Come detto altre volte, i cinesi non hanno la possibilità di utilizzare il debito pubblico come leva per forzare la trattativa sui dazi con Trump, per due motivi specifici: uno per la capacità del mercato di assorbire senza problemi la loro quota di titoli di stato, come successo nell’asta del 28 maggio, sia per problemi intrinsechi alla loro economia.
Infatti le vendite di Treasuries costringerebbero Pechino a trasformare le proprie riserve valutarie da dollari a yuan, il quale si apprezzerebbe quindi in maniera esponenziale, mettendo in crisi, più dei dazi americani, le sue esportazioni; date le difficoltà del mercato interno cinese di assorbire tale sovrapproduzioni, il tutto comporterebbe una crisi economica difficile da gestire.
Anche l’altra arma paventata dal una certa vulgata, le terre rare, è alquanto spuntata: la questione è semplice, nonostante il nome, queste sono tutt’altro che poco diffuse.
Il loro nome, infatti, più che alla loro scarsa disponibilità, è legato all’enorme difficoltà di lavorazione e estrazione del minerale puro; le terre rare devono essere disciolte a più stadi in acidi, filtrate, ripulite, producendo residui tossici e radiattivi.
Ora, questo processo, dannoso per l’ambiente e per la salute pubblica, negli anni Ottanta è stato progressivamente vietato nei paesi occidentali; in Cina, in cui oggettivamente non si è ancora sviluppata una sensibilità analoga, si è preferito barattare la salvaguardia dell’ambiente e la salute con il guadagno.
Ovviamente, Pechino ha provato a sfruttare questo monopolio: nella seconda metà del 2010 la Cina, in una prova di forza con l’hi-tech occidentale, ridusse del 70% l’esportazione delle terre rare mandando alle stelle i prezzi, con picchi superiori all’850%.
Perché di questo evento, teoricamente drammatico, non ce ne è memoria? Perché non avuto impatti concreti: non solo il resto del mondo aveva riserve sufficienti per supplire alla mancanza di alcuni minerali, ma hanno dimostrato come si poteva anche lavorare con quantità più basse di questi elementi.
E la situazione, in dieci anni si è ulteriormente modificata a sfavore di Pechino: un ipotetico embargo ai danni delle imprese americane, oltre a essere facilmente aggirabile da parte di broker di altri paesi, renderebbe semplicemente economicamente competitive le alternative basate sulle “magnetic core-shell nanoparticles”, partendo da complessi basati su un mix tra ferro e cobalto, molto più efficienti, ma meno economiche e rendere conveniente l’estrazione delle miniere in Giappone e in Corea del Nord. Di conseguenza, con una mossa del genere, Pechino strozzerebbe la sua gallina dalle uova d’oro.
Inoltre, benchè ZTE e Huawei riescano a produrre hardware con un ottimo rapporto qualità prezzo (ma mai quanto la Supermicro) hanno ancora il problema di essere dipendenti, in ambito microelettronica, dalla componentistica made in USA. Per cui, in guerra commerciale seria, oltre a pagare lo scotto di essere indietro nell’adozione del paradigma Software Defined, avrebbero diverse difficoltà nello stare indietro all’innovazione in tale campo.
Allora, la Cina non è modo di difendersi dalle pretese di Trump? Paradossalmente, la sua migliore difesa è nell’essere troppo grossa per entrare in crisi. Se la crescita diminuisse sotto il 6% annuo, si scatenerebbero una serie di tensioni sociali e di fallimenti bancari e industriali, che generebbero un’area di instabilità di un miliardo e mezzo di persone, che sarebbe quasi impossibile da gestire sia dall’Occidente, sia dai paesi vicini.
Per cui a Pechino, sapendo che non è interesse USA tirare la corda, posso esercitare la strategica virtù della pazienza e del compromesso…