
Ieri sera, come ogni anno, si è celebrata la festa di via Balilla e come spesso accade, c’è sempre qualcuno che storce il naso, scambiando il nome della strada con un elogio del fascismo.
In realtà, questo ricorda ben altro: per capirlo dobbiamo fare un piccolo salto indietro, ai tempi della guerra di successione austriaca.
Questa fu combattuta tra il 1740 e il 1748, vide alcuni Stati europei coalizzati contro l’Austria per impedire l’ascesa al trono imperiale di Maria Teresa, figlia di Carlo VI. L’imperatore, essendo privo di eredi maschi e rendendosi conto dell’impossibilità di averne, aveva abrogato la legge salica (che escludeva le donne dalla successione al trono) e stabilito, con la Prammatica Sanzione il diritto alla successione anche per la discendenza femminile. La Prammatica Sanzione, che assicurava la successione alla figlia Maria Teresa, era stata riconosciuta dalle maggiori potenze europee.
Ma quando Carlo VI morì, nel 1740, il nuovo re di Prussia Federico II, gli elettori Carlo Alberto di Baviera e Augusto III di Sassonia, il re di Spagna ed il re di Sardegna non si ritennero vincolati dai patti. La Prammatica Sanzione risultò dunque inutile nella lotta per il potere in Europa.
Federico II si mosse per primo ed occupò la Slesia, allora parte del ducato d’Austria. Seguendo la sua tradizionale linea anti-asburgica, anche la Francia entrò in campo, a fianco appunto della Prussia, della Spagna, della Baviera, della Sassonia e del Regno di Napoli. A favore di Maria Teresa intervennero invece l’Inghilterra, l’Olanda e il Regno di Sardegna.
Da questo manicomio, la Repubblica di Genova se ne sarebbe stata ben fuori, se non fosse per il Regno di Sardegna, che ne approfittò dell’occasione per tentare di annetterla. Per evitare problemi, Genova dovette dichiarare guerra ai Savoia, proclamando al contempo la sua neutralità sulle beghe viennesi.
Maria Teresa, poco convinta da questo balletto diplomatico, mandò le sue truppe a supporto di quelle di Torino; a peggiorare il tutto era il fatto che a capo del corpo di spedizione austriaco vi fosse Antoniotto Botta Adorno, il quale aveva il dente avvelenato con la Repubblica.
Il padre, patrizio genovese, era stato condannato all’esilio e alla confisca dei beni per un tentato colpo di stato nei confronti del doge. Così lo storico Federico Donaver rievoca, nella sua Storia di Genova (1890), questa pagina di storia ed il rapporto tumultuoso che Botta Adorno – definito dai cittadini il Tedesco – ebbe con la città:
Gli austriaci sotto il comando del generale Brown superata la Bocchetta scesero a Campomorone e il 4 settembre entrarono in Sampierdarena. Impaurito il governo e spaventata la cittadinanza tutta dalla vicinanza del nemico, fu mandato al generale Brown un rinfresco che venne respinto … In quel subito balenò l’idea della resistenza, e forse se il governo fosse stato meno timoroso i genovesi avrebbero potuto far pagare ben cara agli austriaci la loro prepotenza, assalendoli quando le acque della Polcevera improvvisamente inondarono il loro campo da affogarne un migliaio; ma lasciata passare l’occasione e arrivato il domani, giorno 6, il generale Botta Adorno a pigliare il supremo comando dell’esercito imperiale, questi trattò ancora più aspramente gli inviati genovesi Marcellino Durazzo e Agostino Lomellini, dichiarando che se entro poche ore non era soddisfatto delle domande contenute in un foglio loro consegnato [in pratica la resa della città], avrebbe usato la forza.
Genova tentò di trattare, ma Quando il doge Brignole Sale solennemente s’inginocchiò davanti al generale, domandando pietà per la città, Botta Adorno rispose con la celebre frase:
“Ai Genovesi non lascerò che gli occhi per piangere”.
Le condizioni di resa, infatti, erano durissime: Genova doveva cessare ogni ostilità, consegnare al nemico le porte della città, cedergli le proprie artiglierie, lasciare libero il passaggio nel territorio alle truppe austriache, mandare a Vienna il doge e sei senatori a implorare il perdono e soprattutto pagare un fortissimo tributo di guerra: tre milioni di scudi d’argento, una somma pari alle entrate che la Repubblica percepiva in cinque-sei anni.
I patti suddetti dovevano essere accettati entro ventiquattro ore. Genova perciò fu costretta ad accettare le pesanti condizioni e a pagare l’indennità in tre rate: una entro due giorni, la seconda entro otto giorni e la terza entro quindici giorni. Genova, non avendo tale disponibilità economica, chiese uno sconto, ma il Botta Adorno non solo rifiutò, ma alzò la quota di un altro milione, mettendo in ginocchio la città, che dovette aumentare la pressione finanziaria e peggiorare le già difficili condizioni del basso popolo.
E il relativo malcontento, portò alla rivolta popolare: secondo la tradizione, Un reparto austriaco, infatti, stava trasportando un mortaio attraverso il quartiere Portoria, quando il mortaio rimase impantanato nel fango. L’ufficiale ordinò con arroganza ai popolani presenti di rimuoverlo dal fango e non ottenendo risposta arrivò ad usare la forza. All’ordine, tuttavia, rispose un ragazzo di appena 11 anni, Giovan Battista Perasso, conosciuto in seguito come Balilla, che affrontò gli invasori con il lancio di una pietra, al grido
“Che l’inse?”
cioè «Comincio io?», «La comincio?», o secondo altre testimonianze
“La rompo?”
seguito poco dopo dalla folla che riunitasi intorno al mortaio mise in fuga il reparto austriaco. Il giorno seguente alcuni soldati austriaci si presentarono nuovamente sul posto per rimuovere il mortaio, ma furono accolti da sassate e fucilate e furono costretti a fuggire nuovamente. Il popolo quindi cominciò a farsi coraggio, riuscì a procurarsi le armi, a tirar su barricate e a rispondere agli spari degli invasori.
La rivolta durò tre giorni, con gli austriaci che ribattevano con forza.
“Il Botta ha la testa dura, ma il popolo l’ha più dura di lui”
disse un nobile genovese. Ora per decenni si è discusso dell’identità, alquanto fumosa, di Balilla, tanto da essere considerato una figura quasi leggendaria, finchè negli ultimi vent’anni sono saltate fuori tre testimonianze dirette dell’epoca: un dispaccio di un agente veneziano del 1746, in cui si cita l’inizio della rivolta a Portoria, con i tumulti guidati da tale Balilla, un resoconto di un soldato piemontese di Aglié, che afferma di essere stato testimone oculare dei fatti, e il diario di un mercante inglese, in cui è citato il nome Perasso.
Quindi tutto risolto ? Neppure tanto, perché all’epoca sia il soprannome Balilla, sia il cognome Perasso erano assai comuni: per di più, le tre fonti concordano, a differenza quanto affermato dalla tradizione sul fatto che questo Balilla fosse un adulto e parlano genericamente di “schioppettate”, invece dell’episodio della sassata.
Ma come si è arrivati quindi alla versione del ragazzo, che, come il biblico David, abbatte il gigante lanciando sassate ?
Come sempre accade in Italia, la questione è assai complicata: l’insurrezione aveva messo in luce le forze contestatarie e plebee, profondamente anti-patrizie, che alla fine imposero un’assemblea popolare al posto dei consigli dei patrizi. Il doge parve accettare di buon grado questa piccola rivoluzione che, fatto assolutamente unico nella storia della repubblica oligarchica, per la maggior parte del suo mandato (da dicembre 1746 alla primavera 1748) diede a Genova un governo a base democratica. Governo, in cui, tra i suoi membri non appare nessun Perasso.
Tuttavia, i caporioni popolari non tardarono a combattersi e divenne chiaro che solo “i Magnifici” potevano governare. Le leggi straordinarie furono presto abrogate e le istituzioni originarie della Repubblica ripresero il loro normale funzionamento. Di conseguenza, La nobiltà genovese aveva tutto l’interesse a far calare l’oblio su quei tumulti per facilitare il ritorno a una concordia interna garantita dall’ordine oligarchico; e così nessuno si preoccupò di approfondire i fatti di Portoria.
Tutto sarebbe stato quindi dimenticato, se non ci avesso messo lo zampino Armand de Vignerot du Plessis, nipote del famoso Cardinale Richelieu, gran combattente e gran seduttore, sembra che Choderlos de Laclos si sia ispirato alla sua vita per il personaggio di Valmont de Les Liaisons dangereuses, che per bieca autocelebrazione, fece stampare un manifesto, dove le truppe francesi, da lui guidate, correvano in aiuto a un ragazzino che lanciava un sasso contro un ufficiale tedesco.
Il console veneziano a Genova, che aveva orecchiato come nella rivolta centrasse un certo Balilla, scambiò quel manifesto per un resoconto fedele dei fatti: così nel 1747, in un dispaccio inventò dal nulla la storia del bambino Balilla.
Storia che girò per l’Italia, ma di cui a Genova si sapeva ben poco, almeno sino alla caduta della Repubblica aristocratica nel 1797, quando il giacobinismo genovese le attribuì una coloritura patriottica e nazionale che fu il punto d’avvio di una lunga teoria di manipolazioni interpretative. Per cui, ignorando il vero Perasso, che probabilmente all’epoca era già bello che defunto e che da poveraccio qual’era, non era stato filato da nessuno, si scatenò la caccia a identificare il presunto ragazzino, che terminò con il Congresso di Vienna, dato che a Torino, non vi era nessun interesse a esaltare un rivoltoso contro le sue truppe.
Le cose cambiarono nel Risorgimento, quando, evitando di sottolineare la presenza sabauda, Balilla acquisì una valenza patriottica di lotta contro gli austriaci e al contempo, fu proposto come modello ai bambini italiani.
Vennero creati dolci con il suo nome, fu citato nell’Inno di Mameli, nel 1915, in piena febbre propagandistica contro Vienna, gli fu dedicata una classe di sommergibili e nel 1918 il caccia ricognitore Ansaldo A.1
Nel 1923 il duo Giuseppe Blanc e Vittorio Emanuele Gaeta scrissero la canzone patriottica Balilla! che fu una sorta di hit dell’epoca, che rilanciò il termine come sinonimo di bambino vivace e dispettoso: tra l’altro nel film Totò, Peppino e la malafemmina il brano di colonna sonora che sottolinea ogni volta il lancio di un sasso contro la finestra dell’odiato vicino di casa è la fanfara di tale canzone.
Con questo nuovo significato semantico, gli fu intitolata l’organizzazione giovanile del regime fascista che inquadrava i bambini dagli 8 agli 11 anni, chiamata Opera nazionale balilla. “Balilla” era il nome generico con cui si indicavano i bambini obbligatoriamente iscritti a questa organizzazione.
E infine, nel 1932, la Fiat 508 Balilla, con la quale ebbe inizio la motorizzazione di massa in Italia.