Ringraziando per la festa di San Giovanni 2019

E pure quest’anno ne siamo usciti vivi e la festa di San Giovanni è stata un successone! Un grazie ai tanti che si sono fatti in quattro per ottenere questo risultato

E’ stato il commento che ho scritto a caldo, al ritorno dall’arco di San Vito. Oggi a mente fredda, non posso che confermare il tutto. La festa di san Giovanni è l’ennesima testimonianza di come l’Esquilino sia un rione vivo, pieno di persone che preferiscono il rimboccarsi le maniche al riempirsi la bocca di proclami, che amano costruire, piuttosto che distruggere, che antepongono il bene comune ai propri interessi personali.

La festa di San Giovanni è il trionfo di questo movimento partecipato, che nasce dal basso, troppo spesso trascurato e abbandonato a se stesso dei nostri amministratori: ma oggi non è il momento di polemiche e di togliersi i sassolini dalle scarpe, ma di ringraziare e celebrare tutti coloro che hanno permesso tale successo, sperando, data la mia veneranda età, di non scordarmi qualcuno.

Don Pasquale, il parroco di San Vito, il nostro padrone di casa, che come ogni anno ci ha accolto e ci ha supportato al meglio. Don Sandro, parroco di Sant’Eusebio, che ci ha messo a disposizione uno dei biliardini per il torneo, organizzato ottimamente da Michele: avremmo voluto fare di più, ma ci siamo dovuti confrontare con una Sovraintendenza cieca e sorda se si demoliscono i villini liberty di Roma, ma pronta a scendere sul piede di guerra, se si vogliono mettere a via Pellegrino Rossi un paio di porte o un cesto da basket per fare giocare i bambini per un pomeriggio.

Giorgio Benigni, don Ugo e suo fratello, di cui non ricordo il nome, che hanno coordinato tutta la baracca, si sono smazzati tutti i permessi e si sono fatti un mazzo tanto per allestire il tutto. Mauro Geria, che ha coordinato la gestione del cibo. Paola Morano, che, nonostante le mille cose che fa, ci ha dato una mano importante nell’organizzazione. Alicia, la nostra strega preferita. Alessandra Galetta con le sue creazioni artigianali.

I ragazzi di Caronte, a Davide Macchia, Andrea Luceri, Andrea Fassi, Francesco Ciamei, Andrea Roscioli, che si sono fatti in quattro per fornirci le pietanze di ieri sera e per servirle al meglio. Massimo Catanzaro della 8 for wine, che ha messo a disposizione il suo vino. Oscar e ai ragazzi di Vale la Pena, che anche quest’anno ci hanno fatto compagnia con le loro birre.

Filippo D’Ascola e Le danze di Piazza Vittorio, per avere animato con allegria ed impegnoo il dopo cena, nonostante i loro giorni incasinati. Giuseppe Puopolo e Coro di Piazza Vittorio, che ci fanno sempre compagnia con il loro splendito commercio.

Marica Liddo e la Caritas, in prima linea nell’assistere i più deboli. Roberto Iacobucci e a tutto il team de Il Cielo sopra l’Esquilino ed Esquilino Rione dei Libri, perché abbiamo un ottimo giornali rionale e uno splendido bookcrossing, alla faccia di una politica che ritiene il Rione indegno di avere una biblioteca.

Andrea Piras e la Casa dei Diritti Sociali, che si fanno in quattro per abbattere, con il loro volontariato, il muro dell’indifferenza. Marta Marciniak e a Migrantour, che aiuta a far conoscere aspetti e lati dell’Esquilino, troppo spesso ignorati. Davide Santoro, Toni Kind e i ragazzi del Retake, che, nonostante le divergenze di opinioni che hanno con il sottoscritto, si fanno in quattro per il Rione.

Emanuela, mia moglie, che mi sopporta ogni anno… E tutti voi, che anche stavolta siete accorsi numerosi e avete apprezzato i nostri sforzi…

Poi, se mi sono sgordato qualcuno, abbiate pazienza…

Festa di San Giovanni 2019

Locandina_San

Domani, è una giornata campale per il Rione: si comincia domani mattina alle 9.00, in cui i ragazzi del Retake, assieme Rete di imprese Monti Alta, si daranno appuntamento a piazza San Martino ai Monti, per un un grande evento che coinvolgerà commercianti e cittadini della zona compresa fra largo Brancaccio e largo Visconti Venosta (compresa stazione Metro B via Cavour), da via Paolina e via del Monte Oppio, in cui si concentreranno sul recupero di muri, serrande e arredi urbani vandalizzati.

Nel corso dell’evento la Rete Monti Alta offre la possibilità di partecipare a una visita guidata che si intersecherà con una performance del coro “Roma, la luce del mondo”.

Mentre alla Casa dell’Architettura, in Piazza Manfredo Fanti, si terrà una giornata che si pone come obiettivo quello di diffondere una cultura legata all’architettura e dei mondi ad essa connessi, nonché di restituire allo stesso tempo un’immagine del mestiere dell’architetto come agente territoriale e sociale. Questo sarà fatto coinvolgendo, anche attraverso momenti ludici, gli abitanti del Rione Esquilino e dell’intera città di Roma.Laboratori per bambini, visite guidate, momenti formativi, concerti e animazioni, tenute anche da Le danze di Piazza Vittorio ed altre attività nella cornice dell’Acquario Romano e del suo giardino.

Infine, nel pomeriggio, il tradizionale appuntamento con la nostra Festa di San Giovanni, come sempre, in via di San Vito, all’arco di Gallieno…

Si comincia alle 17, con la scoperta di Porta Esquilina, del Forum Esquilinum, della chiesa e della cripta di San Vito, che rimarrà aperta per tutta la festa, delle Viperesche e della probabile casa del credo unico samurai nato e cresciuto nel rione.

Al termine della visita alle 18 , cominceranno le visite all’Esquilino multietnico, tenute dai ragazzi e dalla ragazze di Migrantour.

Alle 19.30, ci sarà il tradizionale concerto de Il Coro di Piazza Vittorio, dentro la chiesa di San Vito, mentre alle 20, da una parte comincerà il torneo di Biliardino, dall’altra la cena con la tradizionale Lumacata e tante altre bontà, preparate da tanti locali dell’Esquilino.

Infine dalle 21 in poi, musica popolare e canzone romana a cura de Le danze di Piazza Vittorio… Insomma, dovremmo finire intorno a mezzanotte

Festa della Musica con Le danze di Piazza Vittorio e il Forrò Romano

musica

Come ogni anno, il 21 giugno, solstizio d’estate, si tiene la festa della Musica: iniziata nel 1982 su idea di Jack Lang, il grande ministro della cultura di Mitterand, che tra le tante cose fece realizzare l’Arche alla Défense, la Cité de la Musique, il Grand Louvre, la Pyramide dell’architetto Ieoh Ming Pei, l’Opéra Bastille, invitava tutti i musicisti, professionisti ed amatori a suonare il 21 giugno per le strade delle città francesi.

Dato il successo, la manifestazione si è presto diffusa oltre i confini francesi: dal 1985, anno europeo della musica, il 21 giugno l’evento è stato celebrato in tutta l’UE. Nel 1995 è stato creato un coordinamento tra le varie capitali europee, che ha portato alla stesura della carta di Budapest, caratterizzata dai seguenti principi

  • La Festa della Musica si svolge, ogni anno, il 21 giugno, giorno del solstizio d’estate.
  • La Festa della Musica è una celebrazione della musica dal vivo destinata a mettere in valore la molteplicità e la diversità delle pratiche musicali, per tutti i generi di musica.
  • La Festa della Musica è un appello alla partecipazione spontanea e l’espressione gratuita di tutti i musicisti, professionisti e amatori, solisti e di gruppo, e di tutte le istituzioni musicali. Tutti i concerti sono gratuiti per il pubblico.
  • La Festa della Musica è una giornata eccezionale per tutte le musiche e tutti i pubblici. I coorganizzatori si impegnano a promuovere, in questo quadro, la pratica musicale e la musica dal vivo senza fine e spirito lucrativo.
  • La Festa della Musica è soprattutto una manifestazione all’aperto che si svolge nelle strade, sulle piazze, nei giardini pubblici, nei cortili… Alcuni luoghi al chiuso possono essere ugualmente impiegati ma solamente se praticano la regola dell’accesso gratuito al pubblico. La Festa della Musica è anche l’occasione di investire o di aprire eccezionalmente al pubblico alcuni luoghi che non sono, tradizionalmente, dei luoghi di concerti: musei, ospedali, edifici pubblici ecc.
  • I coorganizzatori si impegnano a rispettare lo spirito e i principi fondatori della Festa della Musica come annunciati in questa carta

Fedele a queste dichiarazioni, Le Danze di Piazza Vittorio, nei Giardini di via Carlo Felice, domani sera alle 19.30 contribuiranno a celebrare la Festa della Musica a Roma; sempre nell’ottica di esplorare nuove culture e abbattere barriere, lo spettacolo di domani sera avverrà in collaborazione con il gruppo Forrò Romano.

Per chi non lo conoscesse il Forrò è la più diffusa danza popolare del nord-est del Brasile, negli stessi anni del samba, attingendo origini europee a livello melodico e origini africane sul lato percussivo, unendo gioia di vivere e malinconia

Secondo un illustre studioso delle manifestazioni culturali popolari brasiliane, Luís da Câmara Cascudo, il nome deriva dalla riduzione della parola “forrobodó” che significa “trascinare i piedi”, “confusione” o “disordine”. Nell’etimologia popolare, il termine si può associare alla locuzione inglese for all, per tutti, frase di invito al ballo usata nelle feste degli immigrati di provenienza inglese e nordamericana. Nonostante ciò tale origine del nome nella realtà è confutata dal fatto che gli insediamenti anglosassoni in tale zona del Brasile si ebbero cinque anni dopo la pubblicazione di un’incisione dal nome “Forró na roça” di Manuel Queirós e Xerém avvenuta nel 1937.

L’accompagnamento musicale è costituito dalla fisarmonica, la zamumba, una sorta di grancassa, triangolo. Le band di forró tradizionale hanno ancora questa formazione, a volte con aggiunta di cavaquinho, che sarebbe il famigerato ukelele, che molti lo ignorano, ma fu portato alle Hawai da immigrati brasiliani, e della batteria

 

Via dell’Acqua Bullicante, la vecchia via Militare e i forti difensivi di fine Ottocento a Roma

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(di Alberto Carluccio – pagina FB Marranella Torpignattara Roma)

In origine era la via Militare (in rosso nella cartina in basso) e, da via Tiburtina, intersecava via Prenestina, via Casilina, via Tuscolana e via Appia.

(Mappa allegata a Michele Carcani, “I forti di Roma, notizie storico-topografiche raccolte da Michele Carcani”, Roma, 1883, tratto da Senato.it)

Poi, nel 1920, i vari tronconi, dopo la smilitarizzazione del 1906, assunsero le distinte denominazioni di via di Portonaccio, via dell’Acqua Bollicante (più tardi Acqua Bullicante, dall’omonima tenuta che seguiva quella di Portonaccio), via di Porta Furba, via dell’Arco di Travertino, via dell’Almone, via di Cecilia Metella. L’utilità era evidente, perché venivano messe in collegamento le strade che uscivano da Roma sul lato est della città. Nella mappa di Michele Carcani, del 1883, la strada è indicata come ferrovia militare, segno che il progetto iniziale, poi abbandonato, fosse quello di divenire una strada ferrata. L’idea…

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Addio e grazie per tutto il pesce

Anche se, oggettivamente, non sono stato tra i clienti più assidui di Andrea e Palmira, ho sempre apprezzato e ammirato il grande lavore che hanno fatto come librai. Ogni volta che entra a Pagina 2, trovavo un consiglio, un sorriso, una parola buona.

A entrambi, da lettore sono riconoscente, perchè mi hanno fatto affrontare viaggi, che da solo, non avrei mai affrontato e scoprire mondi che non avrei mai sognato. Grazie a loro ho scoperto autori, romanzi e generi che, altrimenti, non sarebbero mai entrati nella vita e che, senza dubbio alcuno, mi hanno reso una persona migliori.

Grazie ai libri che mi hanno consigliato, ho riso, sognato e rimesso in discussione tanti miei pregiudizi.

Per cui, quando ho letto su facebook il seguente messaggio, mi è venuto un colpo al cuore.

Cari/care,
vi comunichiamo che a fine luglio la libreria chiuderà.

Lasciamo ad altri valorosi resistenti il difficile compito di gestire e mantenere viva una libreria in questi tempi interessanti.

Sono stati 17 anni intensi, ma è arrivato il momento di fare una scelta, e abbiamo optato per continuare a fare quello che ci piace e ci interessa di più: pubblicare libri. Non si tratta della fine di un’avventura, ma di un passo in avanti. Continueremo infatti a lavorare nel mondo dei libri concentrandoci totalmente sull’attività editoriale della nostra casa editrice, Orientalia.

Se vorrete continuare a seguirci saremmo felici di tenervi aggiornati sulle nostre prossime uscite tramite il sito ufficiale orientalia-editrice.com
e la pagina FB https://www.facebook.com/orientaliaeditrice/

Vi informiamo inoltre che data l’imminente chiusura, da domani MERCOLEDÌ 19 giugno fino a fine luglio faremo una PROMOZIONE imperdibile del 50% sui titoli rimasti in giacenza in libreria

Che dire ? Anche sono dispiaciuto, capisco la loro scelta. Colgo quindi l’occasione per ringraziarli per tutto ciò che mi hanno donato e per augurare loro un grande in bocca al lupo, per la nuova avventura

Onore al Macro Asilo

Il-Macro-a-Roma

A differenza di parecchi soloni, ha grande stima per il coraggio, la sensibilità e l’intelligenza di Giorgio de Finis: ritengo geniale sia il MAAM, sia il progetto del Macro Asilo, il quale, citando la presentazione

trasforma l’intero museo in un vero e proprio organismo vivente, “ospitale” e relazionale, che invita all’incontro e alla collaborazione persone, saperi e discipline in una logica di costante apertura e partecipazione della città e del pubblico. L’ingresso è, infatti, libero per tutti.

L’idea stessa di istituzione museale in questo percorso punta a essere rinnovata con l’intento di tessere una relazione nuova e prolifica tra l’arte e la città. La sperimentazione, in tal senso, riguarda proprio il Museo di arte contemporanea della città e ne indaga la sua funzione civica di istituzione che opera nel tempo presente sulla produzione di sapere, senso e conoscenza, che attraverso l’arte si riesce a mettere a disposizione delle persone. Il Macro Asilo è il primo tassello del Polo del Contemporaneo e del Futuro che si configura come presenza complementare rispetto alle altre istituzioni come MAXXI e Galleria Nazionale, per mettere a disposizione di chi abita in città uno spettro ricco di punti di vista ed esperienze.

È da questa sfida che è partito il lavoro di de Finis, in stretta collaborazione con l’Azienda Speciale Palaexpo, che dal 1 gennaio 2018 gestisce il Museo, e la Sovrintendenza Capitolina che, in quanto struttura di Roma Capitale, preserva la responsabilità sulla conservazione e valorizzazione della collezione del Museo nonché del suo Archivio e della Biblioteca.

Per consentire tutto questo si è partiti da un totale ripensamento degli spazi stessi del Museo e della sua articolazione. Il nuovo progetto di allestimento è stato realizzato dall’architetto Carmelo Baglivo.

Entrando nel Museo il pubblico si trova di fronte a uno spazio profondamente diverso potendo attraversare in maniera libera e casuale tanti diversi ambienti tematici tra cui il salone dei forum, dove a parete viene presentata con una grande quadreria una selezione delle opere della Collezione, una sorta di invito “visivo” a collaborare e stare insieme; al centro di questo salone, il “Tavolo dei tavoli” opera abitabile realizzata per l’occasione da Michelangelo Pistoletto.

Tra le nuove stanze anche quella dedicata a Rome (nome plurale di città), la stanza delle parole (dedicata al vocabolario del contemporaneo), quella di lettura, la stanza dei media, le stanze-atelier (quattro spazi gemelli progettati per gli artisti che realizzeranno un’opera all’interno del museo). Inoltre due “ambienti” d’artista e una project room, stanze-opera che ospiteranno progetti partecipati, installazioni, performance, aggiungendo, nel corso del tempo, altri 50 ambienti a tema che si sommano a quelli già proposti dal museo.

Progetto ambizioso, quello del Macro Asilo, che ha trasformato uno spazio, spesso avulso dalla città, in laboratorio dadaista di sperimentazione culturale, che ha cercato di riaccendere la fiamma della creatività, in una Roma sempre più desertificata culturalmente, che antepone il perbenismo all’utopia e all’avanguardia.

Progetto che ha avuto anche numerosi encomi a livello internazionale e un grande successo di pubblico: 151.000 ingressi in sei mesi, a fronte dei 161.000 del 2016, parlano chiaro e dimostrano quanto sia in malafede Tonelli, ma, d’altra parte lui se su Roma fa Schifo difende gli interessi dei palazzinari romani, su Art Tribune si fa portavoce della lobby dei galleristi e curatori tradizionali, che hanno guardato con il fumo negli occhi un’esperienza così di rottura.

Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, forse il progetto, volendo assecondare in tutti i modi le paturnie e le vanità degli artisti, a volte è stato troppo dispersivo e autoreferente, privo di un centro unificante: ma sono quisquiglie che si possono perdonare e con il tempo si sarebbero facilmente superate.

Ma il Comune di Roma ha deciso altrimenti, lanciando il progetto alternativo del Polo delle culture contemporanee, che in vena di buone intenzioni vedrà coinvolti, oltre al Macro, anche Palazzo delle Esposizioni e il Mattatoio, la cui direzione sarà affidata a un bando pubblico, che ha come termine per presentare le candidature il 22 luglio 2019.

Per il Macro, l’ambizione è, citando il bando

valorizzare l’apertura, la pluralità, le pratiche discorsive, verso una trasformazione della figura del visitatore che contribuisce alla creazione di contenuti, incoraggiando la presenza di studenti e promuovendo la ricerca e la sperimentazione artistica nazionale e internazionale. Particolare importanza sarà data alla collaborazione con le Accademie e gli Istituti di cultura presenti a Roma

Propositi in neolingua, che, detto tra noi, significano tutto e nulla.

Più concretezza, in quanto previsto per il Palazzo delle Esposizioni, spazio dedicato alle mostre più digeribili per il grande pubblico. Tra le mostre previste nel prossimo biennio, tra le altre, sono già in programma: Sublimi Anatomie, una mostra sull’osservazione storica e contemporanea del corpo umano, Carlo Rambaldi e Makinarium, gli effetti speciali visuali declinati secondo la tradizione artigianale della ”meccanotronica”; Tecniche di evasione, sulle modalità del dissenso degli artisti nell’Europa dell’Est; due grandi retrospettive dedicate a Jim Dine e a Gabriele Basilico e, nell’ottobre 2020, la XVII edizione della Quadriennale.

Infine, il Mattatoio diverrà il nuovo Laboratorio permanente sui linguaggi della performance. La Pelanda costituirà un polo di ricerca, produzione, presentazione e formazione interdisciplinare dedicato alla performance nei quattro ambiti principali di arti visive, musica, teatro e danza.

Per cui, tutto bene? In teoria diciamo di sì, però, visto il rapporto tragicomico esistente tra l’amministrazione Raggi e i bandi pubblici, sono pronto ad aspettarmi le cose più assurde…

Balilla ?

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Ieri sera, come ogni anno, si è celebrata la festa di via Balilla e come spesso accade, c’è sempre qualcuno che storce il naso, scambiando il nome della strada con un elogio del fascismo.

In realtà, questo ricorda ben altro: per capirlo dobbiamo fare un piccolo salto indietro, ai tempi della guerra di successione austriaca.

Questa fu combattuta tra il 1740 e il 1748, vide alcuni Stati europei coalizzati contro l’Austria per impedire l’ascesa al trono imperiale di Maria Teresa, figlia di Carlo VI. L’imperatore, essendo privo di eredi maschi e rendendosi conto dell’impossibilità di averne, aveva abrogato la legge salica (che escludeva le donne dalla successione al trono) e stabilito, con la Prammatica Sanzione il diritto alla successione anche per la discendenza femminile. La Prammatica Sanzione, che assicurava la successione alla figlia Maria Teresa, era stata riconosciuta dalle maggiori potenze europee.

Ma quando Carlo VI morì, nel 1740, il nuovo re di Prussia Federico II, gli elettori Carlo Alberto di Baviera e Augusto III di Sassonia, il re di Spagna ed il re di Sardegna non si ritennero vincolati dai patti. La Prammatica Sanzione risultò dunque inutile nella lotta per il potere in Europa.

Federico II si mosse per primo ed occupò la Slesia, allora parte del ducato d’Austria. Seguendo la sua tradizionale linea anti-asburgica, anche la Francia entrò in campo, a fianco appunto della Prussia, della Spagna, della Baviera, della Sassonia e del Regno di Napoli. A favore di Maria Teresa intervennero invece l’Inghilterra, l’Olanda e il Regno di Sardegna.

Da questo manicomio, la Repubblica di Genova se ne sarebbe stata ben fuori, se non fosse per il Regno di Sardegna, che ne approfittò dell’occasione per tentare di annetterla. Per evitare problemi, Genova dovette dichiarare guerra ai Savoia, proclamando al contempo la sua neutralità sulle beghe viennesi.

Maria Teresa, poco convinta da questo balletto diplomatico, mandò le sue truppe a supporto di quelle di Torino; a peggiorare il tutto era il fatto che a capo del corpo di spedizione austriaco vi fosse Antoniotto Botta Adorno, il quale aveva il dente avvelenato con la Repubblica.

Il padre, patrizio genovese, era stato condannato all’esilio e alla confisca dei beni per un tentato colpo di stato nei confronti del doge. Così lo storico Federico Donaver rievoca, nella sua Storia di Genova (1890), questa pagina di storia ed il rapporto tumultuoso che Botta Adorno – definito dai cittadini il Tedesco – ebbe con la città:

Gli austriaci sotto il comando del generale Brown superata la Bocchetta scesero a Campomorone e il 4 settembre entrarono in Sampierdarena. Impaurito il governo e spaventata la cittadinanza tutta dalla vicinanza del nemico, fu mandato al generale Brown un rinfresco che venne respinto … In quel subito balenò l’idea della resistenza, e forse se il governo fosse stato meno timoroso i genovesi avrebbero potuto far pagare ben cara agli austriaci la loro prepotenza, assalendoli quando le acque della Polcevera improvvisamente inondarono il loro campo da affogarne un migliaio; ma lasciata passare l’occasione e arrivato il domani, giorno 6, il generale Botta Adorno a pigliare il supremo comando dell’esercito imperiale, questi trattò ancora più aspramente gli inviati genovesi Marcellino Durazzo e Agostino Lomellini, dichiarando che se entro poche ore non era soddisfatto delle domande contenute in un foglio loro consegnato [in pratica la resa della città], avrebbe usato la forza.

Genova tentò di trattare, ma Quando il doge Brignole Sale solennemente s’inginocchiò davanti al generale, domandando pietà per la città, Botta Adorno rispose con la celebre frase:

“Ai Genovesi non lascerò che gli occhi per piangere”.

Le condizioni di resa, infatti, erano durissime: Genova doveva cessare ogni ostilità, consegnare al nemico le porte della città, cedergli le proprie artiglierie, lasciare libero il passaggio nel territorio alle truppe austriache, mandare a Vienna il doge e sei senatori a implorare il perdono e soprattutto pagare un fortissimo tributo di guerra: tre milioni di scudi d’argento, una somma pari alle entrate che la Repubblica percepiva in cinque-sei anni.

I patti suddetti dovevano essere accettati entro ventiquattro ore. Genova perciò fu costretta ad accettare le pesanti condizioni e a pagare l’indennità in tre rate: una entro due giorni, la seconda entro otto giorni e la terza entro quindici giorni. Genova, non avendo tale disponibilità economica, chiese uno sconto, ma il Botta Adorno non solo rifiutò, ma alzò la quota di un altro milione, mettendo in ginocchio la città, che dovette aumentare la pressione finanziaria e peggiorare le già difficili condizioni del basso popolo.

E il relativo malcontento, portò alla rivolta popolare: secondo la tradizione, Un reparto austriaco, infatti, stava trasportando un mortaio attraverso il quartiere Portoria, quando il mortaio rimase impantanato nel fango. L’ufficiale ordinò con arroganza ai popolani presenti di rimuoverlo dal fango e non ottenendo risposta arrivò ad usare la forza. All’ordine, tuttavia, rispose un ragazzo di appena 11 anni, Giovan Battista Perasso, conosciuto in seguito come Balilla, che affrontò gli invasori con il lancio di una pietra, al grido

“Che l’inse?”

cioè «Comincio io?», «La comincio?», o secondo altre testimonianze

“La rompo?”

seguito poco dopo dalla folla che riunitasi intorno al mortaio mise in fuga il reparto austriaco. Il giorno seguente alcuni soldati austriaci si presentarono nuovamente sul posto per rimuovere il mortaio, ma furono accolti da sassate e fucilate e furono costretti a fuggire nuovamente. Il popolo quindi cominciò a farsi coraggio, riuscì a procurarsi le armi, a tirar su barricate e a rispondere agli spari degli invasori.

La rivolta durò tre giorni, con gli austriaci che ribattevano con forza.

“Il Botta ha la testa dura, ma il popolo l’ha più dura di lui”

disse un nobile genovese. Ora per decenni si è discusso dell’identità, alquanto fumosa, di Balilla, tanto da essere considerato una figura quasi leggendaria, finchè negli ultimi vent’anni sono saltate fuori tre testimonianze dirette dell’epoca: un dispaccio di un agente veneziano del 1746, in cui si cita l’inizio della rivolta a Portoria, con i tumulti guidati da tale Balilla, un resoconto di un soldato piemontese di Aglié, che afferma di essere stato testimone oculare dei fatti, e il diario di un mercante inglese, in cui è citato il nome Perasso.

Quindi tutto risolto ? Neppure tanto, perché all’epoca sia il soprannome Balilla, sia il cognome Perasso erano assai comuni: per di più, le tre fonti concordano, a differenza quanto affermato dalla tradizione sul fatto che questo Balilla fosse un adulto e parlano genericamente di “schioppettate”, invece dell’episodio della sassata.

Ma come si è arrivati quindi alla versione del ragazzo, che, come il biblico David, abbatte il gigante lanciando sassate ?

Come sempre accade in Italia, la questione è assai complicata: l’insurrezione aveva messo in luce le forze contestatarie e plebee, profondamente anti-patrizie, che alla fine imposero un’assemblea popolare al posto dei consigli dei patrizi. Il doge parve accettare di buon grado questa piccola rivoluzione che, fatto assolutamente unico nella storia della repubblica oligarchica, per la maggior parte del suo mandato (da dicembre 1746 alla primavera 1748) diede a Genova un governo a base democratica. Governo, in cui, tra i suoi membri non appare nessun Perasso.

Tuttavia, i caporioni popolari non tardarono a combattersi e divenne chiaro che solo “i Magnifici” potevano governare. Le leggi straordinarie furono presto abrogate e le istituzioni originarie della Repubblica ripresero il loro normale funzionamento. Di conseguenza, La nobiltà genovese aveva tutto l’interesse a far calare l’oblio su quei tumulti per facilitare il ritorno a una concordia interna garantita dall’ordine oligarchico; e così nessuno si preoccupò di approfondire i fatti di Portoria.

Tutto sarebbe stato quindi dimenticato, se non ci avesso messo lo zampino Armand de Vignerot du Plessis, nipote del famoso Cardinale Richelieu, gran combattente e gran seduttore, sembra che Choderlos de Laclos si sia ispirato alla sua vita per il personaggio di Valmont de Les Liaisons dangereuses, che per bieca autocelebrazione, fece stampare un manifesto, dove le truppe francesi, da lui guidate, correvano in aiuto a un ragazzino che lanciava un sasso contro un ufficiale tedesco.

Il console veneziano a Genova, che aveva orecchiato come nella rivolta centrasse un certo Balilla, scambiò quel manifesto per un resoconto fedele dei fatti: così nel 1747, in un dispaccio inventò dal nulla la storia del bambino Balilla.

Storia che girò per l’Italia, ma di cui a Genova si sapeva ben poco, almeno sino alla caduta della Repubblica aristocratica nel 1797, quando il giacobinismo genovese le attribuì una coloritura patriottica e nazionale che fu il punto d’avvio di una lunga teoria di manipolazioni interpretative. Per cui, ignorando il vero Perasso, che probabilmente all’epoca era già bello che defunto e che da poveraccio qual’era, non era stato filato da nessuno, si scatenò la caccia a identificare il presunto ragazzino, che terminò con il Congresso di Vienna, dato che a Torino, non vi era nessun interesse a esaltare un rivoltoso contro le sue truppe.

Le cose cambiarono nel Risorgimento, quando, evitando di sottolineare la presenza sabauda, Balilla acquisì una valenza patriottica di lotta contro gli austriaci e al contempo, fu proposto come modello ai bambini italiani.

Vennero creati dolci con il suo nome, fu citato nell’Inno di Mameli, nel 1915, in piena febbre propagandistica contro Vienna, gli fu dedicata una classe di sommergibili e nel 1918 il caccia ricognitore Ansaldo A.1

Nel 1923 il duo Giuseppe Blanc e Vittorio Emanuele Gaeta scrissero la canzone patriottica Balilla! che fu una sorta di hit dell’epoca, che rilanciò il termine come sinonimo di bambino vivace e dispettoso: tra l’altro nel film Totò, Peppino e la malafemmina il brano di colonna sonora che sottolinea ogni volta il lancio di un sasso contro la finestra dell’odiato vicino di casa è la fanfara di tale canzone.

Con questo nuovo significato semantico, gli fu intitolata l’organizzazione giovanile del regime fascista che inquadrava i bambini dagli 8 agli 11 anni, chiamata Opera nazionale balilla. “Balilla” era il nome generico con cui si indicavano i bambini obbligatoriamente iscritti a questa organizzazione.

E infine, nel 1932, la Fiat 508 Balilla, con la quale ebbe inizio la motorizzazione di massa in Italia.

La Casa Martorana

La Casa Martorana, il luogo dove nacque la frutta martorana, sotto molti aspetti è una sintesi della storia di Palermo: sino a poco tempo fa, si pensava come in origine fosse il palazzo della contessa Adelicia de Golisano, nipote prediletta di Ruggero II, che rimasta vedova, si ritirò a vita monastica nel suo castello di Adernò, lasciandolo in eredità coniugi Goffredo e Aloisya de Marturano.

Coniugi che non avendo eredi, nel 1194 decisero di utilizzare la struttura per fondarvi un monastero basiliano, che dopo qualche anno fu a sua volta ampliato con una donazione concessa da Pagano de Parisio conte di Alife e di Butera.

Nel 1434 re Alfonso d’Aragona concesse la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio alle monache dell’antico convento. Da questo momento la storia del monastero della Martorana sarà per sempre legata a quella della splendida chiesa voluta dal grande ammiraglio di re Ruggero, Giorgio d’Antiochia. Da alcuni documenti storici si rileva che intorno alla prima metà del XV secolo le monache della Martorana iniziarono una serie di trasformazioni delle antiche fabbriche normanne del convento e della chiesa dell’Ammiraglio.

Dopo avere acquistato il terreno dietro il cortile del pozzo, che si apriva su una stretta stradina ortogonale all’attuale via di Teatro Bellini, relizzarono un nuovo accesso con la costruzione del parlatoio, del portico e del chiostro. L’opera di ampliamento e modifica proseguirà nei secoli successivi, fino ai primi anni del XVIII secolo, per motivi legati alla necessità di reperire nuovi spazi, visto che la comunità di suore si era notevolmente incrementata.

Oltre alle trasformazioni volute dall’uomo si aggiunsero i danneggiamenti provocati dalle calamità naturali. Nel 1539 un violento terremoto distrusse parte del monastero, successivamente, nel 1555, un’inondazione provocata dal fiume Kemonia, detto pure “Fiume del maltempo”, arrecò seri danni all’intero complesso edilizio: in questa occasione le monache furono costrette a trasferirsi a palazzo Ajutamicristo finché non furono terminati i lavori di riparazione. Nello stesso anno la peste fece molte vittime a Palermo coinvolgendo anche le monache del convento della Martorana.

Alla fine del XVI secolo viene attuato dal senato cittadino il taglio di una strada che intersecandosi con l’antico Cassaro divide la città in quattro parti. Fu questa la più grande e coerente ristrutturazione urbana dei tempi moderni.

La “Strada nuova” sarà chiamata via Maqueda, in onore del vicerè dell’epoca, don Bernardino de Cardines duca di Maqueda. L’apertura della nuova strada, determinò la costruzione di un nuovo prospetto del complesso monastico della Martorana, per il desiderio delle suore del convento di possedere il fronte principale sulla prestigiosa via. Per raggiungere l’ambito affaccio anche sul Cassaro e potere assistere, non viste, allo svolgimento delle solenni processioni, nel 1765 le suore della Martorana chiesero a Francesco Maria Guggino barone del Guasto, il permesso di costruire un belvedere con loggia metallica protetta da ”gelosie” al terzo piano del suo palazzo ad angolo tra via Maqueda e il Cassaro. Per consentire alle suore di recarsi nel belvedere, l’architetto Nicolò Palma realizzò un camminamento sotterraneo che attraversava il piano di San Cataldo e il piano del Pretore.

Nel 1866 l’antico convento viene espropriato dalle autorità cittadine e chiuso.Nello stesso anno, inizia una campagna di restauri promossa dal Patricolo e proseguita dal Valenti che metteranno in evidenza il nucleo originario di casa Martorana.

Un decennio dopo, nel 1877, il complesso dell’ex monastero diviene sede della scuola degli ingegneri. Ospitava inoltre la scuola di Belle Arti e il gabinetto di Chimica annesso alla scuola superiore delle zolfare. A causa dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il monastero fu quasi distrutto: restarono solo i resti di una sala nobile, dell’atrio porticato scoperto e alcune monofore ogivali, che nel dopoguerra furono integrati nella sede della facoltà di architettura.

Però, grazie alle fotografie di inizio Novecento, abbiamo un’idea abbastanza chiara di come fosse il complesso: si trattava di una casa torre, tipica dell’alta nobiltà normanna.La casa si articolava attorno ad un cortile porticato scoperto verso cui confluivano vari ambienti. Un’elegante portichetto dalle ariose arcate poggiate su alti piedritti, di cui restano solo alcuni magnifici capitelli compositi, davano prestigio alla residenza della contessa di Golisano. Della “sala nobile” resta una nicchia tra due colonnine con capitelli fatimidi e una bellissima porta lignea finemente intagliata ad arabeschi, oggi conservata al museo di palazzo Abatellis, che fa pensare come alla struttura fosse preesistente una moschea o una madrasa.

Una bella fontana settecentesca si trova in un cortile interno circondata da un piccolo giardino. La fontana, di gusto barocco con la vasca a forme mistilinee, è ornata da dodici antiche colonnine di porfido con capitelli a foglie d’acqua.

Dell’antico monastero della Martorana rimangono anche altri resti scultorei e pittorici. Degni di nota sono il piccolo bassorilievo raffigurante S. Biagio inserito nel muro del corridoio dove si trova un arco con lo stemma dell’arcivescovo Simone di Bologna e un’affresco cinquecentesco che raffigura la Madonna Odigitria con Bambino. Questo affresco originariamente si trovava sul muro di case adiacenti al monastero, dette “carceri vecchie”.

Il 31 agosto del 1671 fu trasferito nel monastero e per volontà della badessa dell’epoca, incorporato in un muro vicino alla porta del vestibolo d’accesso alla clausura. Un magnifico soffitto ligneo cassettonato, che probabilmente si trovava nella chiesa di San Simone, copre un’ambiente con due poderose arcate del XV secolo.

La storia di quest’area, di per sè assai complessa, si è arricchito di altri tre tasselli, grazie agli scavi degli ultimi anni. Il più antico consiste nella scoperta in via del Celso, di una strada romana che si sovrappone a una precedente di epoca fenicia, che ci ha testimoniato l’incredibile continuità nei secoli del suo tessuto urbano.

A questo segue la scoperta della lapide funerea, con iscrizione greca, dedicata a Irene, la dotta moglie dell’ammiraglio bizantino Giorgio di Antiochia, comandante della flotta del Regno di Sicilia all’epoca sotto Ruggero II e fondatore della Chiesa della Martorana, realizzato utilizzando un bassorilievo di epoca precedente, probabilmente proveniente dalla stessa chiesa.

Infine, proprio dalla Casa Martorana, la scoperta di un’elsa di una spada medievale, forse un ex voto, databile alla fine del 1.200, che si caratterizza per le dorature a mercurio e le iscrizioni di versi del Nuovo Testamento

Riccio da Parma

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Riccio da Parma, uno dei partecipanti alla disfida di Barletta, il cui vero nome era Domenico de’ Marenghi, era un figlio d’arte: suo padre Cristoforo, soprannominato Riccio di Soragna, a quanto la pare i boccoli erano una caratteristica di famiglia, era un uomo d’armi che aveva combattuto agli ordini di Bartolomeo Colleoni e Ludovico Sforza.

Il giovane Domenico, nei primi tempi si trovò a combattere accanto al più noto ed esperto genitore, finché questi non cadde nella battaglia di Fornovo; nonostante questo, continuò a servire lo Sforza, conquistando una certa nomea come “strenuo uomo”, definizione che si ritrova in alcuni atti pubblici datati 1500 e 1501. Una riprova del suo valore si ebbe durante la battaglia di Novara, quando, circondato dagli avversari, con una improvvisa sortita attraversò le linee nemiche, ponendosi in salvo.

Visto che Ludovico Sforza era alquanto parco nel pagare il soldo, Riccio andò a Roma per mettersi al servizio di Prospero Colonna, all’epoca alleato degli spagnoli, che lo associò alla compagnia del duca di Termoli Andrea da Capua. Data la sua fama di combattente indomito, fu scelto come combattente a Barletta, dove scese in campo mostrando le sue insegne: stemma con croce d’argento e un piccolo riccio nel mezzo, in campo azzurro.

Durante lo scontro, smontò da cavallo ed abbattè da terra alcune cavalcature dei campioni francesi. Licenziate le truppe al soldo degli spagnoli, nel 1505 Riccio tornò a Parma; due anni dopo fece testamento, uno dei tanti che chi era impegnato nel mestiere delle armi era solito redigere prima di affrontare un’altra rischiosa impresa.

Nel 1506, infatti, gli fu concesso da Charles d’Amboise il comando di 300 fanti per combattere i Bentivoglio a favore dello stato della Chiesa; campagna in cui Riccio, più che a combattere, si impegnò a taglieggiare contadini e mercanti. Nel 1509, poi fallì nel tentativo di arruolare 500 fanti, per soccorrere marchese di Mantova Francesco Gonzaga minacciato dai veneziani.

Ancora peggio, andò nel 1510, dove fu costretto, per mancanza di pagamenti, a lasciare il servizio del re di Francia. Vista la malasorte, degna di Brancaleone da Norcia, Riccio si ritirò a vita privata, diventando una sorta di cacciatore di dote. Il suo riscatto avvenne però nel 1521, nell’assedio di Parma; fu praticamente costretto a randellate in capo a indossare di nuovo l’armatura dal suo vecchio compagno d’armi Francesco Salamone, che aveva combattuto con lui a Barletta.

Nonostante i timori e lo scetticismo del Guicciardini, difese con inaspettato eroismo lo strategico bastione della Stradella. Il Consiglio degli Anziani di Parma, per riconoscenza, ricompensò Riccio con un generoso vitalizio, che gli risolveva tutti i problemi economici.

Purtroppo il nostro eroe godè ben poco di questo inaspettato benessere, perché morì per la peste che mietè molte vittime nel 1523. La cittadinanza, riconoscente, proclamò il lutto e, a proprie spese, provvide agli onori funebri.

Riccio lasciava sette figli: Annibale, nato dal primo matrimonio con Giovanna Pallavicino dei marchesi Pellegrino; Girolamo, avuto da Andriola De Lucanis, sposata in seconde nozze e cinque femmine, alle quattro ancora nubili, una speciale ordinanza comunale garantiva una dote di cento lire imperiali.

Mission Folk a Km 0

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Come forse sapete, Le danze di Piazza Vittorio, ogni mese organizzano la loro mission folk, un viaggio per i luoghi d’Italia, alla scoperta della musica, della danza e della cultura popolare.

Mission folk che, mostrandoci le nostre radici, ci hanno fatto conoscere meglio ciò che siamo: questo giugno, però, ce ne concediamo una a km 0… Parteciperemo infatti alla festa di via Balilla, qui all’Esquilino.

Dal 1991, infatti, gli abitanti di questa stradina, la chiudono al traffico, tolgono le auto e organizzano tavoli pieni di cibo e di vino e spettacoli musicali, dal complessino con chitarra, flauto e bonghi al dj set.

Una festa anarchica e libertaria, che afferma il ruolo dell’Arte e della Musica come strumento di recupero di una nuova socialità e del recupero degli spazi urbani, che esalta la partecipazione dal basso e la condivisione, in cui tutti, dal grande regista al trans, trascurando le apparenze e futili differenze, si mostrano per ciò che sono, esseri umani.

Una festa che, più che un grido di protesta, è un solenne pernacchione nei confronti di burocrati ottusi, di politicanti da strapazzo incapaci di distingere il grano dal loglio, da bempensanti ipocriti che nascondono dietro il presunto amore per la legalità accordi sottobanco e interessi personali: perchè nella loro piccolezza, non meritano la nostra ira, come diceva il saggio Guccini,

tornate a casa nani, levatevi davanti, per la mia rabbia enorme mi servono giganti

ma solo, un profondo e gargantuesco riso.

Perchè, per quanto possano agitarsi, come galline decapitate, non sono che polvere, spazzata dal vento della Storia.

Tutti questi valori, noi de Le danze di Piazza Vittorio, li condividiamo e li facciamo propri, essendo ciò che guida le battaglie che combattiamo ogni giorno. Per questo, siamo orgogliosi di partecipare alla festa di va Balilla.

Prima di concludere, però, qualche indicazione di servizio per amici e simpatizzanti.

  • I residenti della via cucinano, ma, poiché i partecipanti di anno in anno sono sempre di più, è una forma di rispetto nei confronti della loro disponibilità portare un contributo…alimentare(dolce, salato, liquido) da mettere sulle tavole imbandite.
  • Faremo il nostro solito casino, cantando, ballando e suonando.
  • E utile portare sedie e tavoli, perché ahimè, di questi c’è sempre carenza.
  • Per i rifiuti, di solito, ci sono bustoni agganciati agli alberelli.