transumanisti, che ringrazio per gli spunti di riflessione che offre.

Le automobili hanno cambiato tutto, dalla progettazione della strada alla geografia di dove e come vivono le persone. Guardando al futuro, possiamo aspettarci cambiamenti altrettanto radicali nelle nostre città una volta che i veicoli autonomi (AV) diventeranno la norma.

Questi cambiamenti non avverranno durante la notte. Ma una volta che le AV saranno le uniche auto in circolazione, le nostre città appariranno e saranno percepite molto diverse rispetto a oggi.

Come gli AV trasformeranno la vita urbana

La proprietà del veicolo sarà molto diversa nell’era degli AV. Indubbiamente alcune persone continueranno a possedere veicoli personali. Ma la maggior parte degli AV funzionerà come taxi e navette che i passeggeri utilizzano in base alle necessità. È probabile che la maggior parte degli abitanti della città finirà per optare per questo come principale mezzo di trasporto.

Ecco alcuni degli altri cambiamenti che possiamo anticipare:

  • Gli AV si muoveranno attraverso strade e incroci in modo più efficiente rispetto ai conducenti umani: ciò renderà i semafori largamente obsoleti, poiché i veicoli comunicheranno direttamente tra loro (e con l’infrastruttura della città rimanente).
  • Le esigenze generali di parcheggio saranno notevolmente ridotte. I taxi e le navette AV non dovranno essere parcheggiati quanto i veicoli di proprietà privata. Questo libererà il parcheggio in strada e ampi parcheggi per altri scopi. Invece di ampi parcheggi, è probabile che vedremo piccoli “nodi” di parcheggio sparsi nelle nostre città. Questi “nodi” dovranno essere strettamente gestiti pure per garantire sia l’efficienza della flotta dei veicoli che il corretto utilizzo dello spazio per passeggeri.
  • Le città stabiliranno punti designati per il ritiro e rilascio dei passeggeri degli AV. Ciò significa che i fanatici della corsa avranno più tempo per trovare le loro corse e salire in macchina, in contrasto con le sfide dell’attuale panorama Uber / Lyft.
  • I nuovi edifici saranno progettati intorno agli atrii, rendendo più facile il ritiro e il rilascio dei passeggeri. I parcheggi non saranno più l’ingresso principale di un edificio e la nostra architettura si sposterà di conseguenza.
  • Ci sarà molto meno segnaletica sulle nostre strade. Tale segnaletica è davvero utile solo ai conducenti umani, non agli AV che conoscono già le regole della strada (probabilmente incorporati nei loro computer di bordo sotto forma di aree geografiche e mappe ad alta definizione).

Perché abbiamo bisogno dell’interoperabilità per gli AV

Ci sono buone ragioni per essere entusiasti del futuro AV, ma ci sono anche sfide significative. Gli AV saranno probabilmente realizzati e gestiti da più società. Pensa al numero di diverse marche di auto sulle nostre strade oggi. Ma quando parliamo di AV, le cose si complicano. Affinché i diversi veicoli possano spostarsi in sicurezza, dovranno comunicare tra loro.

Per risolvere questo problema, avremo bisogno di una piattaforma open-source per regolamentare gli AV. L’open-source può funzionare in modo più efficiente rispetto all’utilizzo di più piattaforme proprietarie che richiedono che le API funzionino in tandem.

Dove le persone si adattano al futuro AV

Naturalmente, anche supponendo che la tecnologia AV sia open-source e interoperabile, ci sono ancora molte incognite sul futuro AV. La grande domanda, come sempre, è in che modo le persone risponderanno alla nuova tecnologia.

Possiamo fare proiezioni basate su come le persone hanno risposto ad altre tecnologie, come il ride-sharing. Ma alla fine dovremo aspettare che gli AV diventino dominanti per vedere la reale adozione.

Se dovessi dire la mia, ma è una sensazione opinabile, più che un’opinione, dato il potere di interdizione della lobby dei tassisti, è probabile che, a differenza di altri paesi, in cui Uber, se non fallirà prima, lancerà un servizio del genere come alternativa alle auto con conducente, in Italia i primi AV saranno utilizzato nell’ambito del trasporto pubblico.

Quindi, se concedete una battuta, sarà finalmente l’occasione per l’ATAC o chi per lei, di offrire ai romani un servizio decente. Poi si estenderà alle minicar, a tutela degli adolescenti e per la soddisfazione delle loro mamme ansiose, poi alle macchine private… I taxi rimarrano un mezzo residuale, una curiosità per turisti, come le botticelle che si vedono nel centro di Roma…

Numeri elettorali a Roma

Numeri

Come sempre, dopo ogni elezione ci si scanna su chi ha vinto e ha perso, in cui, ci si scanna sui punti percentuali, specie nell’Urbe, dove queste Europee, sono state viste come una sorta di referendum sulla giunta Raggi.

Per cui, per sfizio, mi sono divertito ad esaminare invece le variazioni in termini di voti assoluti nelle recenti elezioni a Roma, che permettono di evidenziare alcuni fenomeni, in ambito della politica locale, che le percentuali nascondono bene. Per onestà intellettuale, ho fatto qualche piccolo aggiustamento, che provvedo ad elencare.

  • Per le amministrative 2016 ho considerato come voti di +Europa quelli dei Radicali, in modo da non avere un buco: per questo vi appare un trend assai peculiare
  • Analogo discorso per voti della Sinistra, per le amministrative del 2016 ho considerato quelli di Sinistra X Roma, mentre per le politiche del 2018 ho considerato quello di Liberi e Uguali. In ogni caso, pur mischiando mele con pere, dovrebbero dare un’idea della consistenza dell’area a sinistra del PD, almeno spero
  • Come voti per le politiche del 2018, per mia pigrizia, mi sono limitato a considerare il proporzionale della Camera. Se vi interessa, qui vi è un’analisi assai più accurato di quel voto.

Trasformando la tabella in grafici, i fenomeni nascosti nei numeri, appaiono più evidenti

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Trasformando la tabella in grafici, i fenomeni nascosti nei numeri, appaiono più evidenti

  1. Il PD, dopo gli schiaffoni presi con la gestione della vicenda Marino, sta parzialmente recuperando il suo elettorato, in parte passato ai Cinque Stelle, in parte alle altre forze di Sinistra. Cosa notevole, visto che la sua opposizione, in Campidoglio, è stata il tra il nullo e l’inconsistente. Recupero che sembra essere più accentuato al I e al II municipio rispetto agli altri, per cui sarebbe il caso che i politici locali si facessero vedere un poco meno i radical chic e più le periferie.
  2. Frequentare le periferie, magari buttandola in caciara, ossia rispondendo con chiacchiere populiste a esigenze concrete, che è invece la chiave di volta del successo romano della Lega, che è sicuramente meno ampio di quello che si è verificato nei paesi della provincia, ma che è sicuramente notevole. Lega che a sicuramente cannibalizzato anche i voti dei suoi alleati del Centro Destra e dei delusi dei Cinque Stelle.
  3. Se dovessimo considerare i dati numerici, la giunta Raggi è stata peggio di Attila, per il Movimento Cinque Stelle. Probabilmente, in futuro il suo nome diventerà sinonimo di vergognosa disfatta elettorale, visto che è riuscita a far perdere ai grillini più del 60% dei voti.
  4. Disfatta elettorale che hanno subito sia Forza Italia, sia Fratelli d’Italia, cannibalizzati dall’ingombrante alleato: se i numeri sono questi, la Meloni difficilmente sarà credibile, come candidata sindaca alle prossime amministrative.
  5. Per +Europa e Sinistra, il problema è identico: parte del suo elettorato, fa il pendolo con il PD…

Il Museo diocesano di Sulmona

Tommaso Vinciguerra, conte di Palena, uno dei principali capitani ghibellini del Centro Italia, era, cosa anche strana per noi moderni, era un devoto seguace di San Francesco, che secondo la tradizione, aveva conosciuto personalmente, quando questi si era fermato nel suo castello.

Secondo questa devozione, crebbe i due figli maschi Simone ed Odorisio e l’ultimogenita Florisenda, nata nel 1239, che i contemporanei definiscono bellissima, che dopo la morte del padre decise di dedicarsi alla vita monastica.

Celando tali pensieri ai fratelli, Florisenda chiese ai suoi fratelli di poter avere la parte di eredità lasciatale dal padre che comprendeva, fra le altre cose, la terza parte del castello di Forca Palena.

Con questa proprietà, e 360 once d’oro ottenute dalla madre, Florisenda si recò a Sulmona, dove acquistò un edificio, ancora esistente in piazza Garibaldi, in cui nacque una comunità di Clarisse di cui ella stessa divenne badessa, il convento di Santa Chiara, fondato, con l’omonima chiesa tra il 1260 e il 1269

Florisenda dovette combattere contro l’avversa volontà dei suoi fratelli che in tutti i modi tentarono di riappropriarsi della parte del castello di Forca Palena di sua proprietà: nonostante l’intervento del Vaticano a difesa delle prerogative della badessa Florisenda e del suo convento, la contesa si protrasse a lungo; il 15 gennaio 1305 Carlo II d’Angiò confermò alle clarisse la donazione dell’eredità di Florisenda, ragione per la quale l’area del castello di Forca Palena prese il nome di Quarto di Santa Chiara.

Intanto, il monastero di Sulmona continuava a crescere: il terremoto del 1456 distrusse la struttura originaria, che venne ricostruita con, il portico del chiostro del 1518, ma di nuovo distrutta nel 1706 da un nuovo terremoto. Nel 1711 iniziò la nuova ricostruzione in stile barocco sotto la direzione dell’architetto bergamasco Pietro Fantoni. Il monastero visse fino all’inizio dell’Ottocento un periodo di crescita, tanto che nel 1837 venne ampliato il dormitorio ed il refettorio, ma dopo poco inizia un lungo ed irreversibile declino fino all’abbandono.

In seguito a due leggi post- unitarie, il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866, che prevedeva la soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n° 2987), e la legge 3848 del 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico, anche il monastero di Santa Chiara andò incontro ad una chiusura definitiva nel 1866 e nel corso del tempo fu destinato a diversi scopi

Il complesso, posto accanto alla chiesa omonima, un cui è presente una pala d’altare di Sebastiano Conca sorge su due piani; il piano terra è occupato da un parlatoio (unico contatto delle monache con l’esterno), dalla cappella interna, dalla cucina, dalle cantine e da altri locali di servizio; il piano superiore era riservato all’educandato ed al dormitorio.

I lavori di restauro, orientati verso la restituzione della forma originaria della struttura, alterata da sovrapposizioni succedutesi nel corso dei secoli, hanno interessato soprattutto il piano terra; nel cortile interno (del 1518) è ben visibile l’intervento radicale operato sul porticato.

Così a valle del restauro, nel 2002 il complesso fu utilizzato come sede del Museo Diocesano,che ccupa tre diversi ambienti, distribuiti intorno al chiostro: la cappella interna per le monache di clausura – che da qui potevano, tramite grate, partecipare alle cerimonie liturgiche nella chiesa – una sala minore e l’ex-refettorio.

Nella prima sala, la Domus Orationis, durante i lavori di restauro furono rinvenute delle sepolture di monache (questa consuetudine cessò con l’editto napoleonico di Saint-Cloud, emanato il 12 giugno 1804, che vietò la sepoltura all’interno delle mura cittadine, adducendo motivazioni di carattere igienico-sanitarie ed ideologico- politiche). Uno degli aspetti più importanti della sala è la presenza di un ciclo di affreschi del XIII secolo raffiguranti episodi della vita di Cristo e di San Francesco che doveva decorare l’intera cappella interna e di cui è visibile solo una parte.

Tra le opere di maggior rilievo spiccano un drappo serico costituito da due pezzi cuciti insieme ed una casula molto rifinita, in seta bianca, broccato oro e taffettà, tra le cui trame è possibile scorgere elementi esotici come elefanti, oltre che gazzelle ed aquile bicipiti. Questa venne rinvenuta insieme ad un paio di stivali di cuoio ed una borsa di seta rossa che, secondo la tradizione, avrebbe contenuto le ossa di San Panfilo.

Nella sala sono presenti, inoltre, opere di alta oreficeria tra cui un calice d’argento dorato, decorato con smalti traslucidi. Questo reca il nome dell’artista, Ciccarello di Francesco di Bentevenga, ed il bollo sulmonese in uso nella seconda metà del Trecento.

Tra le sculture lignee policrome troviamo una statua di Santa Caterina, proveniente da Pescocostanzo, dalla Basilica di Santa Maria del Colle, che testimonia la penetrazione di influssi gotici francesizzanti attraverso l’area partenopea e orvietana.

Cospicua è la presenza di dipinti su tavola e su tela di cui alcuni sono stati attribuiti alla mano del cosiddetto “Maestro di Caramanico”, autore anonimo che si contraddistingue per uno stile che richiama influssi dei modelli toscani e marchigiani, con colori accessi e figure plastiche dai contorni irrequieti.

Attraverso una sala minore, con dipinti su tavola e su tela del XVI secolo e argenti liturgici, si accede al vasto Refettorio – affrescato con il tradizionale Cenacolo – che custodisce delle argenterie e suppellettili liturgiche costituenti il Tesoro di San Panfilo, accresciutosi nel corso degli anni grazie alle donazioni delle famiglie della nobiltà locale.

Vi si trova una cospicua raccolta di paramenti sacri che abbracciano un arco di tempo che va dal XV al XIX secolo.

Vale la pena segnalare, inoltre, la presenza di manoscritti tra cui di notevole importanza è un messale i cui estremi cronologici sono da ricondurre ad un periodo compreso tra il 1255 (per la presenza della festività di Santa Chiara, canonizzata in quell’anno) ed il 1264. L’opera è uno dei più antichi codici francescani sopravvissuti alla distruzione delle Legendae riguardo la figura di San Francesco che venne autorizzata nel Capitolo di Parigi in seguito ai contrasti sorti all’interno dell’ordine.

Tra le pitture, in gran parte pale d’altare dipinte ad olio su tela, alcune vantano attribuzioni ad artisti di fama, come La nascita della Vergine riferita al Cavalier d’Arpino e il San Giacomo Apostolo spettante al bergamasco Paolo Olmo. Di pregio anche la Madonna col Bambino e devoti attribuita al sulmonese Alessandro Salini.

Altro elemento di pregio custodito nel Museo è il Presepe monumentale, realizzato interamente in legno, in circa quattro anni di lavoro, con oltre 1100 pezzi disposti su una superficie di quasi 12 mq, è una fedele e appassionata ricostruzione della vita e dei mestieri della Sulmona tra fine Ottocento e inizi Novecento, che l’autore – l’artigiano Enzo Mosca – ha minuziosamente rappresentato. Tra le varie “scene” riproposte vi è il Mercato – con più di 140 figure, alcune delle quali vestite, principalmente le donne, con costumi tipici abruzzesi – e quella della Natività, che diviene in realtà solo un momento di questa nostalgica e tenera riproposizione della passata quotidianità.

Giorgio d’Antiochia e il Ponte dell’Ammiraglio

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Pochi conoscono la figura di Giorgio d’Antiochia, un greco melchita, nato probabilmente ad Antiochia di Siria probabilmente nel penultimo decennio dell’XI secolo, dal matrimonio di Michele e Ninfa – chiamata anche Teodula (serva di Dio), forse a indicarne la successiva monacazione – morta nel 1140. Dalla moglie Irene ebbe i figli Giovanni, Simeone e Michele.

Sulla sua giovinezza ci forniscono notizie i cronisti arabi at-Tigiānī e Ibn Haldūn, dai quali ricaviamo che svolse mansioni di tipo finanziario ed erariale in diverse città della Siria. L’abilità con cui ricoprì tali incarichi e la pratica acquisita nell’esercizio della computisteria spinsero il principe Tamīm ibn al-Mu‛izz a chiamare lui e il padre a Mahdia, all’epoca capitale dell’Ifrīqiya, corrispondente alla nostra Tunisi, ad affidargli l’amministrazione dell’Erario che sotto la sua direzione migliorò sensibilmente.

Giorgio aveva anche imposto al sultano ziride anche un forte taglio alle spese voluttuarie, cosa che non fu gradita al suo successore Yahya, di temperamento assai più gaudente, che lo pose a una sorta di arresti domiciliari: così il nostro eroe cercò rifugiò nella Sicilia cristiana, imbarcandosi intorno al 1110 su una nave che era diretta a Palermo – mentre essa era ancorata nel porto di Mahdia e i suoi proprietari musulmani erano intenti nella preghiera rituale. Al suo arrivo nella capitale siciliana, Giorgio offrì i suoi servigi al conte normanno Ruggero.

La realtà, probabilmente, fu assai meno romanzesca, da che all’epoca citata dalle fonte arabe, Ruggero era ancora minorenne e il potere nelle mani del consiglio di reggenza: Giorgio fu solo licenziato in tronco e per campare, si mise al servizio di ‛Abd ar-Raḥmān, Crisobulo, un intrigante bizantino, amante della regina madre Adelasia del Vasto e comandante delle guardie saracene, che lo impiegò prima come esattore fiscale e poi lo spedì in Egitto, al capo di un’ambasciata finalizzata a stipulare una serie di trattati commerciali con i fatimidi.

Al ritorno, Giorgio fu nominato tratigoto di Giattini (l’attuale San Giuseppe Iato, in provincia di Palermo), ufficio che non aveva nulla a che fare con quelli di tipo finanziario fino ad allora ricoperti, dato che corrispondeva all’incirca al nostro giudice di pace: Crisobulo, temendone l’intraprendenza, l’aveva probabilmente voluto allontanare della corte.

Nel 1123, però con la scusa di una controversia legata al contrabbando e ai diritti di pesca, scoppiò la guerra tra la Sicilia normanna e il sultanato ziride: dato che Giorgio conosceva bene i luoghi, fu cooptato da Crisobulo nella spedizione militare.

Secondo at-Tigiānī, che però ha la tendenza a gonfiare le cifre, la spedizione comprendeva 300 navi, con a bordo 30.000 uomini e 1.000 cavalli; nonostante questo, si concluse in un mezzo disastro.Le fonti arabe riferiscono che la flotta, spinta da una tempesta, approdò dapprima a Pantelleria, per arrivare poi nei pressi della costa africana, dove gettò l’ancora il 21 luglio. I Siciliani presero il castello di ‛Ad Dīmās e l’isola di ‛Al ‛Ahāsī, ma furono poi costretti a una precipitosa fuga, da cui si salvò solo un terzo della flotta, mentre i 100 soldati che erano stati lasciati a presidio del castello di ‛Ad Dīmās furono massacrati.

Al ritorno, nella convinzione che Giorgio se la cavasse più come burocrate che come soldato, fu nominato Emiro, ossia governatore di Palermo; nel 1129, a causa delle guerre di potere della corte normanna, che fanno impallidire quelle di Westeros, nella convizione di toglierselo da mezzo, Giorgio fu incaricato di sottomettere i territori calabresi, pugliesi e campani, che avevano approfittato degli anni precendenti, per proclamare la secessione e con grande sorpresa dei suoi nemici, se la cavò assai bene

Con Rhegion, la questione si risolse con la promessa di consistenti tagli fiscali. Invece Bari, guidata dal ribelle longobardo Grimoaldo Alferanite dovette essere domata con le armi. Nel 1131 poi guidò la spedizione punitiva nei confronti di Amalfi. Con la morte dell’ingombrante Crisobulo, Ruggero II, che riteneva Giorgio complessivamente fedele, lo nominò amiratus amiratorum, ossia gran vizir.

Nel 1134 la flotta guidata da Giorgio sconfisse i pirati pisani e l’anno successivo, conquistò l’importante isola di Jerba, di fronte alle coste tunisine. Nel 18 giugno 1146 la flotta siciliana, partita da Trapani al comando di Giorgio, conquistò Tripoli in Libia e nel corso dell’anno stabilì l’autorità della Sicilia in Nordafrica su basi permanenti. Aveva già conquistato numerose città costiere nei precedenti 15 anni ma Mahdiyya, che era stata nelle mani di Abū l-Hasan al-Hasan ibn ˁAlī dal fallito attacco del 1123, non capitolò neppure in questa occasione, pur cadendo progressivamente nella sfera d’influenza del Regno di Sicilia.

Nel 1147, Ruggero attaccò l’Impero bizantino che seguitava a contrastare e contestare le sue conquiste nell’Italia meridionale. Giorgio – considerato dai Bizantini una specie di traditore, viste le sue lontane origini natali – inviò da Otranto 70 galee per assaltare Corfù. Secondo Niceta Coniate, l’isola capitolò a causa del gravame costituito dalle tasse imperiali e delle promesse sagaci di Giorgio. Lasciando una guarnigione sul posto, Giorgio fece vela verso il Peloponneso, saccheggiò Atene e rapidamente si mosse alla volta delle isole Ionie. Razziò la costa fra l’Eubea e il Golfo di Corinto e penetrò fin verso Tebe, dove saccheggiò le officine di sericultura e sequestrò artigiani ebrei esperti nella lavorazione della seta. Giorgio coronò la spedizione col saccheggio di Corinto, in cui rubò le reliquie di San Teodoro e quindi tornò in Sicilia.

Nel 1148, Giorgio tornò in Africa e prese infine Mahdiyya. In precedenza il governatore musulmano di Gabès s’era ribellato al suo sovrano, al-Hasan, e promise di consegnare la città a Ruggero II se ne fosse stato da lui confermato nella carica di governatore. La guerra scoppiò inevitabilmente nell’estate del 1148. Giorgio guidò una flotta contro Mahdiyya. Il Sultano andò volontariamente in esilio, portando con sé un autentico piccolo tesoro, e Mahdiyya capitolò. Le città di Sfax e Susa si arresero poco dopo, conquistando tutto il tratto di costa africana che va da Tripoli a Capo Bon. L’Ifrīqiya (odierna Tunisia) fu incorporata nel Regno di Sicilia che così raggiunse il suo apogeo grazie alle conquiste di Giorgio, comprendendo non solo la Sicilia ma anche il Sud Italia, Corfù, Malta, alcuni altri territori greci e parte del Nordafrica.

Nel 1149 Corfù fu ripresa dai Bizantini e Giorgio inviò una flotta di 40 navi nel Bosforo sotto le mura di Costantinopoli, dove egli tentò di sbarcare. Fallendo in ciò, si contentò di razziare le poche villae sulla costa asiatica e colpì con un nugolo di frecce il Palazzo imperiale. Si imbatté nella flotta dell’ammiraglio greco Curupo, con cui si scontrò riuscendo a trovare scampo e a liberare anche il re di Francia Luigi VII, catturato mentre tornava dalle crociate

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Morì poco dopo, nel 546 dell’Egira, secondo il cronista arabo Ibn al-Athīr, corrispondente tra l’aprile 1151 e l’aprile 1152. Giorgio è famoso soprattutto per avere fatto costruire la chiesa della Martorana e il ponte dell’Ammiraglio, sul fiume Oreto, il Wādī al-ʿAbbās di Balarm, un capolavoro di ingegneriache con l’uso degli archi molto acuti sopportaa carichi elevatissimi; inoltre, cone l’apertura d’archi minori tra le spalle di quelli grandi per alleggerire la struttura e la pressione del fiume sottostante

L’Oreto, lungo circa 20 chilometri, ha la sorgente a sud di Palermo, nella cosiddetta Conca d’Oro, lungo la dorsale del Monte Matassaro Renna; da qui in poi scorre verso la periferia sud del capoluogo siciliano per andare a sfociare nel Mar Tirreno. La foce è visibile dal ponte del lungomare Sant’Erasmo. Corso d’acqua a carattere torrentizio, anche nei mesi più caldi conserva un deflusso sufficiente per la presenza di molte sorgive lungo il proprio corso e per la ricchezza della falda che lo alimenta

Ora il Ponte dell’Ammiraglio, a seguito di deliberazione del Senato palermitano, fu consolidato nel 1672 e restaurato nel 1772 dopo una rovinosa piena dell’Oreto di quell’anno. Dobbiamo a Francesco Crispi la notizia, che ne scrive nell’anno 1839 sul giornale “Oreteo”, da egli stesso fondato, che il corso dell’Oreto fu deviato – dopo vari tentativi, durati oltre 10 anni – nel 1786 sia pure non totalmente, perché un suo braccio continuava a scorrere sotto gli archi più meridionali del Ponte dell’Ammiraglio, il quale, così scrive sempre il Crispi, era in gran parte interrato. La deviazione dell’Oreto nel 1786 è riportata anche nel “Dizionario delle strade di Palermo” (1875) di Carmelo Piola.

Per cui, la battaglia che vi combattè Garibaldi, per entrare a Palermo fu combattuta all’asciutto; battaglia, tra l’altro, in cui le fasi salienti si combatterono sul vicino Ponte delle Teste Mozze, chiamato così per la presenza di una la piramide, prima nel piano di Sant’Erasmo, nelle cui nicchie si esponevano le teste dei condannati a morte per decapitazione

Detto ponte – secondario e principale ad un tempo – fu prima in legno e poi, dal 1577, in pietra a due arcate; esso è già presente nella carta topografica di Braun-Hogenberg (1581) e verrà sostituito negli anni 1834-1836 in stile neo-rinascimentale a tre arcate (a sesto ribassato quella centrale, a tutto sesto le due, assai più piccole, laterali)

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Tornando al Ponte dell’Ammiraglio, sappiamo dalle foto dell’epoca, che nel 1910 non solo era asciutta, ma anche coltivata; le cose cambiarono temporaneamente con la grande alluvione del Febbraio 1931. Tra il 20 e il 24 febbraio si riversarono sulla città 618 mm di pioggia, di cui 395 in 50 ore di pioggia ininterrotta tra il 21 e il 23 febbraio. La conformazione di Palermo, una conca posta alla base di alte montagne, facilitò l’aumento del livello dell’acqua, che variava nei diversi punti della città tra i 2 m di via Roma, fino ai 6 m di piazza Sant’Onofrio: in più gonfiarono il flusso d’acqua del Canale Passo di Rigano, il Papireto, il Kemonia ed il fiume Oreto, che ne approfittò per tornare nel vecchio alveo.

Negli anni 1933-1940 quando fu portato a termine il ponte che prolungava Via Oreto (inaugurata nel 1793 e completata nel suo primo tratto nel 1822) oltre Via Stazzone, il corso del fiume fu definitivamente “rettificato” come ancora oggi si può vedere, e il Ponte dell’Ammiraglio fu “isolato”, diventando il gigante sospeso sul nullo che si può vedere oggi

Il Solomon Gursky del Cinquecento

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Tra i partecipanti alla Disfida di Barletta, spicca, per la sua vita lunga e avventurosa, Francesco Salamone, nato probabilmente a Palermo nel 1478, da una coppia di commercianti di origine veneziana, Riccardo e Claudia Del Pozzo, che intorno al 1481, decisero di liquidare la loro impresa e diventare proprietari terrieri, trasferendosi a Sutera e comprandovi numerosi fondi.

Il loro arrivo, probabilmente, alterò gli equilibri locali, tanto da causare una faida con la famiglia Borghese, storici latifondisti locali: faida che condiziò la vita di Francesco, che a sedici anni, il giorno del Corpus Domini, fu aggredito da due membri di tale famiglia, che ebbero la peggio: uno fu ucciso, l’altro ferito gravemente.

Per sfuggire alla vendetta dei Borghese, Francesco scappò in Calabria, dove, per campare, si diede al mestire delle armi, entrando nelle compagnie mercenarie agli ordini di Consalvo di Cordoba contro i francesi. Quando non era impegnato a combattere, invece di spendere il soldo in donne e vino, lo impiegò nello studio, tanto che nel 1498, a Napoli, cominciò il suo addestramento presso l’ufficio tecnico delle fortificazioni, cosa lo renderà esperto sia nella loro progettazione, sia nall conduzione della guerra d’assedio.

Competenza che gli venne utile alla ripresa della guerra tra Spagnoli e Francesi: arruolato nella compagnia di Ignazio Lopez di Ayala, partecipò alla difesa di Barletta e fu praticamente trascinato a forza da Giovanni Capoccio alla disfida. Benché partecipasse controvoglia a tale scontro, disse più volte di ritenere sciocco rischiare la vita per puntigli da bambini, Francesco fu tra quelli che più si distinse per valore.

Nel corso del combattimento abbatte Graiano d’Asti e salvò la vita al conterraneo Guglielmo Albamonte. Prendendo gli spiedi, fatti collocare in precedenza ai bordi del campo dal Colonna, uccise, rischiando di essere travolto, più cavalcature degli avversari, costringendoli a combattere appiedati. Come premio, per tale coraggio, Consalvo di Cordoba, oltre che armarlo cavaliere, gli diede come vitalizio metà delle entrate legate al dazio di Porta Sant’Oronzo.Si narra che Francesco Salamone fece un voto alla Madonna del Soccorso proprio prima della disfida di Barletta, ovvero che in caso di vittoria avrebbe fatto scolpire una statua della Vergine da collocare nella sua cappella gentilizia presso la chiesa del Carmine di Sutera.

Dopo avere partecipato alla battaglia di Cerignola e essere andato, al seguito del Colonna, a Napoli e Roma, visto che i Borghese non avevano intenzione di tornare a litigare con un famoso guerriero, Francesco decise di tornare a casa, nell’aprile del 1504, con l’intenzione di trascorrere il resto della vita come un buon gentiluomo di campagna. Così vendette armi e armature, rispettò il voto fatto a Barletta, consegnando alla chiesa locale una statua della Madonna del Soccorso opera dello scultore Bartolomeo Berrettaro, un fiorentino migrato in Sicilia alla ricerca di nuove commesse, che tra una statua e l’altra commerciava grani, formaggi ed altri generi a Palermo e in tutta Sicilia e mandarli in Toscana reinvestendo i proventi per l’acquisto di marmi, che rivendeva ai suoi colleghi.

Francesco, però ebbe la sfortuna di innamorarsi della figliastra del barone Marino La Mattina, nobile di Polizzi Generosa e barone di Campobello di Licata, che non gradì per nulla tale relazione, tanto da denunciare il nostro eroe come seduttore, dissipatore ed ebreo: quest’ultima cosa, ne avrebbe causato la condanna a morte e l’esproprio dei suoi beni. Per cui, per evitare guai, dovette scappare in fretta e furia, tornando a Roma, ottenendo dal Prospero Colonna, il suo vecchio datore di lavoro, l’incarico di capitano, che seguità nel 1507 al servizio degli Estensi, militando nella compagnia del conte di Potenza Giovanni di Guevara, con l’ottimo stipendio di 150 ducati annui.

Avendo qualche soldino da parte, chiese a Ferdinando II d’Aragona un salvacondotto, per tornare in Sicilia nel 1508, in modo da saldare eventuali debiti e pagare le spese legali del proceso che lo vede imputato: cosa che provocò l’ira di Marino La Mattina, che nel novembre 1509 lo raggiunge a Ferrara e lo sfida a duello. Nello scontro, Francesco ebbe la peggio, tanto da essere ferito alla gola e solo l’intervento di Niccolò d’Este valse a salvargli la vita: guarito dalle ferite fu condannato dal duca Alfonso d’Este a pagare le spese sopportate dal suo nemico, cosa che si guardò bene dal fare.

Non solo: dopo la battaglia di Ravenna, nel 1512 a Reggio Calabria, Francesco sfidò Marino La Mattina a una rivincita; stavolta fu lui ad avere la meglio e non ebbe pietà dell’avversario. Per questo, fu punito dal governo spagnolo, che gli tolsi i proventi daziari di Porta Sant’Oronzo, anche perché nel marzo 1511 il viceré di Sicilia Ramon Foch de Cardona aveva deciso di non procedere nei suoi confronti e quindi non c’era nessun motivo di procedere in questa faida.

Nel 1513, partecipa alla battaglia di Creazzo, dove guida la carica che travolse le truppe veneziano di Bartolome d’Aviano; nonostante questo, sempre gli strascichi del duello di Reggio, viene congedato dagli Spagnoli e deve trovarsi lavoro presso le milizie pontificie.

Nel 1517 fronteggiò nelle Marche le truppe di Francesco Maria della Rovere, che voleva recuperare il ducato di Urbino, dove ne combinò una delle sue; dopo la conquista del castello di Mondolfo, scoppiarono nel campo pontificio dispute tra i fanti italiani ed i lanzichenecchi: Francesco uscì dal castello con le sue compagnie in ordinanza e assieme a Orsino Orsini cominciò a fare fuori tutti i tedeschi che gli capitavano tra i piedi. Due di costoro fuggirono presso il legato pontificio, il cardinale di Bibbiena Bernardo Dovizi, cosa che non fu di nessuna utilità, visto che Francesco, fregandose del suo teorico superiore, li ammazzò ad archibugiate.

Dato che l’esercito pontificio era assai più tollerante di quello spagnolo, la bravata non ebbe particolari conseguente; nel 1521 fu spedito a difendere Parma, dove con la sua esperienza nella guerra d’assedio, riuscì a salvare la città dall’esercito francese, tanto da essere insignito della cittadinanza onoraria dall’allora governatore Francesco Guicciardini e avere un premio straordinario di 3000 ducati.

Dopo avere partecipato alla campagna di Lombardia del 1522, dove guidò lo sciopero dei soldati e ufficiali italiani contro il ritardo nelle paghe e conquistò Genova, nel 1523 entrò al servizio di Francesco Sforza, trasferendosi a Milano, dove affittò un palazzo nei pressi di Porta Comacina. A settembre sconfisse per l’ennesima volta i Francesi, costretti ad abbandonare l’assedio di Cremona, da lui difesa e a febbraio 1524 è nominato responsabile generale della difesa di Milano, ma alla fine di ottobre del 1524, la città cadde in mano dei Francesi; le truppe imperiali, si ritirarono a Lodi, lasciando però una guarnigione di circa 6.000 uomini a Pavia agli ordini di Antonio di Leyva e di Francesco, che non solo si difesero con le unghie e con i denti, ma partecipò assieme all’altra testa matta di Cesare Hercolani alla zuffa che portò alla cattura di Francesco I di Francia, che passò un brutto quarto d’ora e si salvò dal linciaggio solo per l’intervento dal viceré di Napoli Carlo di Lannoy.

Francesco, ricco sfondato per il bottino, il suo patrimonio ammontavas a 25000 scudi, parte in contanti e parte in lettere di cambio, decise di ritirarsi a vita, trasferendosi a Roma, ottenendone la cittadinanza e sposando la nobildonna Bartolomea de Teolis; pur liquidando all’asta parte della sua artiglieria, ne mantiene diversi pezzi, più come ricordo e perché bella Roma pontificia non si poteva mai sapere.

Precauzione che gli venne assai utile durante il sacco di Roma del 1527: i lanzichenecchi, dopo essere stati presi a cannonate dalla sua dimora nel Rione Pigna, capirono che era il caso di starne ben lontani e stipulano una sorta di pace separata con l’ex condottiero, in cui Francesco ottenne la liberazione di alcuni suoi amici ed ex collaboratori. Nel 1529, acquistò dal monastero di San Sisto all’Appia per 2418 ducati la fattoria di Ponte Mammolo un tempo proprietà della chiesa di Santa Maria in Tempulo e nel 1534 un nuovo palazzo, per 1525 scudi, situata presso l’arco di Carmigliano (presso la piazza del Collegio Romano), occupato abusivamente dal vescovo di Civita, che espresse a Francesco in maniera alquanto colorita la sua intenzione di rimanerci a sbafo. Il nostro eroe, però, lo costrinse ad andarsene a cannonate.

Per penitenza, Paolo III Farnese lo costrinse a rientrare in servizio, affidandogli il comando di 2000 fanti che avrebbero dovuto proteggere Reggio e Messina dalle scorrerie dei pirati barbareschi. Visti che questi non si fecero vivi, nel 1535 Francesco tornò a Roma, dove cominciò una lunga e colorita lite con il suo vicino di casa, il governatore di Roma Benedetto Conversini, il quale invitò i suoi servi a rubare fieno e uva dalla fattoria di Ponte Mammolo, dove però furono presi ad archibugiate dal nostro eroe.

A peggiorare la situazione, Francesco scrisse una serie di sonetti in cui prendeva in giro Paolo III, ricordando come la sua nomina a cardinale fosse legata al fatto che la sorella fosse stata amante di Papa Borgia. Conversini sfruttò la situazione per sbattere Francesco al fresco, nel carcere di Tor di Nona, dove fu liberato da Paolo III, a cui, caso strano dato il suo pessimo carattere, l’intemperante siciliano era particolarmente simpatico.

Nel 1547 Francesco rimase vedovo e dopo avere seppellito all’Aracoeli la moglie, fu inviato a Parma dal papa a seguito dell’assassinio a Piacenza di Pier Luigi Farnese, con l’incarico di consulente militare del nuovo duca, occupandosi del progetto di modernizzazione delle mura cittadine e facendo da precettore a uno dei grandi generali del Seicento, Alessandro Farnese, a cui insegnò matematica e scienza delle fortificazioni

Dopo una vita così intensa, Francesco morì alla tenera età di 91 anni. Così lo definì il Baronio

“Gloria insignis..; quae quidem victoria tanta est, tanta virtus, ut nulla Salamoniae familiae, ac urbis Panormitanae in suo ave triumphantis trophaeis et monumentis finem allatura sit aetas

L’avaro (Plaut. Aulul. 713-730)

Studia Humanitatis - παιδεία

di M. BETTINI (ed.), Togata gens. Lettertura e cultura di Roma antica. 1. Dalle origini all’età di Augusto, Milano 2012, pp. 83-85.

Siamo verso la fine dell’Aulularia e ci troviamo di fronte a una delle scene più divertenti e geniali che Plauto abbia mai scritto. Il vecchio e avarissimo Euclione, che per tutta la commedia ha cercato ossessivamente di proteggere la sua pentola d’oro, è stato tradito dall’ansia di nasconderla e, proprio spostandola da un nascondiglio all’altro, si è fatto scoprire dallo schiavo del giovane Liconide, che gli ha così soffiato il tesoro. Euclione non trova più la pentola e si precipita disperato sulla scena, piangendo e gridando come se gli avessero tolto una persona amata. Il giovane Liconide crede invece che il vecchio si disperi perché ha scoperto che sua figlia ha partorito un bambino concepito con Liconide stesso.

EVCLIO Perii ínterii occidi[1]. quó curram?…

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