Tommaso Vinciguerra, conte di Palena, uno dei principali capitani ghibellini del Centro Italia, era, cosa anche strana per noi moderni, era un devoto seguace di San Francesco, che secondo la tradizione, aveva conosciuto personalmente, quando questi si era fermato nel suo castello.
Secondo questa devozione, crebbe i due figli maschi Simone ed Odorisio e l’ultimogenita Florisenda, nata nel 1239, che i contemporanei definiscono bellissima, che dopo la morte del padre decise di dedicarsi alla vita monastica.
Celando tali pensieri ai fratelli, Florisenda chiese ai suoi fratelli di poter avere la parte di eredità lasciatale dal padre che comprendeva, fra le altre cose, la terza parte del castello di Forca Palena.
Con questa proprietà, e 360 once d’oro ottenute dalla madre, Florisenda si recò a Sulmona, dove acquistò un edificio, ancora esistente in piazza Garibaldi, in cui nacque una comunità di Clarisse di cui ella stessa divenne badessa, il convento di Santa Chiara, fondato, con l’omonima chiesa tra il 1260 e il 1269
Florisenda dovette combattere contro l’avversa volontà dei suoi fratelli che in tutti i modi tentarono di riappropriarsi della parte del castello di Forca Palena di sua proprietà: nonostante l’intervento del Vaticano a difesa delle prerogative della badessa Florisenda e del suo convento, la contesa si protrasse a lungo; il 15 gennaio 1305 Carlo II d’Angiò confermò alle clarisse la donazione dell’eredità di Florisenda, ragione per la quale l’area del castello di Forca Palena prese il nome di Quarto di Santa Chiara.
Intanto, il monastero di Sulmona continuava a crescere: il terremoto del 1456 distrusse la struttura originaria, che venne ricostruita con, il portico del chiostro del 1518, ma di nuovo distrutta nel 1706 da un nuovo terremoto. Nel 1711 iniziò la nuova ricostruzione in stile barocco sotto la direzione dell’architetto bergamasco Pietro Fantoni. Il monastero visse fino all’inizio dell’Ottocento un periodo di crescita, tanto che nel 1837 venne ampliato il dormitorio ed il refettorio, ma dopo poco inizia un lungo ed irreversibile declino fino all’abbandono.
In seguito a due leggi post- unitarie, il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866, che prevedeva la soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n° 2987), e la legge 3848 del 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico, anche il monastero di Santa Chiara andò incontro ad una chiusura definitiva nel 1866 e nel corso del tempo fu destinato a diversi scopi
Il complesso, posto accanto alla chiesa omonima, un cui è presente una pala d’altare di Sebastiano Conca sorge su due piani; il piano terra è occupato da un parlatoio (unico contatto delle monache con l’esterno), dalla cappella interna, dalla cucina, dalle cantine e da altri locali di servizio; il piano superiore era riservato all’educandato ed al dormitorio.
I lavori di restauro, orientati verso la restituzione della forma originaria della struttura, alterata da sovrapposizioni succedutesi nel corso dei secoli, hanno interessato soprattutto il piano terra; nel cortile interno (del 1518) è ben visibile l’intervento radicale operato sul porticato.
Così a valle del restauro, nel 2002 il complesso fu utilizzato come sede del Museo Diocesano,che ccupa tre diversi ambienti, distribuiti intorno al chiostro: la cappella interna per le monache di clausura – che da qui potevano, tramite grate, partecipare alle cerimonie liturgiche nella chiesa – una sala minore e l’ex-refettorio.
Nella prima sala, la Domus Orationis, durante i lavori di restauro furono rinvenute delle sepolture di monache (questa consuetudine cessò con l’editto napoleonico di Saint-Cloud, emanato il 12 giugno 1804, che vietò la sepoltura all’interno delle mura cittadine, adducendo motivazioni di carattere igienico-sanitarie ed ideologico- politiche). Uno degli aspetti più importanti della sala è la presenza di un ciclo di affreschi del XIII secolo raffiguranti episodi della vita di Cristo e di San Francesco che doveva decorare l’intera cappella interna e di cui è visibile solo una parte.
Tra le opere di maggior rilievo spiccano un drappo serico costituito da due pezzi cuciti insieme ed una casula molto rifinita, in seta bianca, broccato oro e taffettà, tra le cui trame è possibile scorgere elementi esotici come elefanti, oltre che gazzelle ed aquile bicipiti. Questa venne rinvenuta insieme ad un paio di stivali di cuoio ed una borsa di seta rossa che, secondo la tradizione, avrebbe contenuto le ossa di San Panfilo.
Nella sala sono presenti, inoltre, opere di alta oreficeria tra cui un calice d’argento dorato, decorato con smalti traslucidi. Questo reca il nome dell’artista, Ciccarello di Francesco di Bentevenga, ed il bollo sulmonese in uso nella seconda metà del Trecento.
Tra le sculture lignee policrome troviamo una statua di Santa Caterina, proveniente da Pescocostanzo, dalla Basilica di Santa Maria del Colle, che testimonia la penetrazione di influssi gotici francesizzanti attraverso l’area partenopea e orvietana.
Cospicua è la presenza di dipinti su tavola e su tela di cui alcuni sono stati attribuiti alla mano del cosiddetto “Maestro di Caramanico”, autore anonimo che si contraddistingue per uno stile che richiama influssi dei modelli toscani e marchigiani, con colori accessi e figure plastiche dai contorni irrequieti.
Attraverso una sala minore, con dipinti su tavola e su tela del XVI secolo e argenti liturgici, si accede al vasto Refettorio – affrescato con il tradizionale Cenacolo – che custodisce delle argenterie e suppellettili liturgiche costituenti il Tesoro di San Panfilo, accresciutosi nel corso degli anni grazie alle donazioni delle famiglie della nobiltà locale.
Vi si trova una cospicua raccolta di paramenti sacri che abbracciano un arco di tempo che va dal XV al XIX secolo.
Vale la pena segnalare, inoltre, la presenza di manoscritti tra cui di notevole importanza è un messale i cui estremi cronologici sono da ricondurre ad un periodo compreso tra il 1255 (per la presenza della festività di Santa Chiara, canonizzata in quell’anno) ed il 1264. L’opera è uno dei più antichi codici francescani sopravvissuti alla distruzione delle Legendae riguardo la figura di San Francesco che venne autorizzata nel Capitolo di Parigi in seguito ai contrasti sorti all’interno dell’ordine.
Tra le pitture, in gran parte pale d’altare dipinte ad olio su tela, alcune vantano attribuzioni ad artisti di fama, come La nascita della Vergine riferita al Cavalier d’Arpino e il San Giacomo Apostolo spettante al bergamasco Paolo Olmo. Di pregio anche la Madonna col Bambino e devoti attribuita al sulmonese Alessandro Salini.
Altro elemento di pregio custodito nel Museo è il Presepe monumentale, realizzato interamente in legno, in circa quattro anni di lavoro, con oltre 1100 pezzi disposti su una superficie di quasi 12 mq, è una fedele e appassionata ricostruzione della vita e dei mestieri della Sulmona tra fine Ottocento e inizi Novecento, che l’autore – l’artigiano Enzo Mosca – ha minuziosamente rappresentato. Tra le varie “scene” riproposte vi è il Mercato – con più di 140 figure, alcune delle quali vestite, principalmente le donne, con costumi tipici abruzzesi – e quella della Natività, che diviene in realtà solo un momento di questa nostalgica e tenera riproposizione della passata quotidianità.