La Cappella Palatina di Palermo

Questa cappella che per i predicatori egli costruì nei suoi palazzi, quasi fondamento e fortificazione: grandissima e bellissima, e per straordinaria magnificenza nobilissima, e splendidissima di luce, e peroro corruscantissima, sfavillantissima di gemme, e fiorentissima di pitture. Questa, chi più volte la vide, e torni a guardarla, sempre la ammirerà stupefatto, come se gli mostrasse per la prima volta, e stupirà volgendo gli occhi in giro dappertutto.

Il tetto infatti è tale che uno non si stanca mai di guardarlo, e desta ammirazione al solo sentirne parlare. Con intagli finissimi disposti a forma di piccoli panieri adornato, e tutto lampeggiante d’oro, rassomiglia al cielo, quando, limpida l’aria, risplende di stelle che danzano in coro. Colonne che in modo perfetto sorreggono gli archi, così in alto sollevano il tetto da sembrare impossibile.

E il pavimento consacrato della cappella assomiglia tal quale un prato primaverile, tutto adorno com’è di variopinti tasselli marmorei. Con questo di più: che i fiori appassiscono e scolorano, mentre questo prato non appassisce, e dura perpetuo serbando una fioritura immortale E tutte le pareti sono ricoperte di ornamento marmoreo; di esse le parti superiori ricoprono tessere d’oro, là dove non leoccupi la schiera delle sacre immagini

Sono le parole con cui il monaco e predicatore calabro greco Filagato da Cerami manifestava il suo stupore davanti a Ruggero II per la Cappella Palatina di Palermo, opera che è limitativo definire arabo normanna, dato che il frutto di un lavoro di sintesi culturali che si estende per almeno quattro generazioni e che unisce in sé esperienze diversissime.

Il suo primo antecendente, di cui ho parlato ieri, è il duomo di Salerno, in cui avvengono sia la fusione tra la tradizione architettonica longobarda, che ha come punto di riferimento Cassino e la Roma paleocristiana, sia quella tra la decorazione a mosaico bizantina e l’iconografia dei grandi cicli di affresco delle basiliche romane.

Il secondo, meno noto, è a Reggio, con la sua cappella comitale, dove Ruggero II fu incoronato Gran Conte di Sicilia, la nostra Chiesa degli Ottimati. Questa, di origine bizantina, aveva una pianta quadrangolare, tre absidi orientate nascoste esternamente da un muro rettilineo; le tre navate erano coperte da cinque cupolette, in maniera analoga alla Cattolica di Stilo.

Ai tempi di Ruggero I, al di sopra della chiesa ne venne realizzata una seconda intitolata a San Gregorio Magno, sostituendo la copertura a cupolette con volte a crociera, di cui rimangono lacerti del pavimento in opera cosmatesca.

Ora la Cappella Palatina è impostata secondo la stessa logica: una chiesa inferiore, Santa Maria di Gerusalemme, viene costruita nel 1117, forse sul luogo di una precedente moschea islamica; nel 1130 Ruggero II, per celebrare la sua contestata incoronazione a Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principatus Capuae avvenuta come conseguenza di una bolla dell’antipapa Anacleto II, che lo fece impelagare in una guerra di dieci anni, dato che Bernardo di Chiaravalle, campione di Innocenzo II, mise in piedi una combattiva coalizione di lui, diede ordine di costruire la chiesa superiore, dedicata a San Pietro Apostolo.

Nel 1132 la costruzione doveva essere già a buon punto perché l’arcivescovo Pietro la dichiarò parrocchia e nel 1140, quando Ruggero provvide a concedere alla chiesa la carta di dotazione, doveva essere già completata o quasi. La Cappella fu consacrata nell’anno 6651 del calendario bizantino, cioè nel 1143 dell’era cristiana, come attesta l’iscrizione greca con la dedica a S.Pietro posta lungo la base del tamburo che sostiene la cupola.

La pianta della chiesa, a tre navate separate da colonne in granito e marmo cipollino a capitelli compositi che sorreggono una struttura di archi ad ogiva, transetto, econ un’abside triconica, riprende in piccolo la concezione spaziale del duomo di Salermo, senza la fissazione del vescovo Alfano per la numerologia e con l’orientamento ad est, tipico della tradizione bizantina, a cui fa riferimento, anche il quadrato centrale sormontato da una cupola emisferica su nicchie angolari, derivato dalla tradizione locale delle cube.

Sempre alla tradizione cassinense, appartengono le porte bronzee che immettono nelle navate laterali, volte verso l’interno, che presentano ornati classici, forse elementi di spoglio di provenienza romana, come i capitelli, a cui però si associano rosette esalobate, come quella del palazzo di Hisham, che implica anche l’influenza culturale araba.

Stessa sintesi è presente nel pavimento, realizzato probabilmente dallo stesso gruppo di artisti cosmati che lavorarono nel duomo di Salerno, che però colsero l’occasione di arricchire il loro repertorio decorativo con elementi geometrici di provenienza fatimide, che poi replicarono in numerose chiese romane. Lo stesso si può dire per il ricco ambone anch’esso decorato da mosaici e il candelabro pasquale intagliato con figure, animali e foglie d’acanto.

Unico al mondo e di notevole importanza e pregio è il soffitto a muquarnas che significa stalattiti o alveoli, raro esempio di pittura fatimide. Questa struttura autoreggente è costituita da tavole molto sottili di abies nebrodensis (abete dei nebrodi). Ciò che vediamo sono 750 dipinti su tavola indipendenti l’uno dall’altro e ciò che viene rappresentato, da artisti a noi purtroppo sconosciuti ma provenienti sicuramente dal Nordafrica, è la rappresentazione del paradiso coranico, in sostanza vengono rappresentati tutti i piaceri dei sensi e dello spirito che attendono i credenti. Si vedono alberi, mostri, pavoni, aquile; uomini accovacciati con le gambe incrociate alla musulmana, generalmente in atto di bere, o di andare a caccia, suonatori di piffero, di tamburo, nacchere e arpa e scene di danza. Tutte queste scene appartengono alla iconografia profana islamica, le cui immagini raffigurate rappresentavano simbolicamente l’augurio di una vita felice dopo la morte.

Per la chiesa non era prevista una porta nella parete occidentale della navata perché in quella posizione era stato previsto il trono per il sovrano – che controbilanciava l’altare nell’estremità orientale della chiesa – e come in diverse cappelle del Gran Palazzo di Costantinopoli, la cappella era considerata una sorta di sala del trono, equiparando il re normanno al Basileus, rappresentante di Dio in terra.

Quanto ai mosaici, che rendono giustamente famosa la Cappella Palatina è stata messa in dubbio l’esistenza di un progetto iconografico unitario e si è ipotizzato che quelli della navata-sala del trono non facessero parte del progetto iniziale. La critica è oramai da tempo concorde infatti nel distinguere due fasi principali nella decorazione: una fase – quella della decorazione del presbiterio, cioè cupola, abside (dove è originale solo il Pantocratore mentre il resto fu rifatto nel XIX secolo) e transetto – risalente ai tempi di Ruggero II e realizzata entro il 1143, secondo quanto accennato all’iscrizione alla base della cupola; ed una all’epoca di Guglielmo I, per i mosaici delle navate, per i quali le differenze stilistiche fra quelli della navata centrale e quelli delle navate laterali hanno fatto supporre l’utilizzo di maestranze diverse.

L’esecuzione dei mosaici del presbiterio dovette concludersi entro la metà del secolo perché essi – in particolare quelli dell’ala sud del transetto e quelli nel quadrato centrale sotto l’iscrizione del 1143 – presentano chiari rimandi alla decorazione musiva della Cattedrale di Cefalù del 1148, e perché alla scelta e alla disposizione dei soggetti si rifanno i mosaici della chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio, fondata da Giorgio di Antiochia e terminata prima della sua morte nel 1151.

I mosaici della navata centrale e delle navate laterali invece furono eseguiti – secondo la Cronaca di Romualdo Salernitano – sotto il regno di Guglielmo I il quale dovette quindi prendere la decisione di estendere il programma iconografico religioso alla zona della chiesa in origine destinata alla sala del trono già decorata da drappi di seta intessuti d’oro secondo la descrizione di Filagato da Cerami.

Secondo un sistema elaborato a Bisanzio, nella cupola il perno è costituito dal Pantocratore benedicente intorno a cui si dispongono in ordine gerarchico quattro arcangeli recanti il labaro e il globo crociato e quattro angeli in atto di adorazione; nel tamburo otto figure di profeti; nelle nicchie angolari della cupola gli evangelisti che si alternano con David, Salomone, Zaccaria e Giovanni Battista; negli intradossi degli archi che sostengono la cupola una serie di santi martiri; infine padri della chiesa e
santi vescovi.

La decorazione del presbiterio comprende poi il ciclo delle feste, cioè una serie di scene che includono gli avvenimenti più importanti della vita di Cristo sulla terra che nell’arte bizantina aveva assunto una forma canonica tra l’XI e il XII secolo: sull’arco orientale del quadrato centrale l’Annunciazione; nell’ala sud del transetto la Natività e la Fuga in Egitto, unica scena che non rientra nel ciclo canonico bizantino delle feste; ancora nel quadrato centrale, di fronte all’Annunciazione, la Presentazione di Cristo al tempio; nei registri inferiori dell’ala sud del transetto il Battesimo, la Trasfigurazione, la Resurrezione di Lazzaro, l’Entrata in Gerusalemme; il ciclo prosegue nell’ala nord, ai lati della zona dove si è ipotizzato si trovasse la loggia reale, con la Crocifissione, la Discesa di Cristo agli Inferi e, nella volta, l’Ascensione; infine, di nuovo nell’ala sud, la Pentecoste.

Il classico sistema bizantino, quindi, nella chiesa palermitana fu adattato alla presenza della loggia reale: i molti santi guerrieri negli intradossi degli archi e la concentrazione delle scene del ciclo delle feste nell’ala sud sono motivati dalla presenza del re che assisteva alle funzioni dalla loggia dell’ala nord della chiesa.

Anche la presenza dell’Etimasia– il Trono per il ritorno del Cristo – nella campata che precede l’abside con gli angeli a guardia, è consona ad una pratica bizantina mentre, nel catino absidale, al posto della figura classica della Vergine, è presente un altro busto di Cristo Pantocratore, eseguito però all’epoca di Guglielmo.

Nell’abside sud è raffigurato S. Paolo e nell’abside nord la figura di S. Andrea, quasi tutta frutto di restauro. Sulla parete sopra l’abside sinistra è raffigurata, a fianco alla figura di San Giovanni Battista in dimensioni ridotte, la Madonna col Bambino; è stato rilevato che la Vergine è raffigurata come Odigitria, cioè come un’icona dalle forti implicazioni monarchiche e militari, motivandone così la presenza su una delle pareti più visibili dalla loggia su cui sedeva il sovrano.

Sulle pareti della navata centrale, in analogia a quanto realizzato a Salerno, vengono replicati e reintepretati i cicli decorativi delle basiliche romane di San Pietro e di San Paolo fuori le mura. Appaiono infatti su due registri episodi narrati nella Genesi: dalle scene della Creazione alla Lotta di Giacobbe con l’angelo.

Le storie della Creazione sono narrate in sette riquadri, ognuno per un giorno della settimana. Ad esse seguono i riquadri dedicati ad Adamo ed Eva e quelli di Caino e Abele. I tre riquadri successivi invece furono aggiunti durante il restauro diretto dall’aretino Cardini nel XVIII secolo in una zona probabilmente in origine occupata da una loggia o da un palchetto. Seguono le scene con le Storie di Noè, la Torre di Babele, storie di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Nelle navate laterali, la sequenza con le scene delle Storie dei Santi Pietro e Paolo si apre a partire dalla terminazione orientale della navata sud con quattro scene della vita di S. Paolo, cinque sulla vita di S. Pietro e tre sul loro incontro a Roma e il trionfo su Simon Mago.
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Nelle navate sono inoltre ritratti 84 santi, tutti scelti dal calendario latino e identificati
da scritte in latino, quasi a censura della componente greco ortodossa del regno normanno, presente in Sicilia e in Calabria: a figura intera i vescovi negli spazi sulle colonne nella navata centrale, i presbiteri sulle pareti occidentali delle navate laterali e le sante sulle pareti interne delle navate laterali; busti di martiri e confessori nei medaglioni degli intradossi delle arcate della navata.

Infine, sulla controfacciata, al di sopra del trono, spiccano la figura di Cristo in trono fra i Santi Pietro e Paolo e due angeli adoranti, considerati più tardi. Per concludere il mio viaggio, un’interpretazione minoritaria, ma interessante del pavimento della Cappella

Il duomo di Salerno

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Il mio viaggio alla scoperta delle tombe degli Altavilla, compie la sua ultima tappa nel duomo di Salerno, frutto del genio di uno degli uomini più affascinanti del Medioevo, Alfano di Salerno, nato nella città campana attorno al 1015; nipote dell’intrigante e ambizioso Guaimario III, principe longobardo della città e alleato di Melo da Bari, fu monaco in Santa Sofia a Benevento, quindi a Montecassino.

Fu abate del monastero di San Benedetto a Salerno, dove conobbe il famigerato Pietro Barliario, di cui condivise la personalità eclettica: fu medico, scrittore, poeta e architetto. La sua figura è legata a quella dell’abate di Montecassino Desiderio (futuro papa Vittore III) di cui fu intimo amico; insieme a quest’ultimo promosse una riforma morale e politica della Chiesa. Alfano gli presentò anche il famoso medico e traduttore dall’arabo Costantino l’Africano, così descritto da un cronista dell’epoca

Costantino l’Africano, monaco dello stesso monastero [di Montecassino], fu dottissimo negli studi filosofici, maestro dell’Oriente e dell’Occidente, un nuovo luminoso Ippocrate. Partito da Cartagine di cui era originario, si recò a Babilonia e qui fu istruito compiutamente in grammatica, dialettica, scienza della natura (physica), geometria, aritmetica, scienza magica (mathematica), astronomia, negromanzia, musica e scienza della natura (physica) dei Caldei, dei Persiani, dei Saraceni.

Partito di qui raggiunse l’India, e ivi si gettò ad apprendere il loro sapere. Padroneggiate completamente le arti degli Indi, si diresse in Etiopia, dove ancora si imbevve delle discipline etiopiche; una volta ricolmo completamente di queste scienze, raggiunse l’Egitto e si impadronì a fondo delle arti degli Egizi. Dopo aver dedicato dunque trentanove anni all’apprendimento di queste conoscenze, tornò in Africa: quando lo videro così ricolmo del sapere di tutte le genti, meditarono di ucciderlo. Costantino se ne accorse, balzò su una nave e arrivò a Salerno dove per un po’ si tenne nascosto, fingendosi povero. Fu poi riconosciuto dal fratello del re di Babilonia, anch’egli giunto lì, e fu tenuto in grande onore presso il duca Roberto. Di qui però Costantino se ne andò, raggiunse il monastero di Cassino e, accolto assai di buon grado dall’abate Desiderio, si fece monaco. Sistematosi nel monastero, tradusse moltissimi testi da diverse lingue. Tra questi, rilevanti sono: Pantegni (diviso da lui in dodici libri) in cui espose ciò che il medico deve sapere; Practica (in dodici libri), dove scrisse come il medico conserva la salute e cura la malattia; il Librum duodecim graduum; Diaeta ciborum; Librum febrium (tradotto dall’arabo); De urina, De interioribus membris; De coitu; Viaticum […], Tegni; Megategni; Microtegni; Antidotarium; Disputationes Platonis et Hippocratis in sententiis; De simplici medicamine; De Gynaecia […]; De pulsibus; Prognostica; De experimentis; Glossae herbarum et specierum; Chirurgia; De medicamine oculorum

Alfano partecipò al concilio di Melfi, a quello di Salerno e al concilio di Roma. Nella sua opera pastorale eresse nel 1058 la diocesi di Nusco e consacrò Sant’Amato Landone suo primo vescovo. Nel 1063 accompagnò come interprete il cugino Gisulfo II, principe di Salerno, che, grazie alla medizione del facoltoso mercante amalfitano Pantaleone, si era recato a Costantinopoli per chiedere sostegno ed aiuto militare al basileus Costantino X Ducas contro il cognato Roberto Guiscardo e per promuovere una lega anti-normanna

Ma Gisulfo, a sua insaputa, lasciò Alfano in ostaggio all’Imperatore d’Oriente; il religioso, inizialmente, la prese come una sorta di vacanza e occasione di studiare testi medici e filosofici greci e bizantini, in particolare Nemesio di Emesa, ma resosi conto di come il Basileus fosse un colossale idiota, organizzò una rocambolesca fuga; si accodò a una carovana di histriones, dove scoprì un inaspettato talento nella giocoleria.

Tornato in Italia fu ospite di Roberto il Guiscardo e dalla moglie, la principessa Sichelgaita, sorella di Gisulfo. Quando nel 1075 il Guiscardo conquistò Salerno, Alfano fece da mediatore, nella delicata fase di transizione, tra longobardi e normanni; proprio per celebrare quella che, più che una conquista, sembrava la chiusura di una disputa famigliare, convinse il Guiscardo nel 1080 a finanziare la costruzione del nuovo Duomo, facendo demolire l’antica chiesa paleocristiana di santa Maria degli Angeli, sorta a sua volta sulle rovine di un tempio romano.

Durante la demolizione, risaltarono fuori le presunte reliquie di San Matteo evangelista, che nel V secolo erano state portate a Velia, città di Parmenide e che erano state traslate il 6 maggio 954 a Salerno, ma di chi era stata persa la memoria; dinanzi a tale ritrovamento, Alfano riuscì a convincere il Guiscardo ad aprire i cordoni della borsa, facendo edificare una chiesa ben più grande di quanto fosse preventinato all’inizio.

A questo si aggiunse la necessità di dare una degna sede a papa Gregorio VII, nel 1084, in piena lotta per le investiture, era stato condotto a Salerno – dove morì nel maggio 1085 – dallo stesso Roberto il Guiscardo, dopo essere stato liberato dall’assedio dell’imperatore Enrico IV, in Castel Sant’Angelo.

Di conseguenza si procedette di fretta e furia, cosa che, assieme ai problemi legati alla stabilità delle fondazioni, provocò nei secoli numerosi crolli. Alfano, data la sua competenza come architetto, si occupò del progetto della nuova chiesa, rendendola differente dalle altre fondazioni del Guiscardo in Sud Italia; invece di ispirarsi alle chiese abbaziali della Normandia, il suo modello fu la chiesa di Montecassino, a sua volta ispirata alle basiliche paleocristiane di Roma.

La cattedrale di Salerno fu quindi caratterizzata da tre navate – di cui quella centrale molto larga – l’alzato altissimo e il quadriportico d’accesso: per venire però incontro ai gusti del Guiscardo, in fondo i soldi li metteva lui, Alfano dovette scendere a compromessi, introducendo due novità. La prima, originaria d’oltralpe, era il transetto triabsidato, che nell’architettura altomedievale dell’Italia centro-Meridionale era assolutamente inesistente. La seconda, sempre di ispirazione normanna, la cripta ad aula con lo spazio scandito da colonne e con le absidi in corrispondenza con quelle del transetto superiore.

Da intellettuale del Medioevo, Alfano credeva nell’intrinseca razionalità del Creato, che cercò di replicare nel suo progetto, basandosi su precisi rapporti numerici per definirne le proporzioni: nel fare ciò, utilizzo come unità di misura il piede bizantino di 31,6 cm. Di conseguenza, il transetto ha lunghezza pari a 50 piedi bizantini (15,8 metri), la lunghezza della navata è di 250 piedi bizantini (79 metri), ossia 5 volte il transetto, mentre la sua larghezza corrisponde a 100 piedi bizantini (31,6 metri) pari a due volte il transetto.

L’altezza della navata centrale è pari a 75 piedi bizantini (23,7 metri), una volta e mezza il transetto, la profondità dell’abside è uguale a 25 piedi bizantini (7,9 metri), metà del transetto, mentre quella delle absidi laterali è 12,5 piedi bizantini (3,95 metri), un quarto del transetto.

Al contempo, per evidenziare la sua continuità con l’antichità classica, utilizzò nella costruzione del duomo numerosi elementi di spoglio provenienti da edifici romani: colonne, capitelli, architravi. Infine, decorò il tutto con una serie di mosaici che reinterpretavano i cicli di affreschi con le storie dell’Antico e Nuovo Testamento che decoravano le grandi basiliche romane di San Pietro e di San Paolo fuori le mura.

portone d'ingresso con statue del duomo di san matteo a Salerno

Come si presentava la chiesa ai tempi dei normanni? L’ingresso originale prevedeva dodici scalini semicircolari, pari al numero degli apostoli, che conducevano alla Porta dei Leoni,chiamata cosi per le due statue ai lati degli stipiti raffiguranti un leone – simbolo della forza – e una leonessa con il suo cucciolo – simbolo della carità. Sull’architrave, scolpita ad imitazione di un portale romano, una scritta ricorda a chi entra l’alleanza tra i principati di Salerno e di Capua, in modo da affermare la continuità gli Altavilla e i Principo Longobardi. Il fregio, raffigurante una pianta di vite – evidente rimando al salvifico Sangue di Cristo – presenta altre decorazioni animali: una scimmia – simbolo dell’eresia, essendo, secondo la mentalità medievale, imitazione imperfetta della figura umana – ed una colomba che becca i datteri – simbolo dell’anima che si pasce dei piaceri ultraterreni

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Si passava poi all’ampio atrio, unico esempio di quadriportico romanico in Italia oltre a quello della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano,circondato da un porticato – ideale continuazione verso l’esterno delle navate interne – retto da ventotto colonne di spoglio, provenienti dal vicino Foro di età romana di Piazza Conforti, con archi a tutto sesto rialzato decorati con intarsi di pietra vulcanica sulle lesene e ai pennacchi poggiati su capitelli corinzi, che riecheggiano tipologie islamiche. L’atrio, completato da uno splendido loggiato soprastante a bifore e pentafore, è arricchito su tutti i lati da una serie di sarcofagi romani, riutilizzati in epoca medievale, configurandosi come una specie di Pantheon cittadino.

Salerno3

Sul lato meridionale sorge l’alto e maestoso campanile arabo-normanno della metà del XII secolo. Il monumentale campanile si eleva per quasi 52 metri con una base di circa dieci metri per lato, fu commissionato da Guglielmo da Ravenna, arcivescovo di Salerno dal 1137 al 1152, ai tempi di Ruggero II, come ricordato dalla lapide

TEMP(O)R(E) MAGNIFICI
REG(IS) ROG(ERI) W(ULIELMUS) EP(ISCOPUS)
A(POSTOLO) M(ATTHEO) ET PLEBI DEI

L’architetto, di probabile provenienza palermitana, dato che l’opera reintepreta il campanile della chiesa di San Cataldo, dovette confrontarsi con il problema dell’instabilità del terreno: per questo fece costruire i primi due piani in travertino, in modo da avere una solida base di sostegno, mentre il rimanente piano e la torretta sono in blocchetti di laterizio, certamente più leggeri. Tutti i piani sono alleggeriti da ampie bifore che scaricano i pesi lateralmente sugli angoli.

La torretta costituisce la parte più interessante con la decorazione a dodici archi a tutto sesto intrecciati con alternanza regolare di diversi materiali policromi. Le forme del campanile, inoltre, rimandano a precise simbologie bibliche. I piani sono tre, numero equivalente ai livelli dell’universo secondo le Sacre Scritture; inoltre, la forma cubica vuol ricordare la loro fisicità. La torretta, invece, ha una forma circolare che nella Bibbia equivale all’elemento ultraterreno; la parete esterna è percorsa da dodici colonnine – quanti sono gli apostoli – che reggono la fascia stellata a sei punte – stella ebraica – che è la raffigurazione del paradiso. In cima a tutto vi è la cupola, la cui perfetta forma sferica rappresenta Dio.

porta

L’ingresso principale alla chiesa era costituito da una porta di bronzo bizantina, uno dei sei esemplari bizantini presenti in Italia, fusa direttamente a Costantinopoli nel 1099, inserita in un bel portale marmoreo medievale. La porta fu donata alla città da due coniugi, Landolfo e Guisana Butrumile, è formata da cinquantaquattro formelle in gran parte raffiguranti croci bizantine, presenta al centro una teoria di 6 icone raffiguranti S. Paolo, S. Pietro, S. Simeone, Gesù benedicente, S. Matteo e la Vergine, la raffigurazione simbolica di due grifi che si abbeverano ad un fonte battesimale – il grifo, oltre che dell’immortalità dell’anima, è anche simbolo della famiglia normanna degli Altavilla, ai quali apparteneva il fondatore Guiscardo. Presso la stessa porta, sono incisi su una lapide quattro versi di una poesia che Gabriele D’Annunzio dedicò alla Cattedrale. Ai lati della porta di bronzo vi sono preghiere a San Matteo in caratteri armeni e greci, e solo recentemente decifrate.

Si entrava poi nella navata centrale, dove su colonne di spoglio – in parte scoperte all’interno dei pilastri barocchi durante i restauri – si apriva sull’ampio presbiterio nel quale si conservano il pavimento ad intarsi marmorei e porzioni dei mosaici; l’arcivescovo Romualdo II Guarna (1163-1181) a imitazioni delle chiese bizantine fece erigere un’iconostasi rivestita di marmi e mosaici, che però alterava la continuità spaziale voluta da Alfano.

guarna

I due amboni, realizzati probabilmente dagli artisti cosmati che facevano la spola tra Roma e Palermo, divennero subito un modello imitato da tutte le chiese di area campana: sulla sinistra, a cornu evangeli, è collocato l’ambone Guarna del 1180 che, finemente decorato con mosaici e sculture, fu donato da Romualdo Guarna, come è riportato sull’iscrizione che corre lungo il parapetto. Il pulpito è retto da quattro colonne, tre delle quali sormontate da bellissimi capitelli figurati, mentre la quarta presenta il capitello a motivi vegetali. Uno dei tre è decorato con figure dalle code serpentiformi poste negli spigoli. Il secondo presenta sulle facce delle figure femminili elegantemente scolpite in abbigliamento classico e figure maschili che come atlanti sorreggono con fatica gli spigoli del capitello. Nel terzo le figure femminili sono sostitute da altrettante figure maschili mentre negli spigoli trovano posto leoni accucciati. Sugli archi si trovano, in rilievo sul fondo intarsiato, le raffigurazioni di evangelisti – San Matteo e San Giovanni – e profeti. La base della cassa è delimitata da una cornice scolpita a tralci avvitati. Un’aquila domina il gruppo marmoreo che costituisce il leggio: si narrava che l’aquila, quando diventava vecchia, con volo possente si librava fino al sole, le piume si bruciavano al calore ed essa cadeva in mare, dal quale poi emergeva ringiovanita. Sul fondo del lettorino poligonale si osserva il rilievo raffigurante la testa di Abisso. Particolarmente ricca è la lastra rivolta verso la navata: nastri intrecciati ricavano degli spazi in cui trovano posto figure di uccelli e draghi. Al particolare pregio delle sculture si affianca la preziosità della decorazione musiva fondata sul ripetersi e sul complicarsi del modulo di ispirazione bizantina del disco inscritto in una fascia a motivi geometrici sempre diversi. Ogni pluteo è decorato da cinque dischi, di porfido o di tessere musive dorate, uniti da volute in mosaico.

Ajello

Molto più grande è l’ambone D’Ajello del 1195 posto a destra, a cornu epistulae la cui donazione è attribuita alla famiglia dell’arcivescovo Niccolò D’Aiello. Se l’attribuzione è incerta, evidente appare l’affinità stilistica con l’ambone Guarna, con il muro di recinzione e con il cero pasquale, il che fa ipotizzare una contemporaneità di esecuzione nella seconda metà del XII secolo. L’ambone è a pianta rettangolare su dodici colonne a fusto liscio con capitelli in cui si ripetono più motivi ornamentali; sui pannelli a mosaico si ritrova il motivo del disco inserito in una cornice a spirale. I capitelli del colonnato, di fattura più semplice rispetto a quelli dell’altro ambone soprattutto quelli con figure di uccelli, protomi e cornucopie, sono in stretto collegamento con quelli di analogo soggetto, ma di fattura meno raffinata, del chiostro di Monreale. Le lastre sono ricoperte con motivi a nastri intrecciati a quinconce che ritagliano spazi ricoperti con minuti intarsi multicolori. L’ambone ha due lettorini di cui quello rivolto verso la navata raffigurante l’aquila che artiglia la testa dell’uomo col serpente. Il secondo, rivolto verso il presbiterio, è costituito da due diaconi stanti su leoncini. Lo stile del rilievo è molto diverso dal precedente è richiama esperienze di tipo settentrionale, francesi o tedesche

Accanto all’ambone maggiore, c’è il candelabro del cero pasquale, cilindrico e ricoperto da tarsie a zig-zag, a spirale e lineari. La base di tipo corinzio è affiancata da quattro figure di orsi accovacciati mentre il fusto è diviso in tre parti da nodi di cui quello superiore è decorato con raffinati intarsi naturalistici.Su tutta l’area prebiteriale – coro, presbiterio e transetto – sono realizzati con motivi di tarsie policrome eseguiti su ordine dell’arcivescovo Guglielmo da Ravenna, nella prima metà del XII secolo. Le tre absidi si innestano direttamente sul muro orientale del transetto. Degli ampi mosaici originari, della fine dell’XI secolo, rimangono solo pochi ma significativi frammenti dei simboli di Matteo e Giovanni.

Sempre nell’epoca normanna, ma con una destinazione non chiara, erano presenti i famosi avori salernitani, un ciclo di sessantasette tavole e tavolette d’avorio scolpito, raffiguranti scene dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Lo sviluppo delle formelle, con le storie veterotestamentarie realizzate su tavolette orizzontali e quelle neotestamentarie su tavolette verticali, alcune delle quali contenenti da uno a tre episodi, impone che gli episodi del Vecchio testamento vadano letti, sempre, da sinistra a destra, sia che essi siano collocati in modo verticale o orizzontale; le storie del Nuovo, invece, che presentano uno sviluppo cronologico più ampio ed articolato prevedono una lettura condizionata dalla realizzazione delle storie in verticale e dalla lettura dei singoli episodi in orizzontale. Ciò obbliga comunque lo spettatore a seguire la narrazione che si svolge in orizzontale, da sinistra a destra. Il che farebbe sospettare una destinazione diversa delle due tipologie di formelle.

Ora, gli studiosi identificano 3 o 5 mani diverse, nell’esecuzione degli avori, che sono però figli della stessa amalgama culturale, normanna, araba e bizantina, che genera una sovrabbondanza decorativa e di sfondi che fa pensare ad una sorta di horror vacui. Vi sono inoltre richiami precisi a Salerno e al mondo orientale, con la città e i templi simili più a minareti e moschee che a chiese cristiane. Sia i personaggi principali, sia quelli secondari sono rappresentati mentre compiono un’azione, in cui nulla è lasciato al caso; proprio come un attore in scena, ogni figura ha un ruolo specifico e fondamentale ai fini della rappresentazione dell’episodio narrato, e raramente funge da sfondo scenografico. Sorprendenti sono gli elementi decorativi che impreziosiscono le architetture, le ambientazioni e le vesti, raffigurati in modo preciso ed essenziale.

Nel trionfo dell’immaginazione di Alfano, furono sepolti due tra gli Altavilla più ingiustamente spernacchiati dagli storici, Ruggero Borsa e suo figlio Guglielmo.

Ruggero Borsa, chiamato così, perché a differenza degli altri Altavilla, noti spendaccioni, era particolarmente attento alla gestione delle sue finanze, era stato preferito come successore dal Guiscardo al posto del più noto Boemondo d’Antiochia, nella speranza che, come discendente da parte di madre della stirpe longobarda, garantisse la pace tra loro e i normanni.

Nel 1084 Ruggero partecipò a una campagna militare in Grecia al fianco del padre, che il 17 luglio 1085 morì di malattia durante l’assedio di Cefalonia. Singolare coincidenza fu il fatto che Ruggero, erede dei possedimenti italiani, si trovasse in Grecia al momento della morte del Guiscardo, mentre Boemondo, erede di Durazzo e di altri feudi bizantini, si trovasse in Italia, precisamente a Salerno.

Ruggero, non fidandosi a ragione del fratello, si fiondò di fretta e furia in Italia, e fece bene, dato che Boemondo si ribellò immediatamente: grazie alla mediazione papale, si raggiunse un compromesso, che durò meno di anno.

Nel 1087, sempre per colpa dell’ambizione di Boemondo, riscoppiò la guerra civile, Lo scontro fra i due fratelli si concluse solo con la mediazione di papa Urbano II, il quale riconobbe a Boemondo il possesso del Principato di Taranto ed altri numerosi castelli, mentre Ruggero gli garantì anche il feudo di Cosenza e la titolarità di fatto di altri domini. Nel 1089 Urbano II investì ufficialmente Ruggero Borsa del ducato di Puglia, mettendo fine ad ogni controversia. Approfittando delle difficoltà del fratello ad Antiochia, Ruggero nel tempo recuperò i territori perduti.

Ora, tutto si può dire, ma un uomo capace di tenere testa a Boemondo e alla fine averla vinta, certo non era una mammoletta: i cronisti dell’epoca lo definiscono un guerriero forte e terribile. Lo stesso si può dire del figlio Guglielmo, che mise in riga Ruggero II di Sicilia e fu molto rispettato dai propri contemporanei, fu popolare fra i suoi feudatari e lodato per la sua abilità militare.

Alla sua morte, appena trentenne, secondo la leggenda sua moglie Guaidalgrima, distrutta dal dolore, si recise i lunghi capelli biondi in segno di lutto – seguita nell’esempio da tutte le damigelle del suo seguito – e li pose sul sarcofago del marito, ancor oggi visibile nell’atrio della Cattedrale di Salerno. Da allora, ogni 4 agosto, anniversario dell’evento, una farfalla dorata uscirebbe dal sarcofago e volerebbe tra le colonne dell’atrio prima di scomparire.

Ma allora, perché sia Ruggero Borsa, sia Guglielmo godono di pessima fama ? La colpa è degli storici della corte di Palermo, che da un parte gonfiarono assai i meriti di Ruggero II, dall’altra, per far fare bella figura al loro mecenate, demolirono la figura del ramo continentale della famiglia, reo di avere ostacolato le sue ambizioni

Antimo di Bisanzio

Antimo

Uno dei personaggi più affascinanti della tarda antichità è il buon Antimo di Bisanzio, medico, diplomatico e gastronomo. Nato in Grecia nel IV secolo d.C. da una famiglia nobile e morto nel 534. Di lui si hanno notizie precise a partire dal 481, quando fu coinvolto in una sorta di intrigo internazionale; l’imperatore Zenone era impegnato in una sorta di triplo gioco con due capi goti, Teodorico l’Amalo, il futuro conquistatore dell’Italia e Teodorico Strabone, cercando di metterli l’uno contro l’altro.

Il Basileus nel 476 si alleò con l’Amalo per attaccare Strabone, mandò un’ambasciata all’imperatore, offrendo la pace e dando la colpa dei conflitti al suo rivale. Zenone tuttavia ottenne che il Senato e l’esercito dichiarassero Strabone un nemico pubblico, e nel 478 convinse l’Amalo ad attaccare le forze di Strabone con la promessa del sostegno di un grande esercito imperiale. L’Amalo e la sua gente marciarono attraverso le montagne, ma nei pressi del monte Soundis, invece di trovare i promessi rinforzi, si imbatterono nel campo fortificato di Strabone.

Il capo dei Goti di Tracia provocò l’Amalo, cavalcando di fronte al campo dei Goti di Mesia e dichiarando davanti a tutti i Goti accampati che il comando dell’Amalo aveva ridotto la propria gente ad una guerra intestina a solo vantaggio dell’impero, e senza ricevere quelle ricchezze per le quali avevano abbandonato i propri territori di origine. Facendo leva sull’interesse comune di tutti i Goti, Strabone costrinse l’Amalo a chiedere la pace e i due comandanti mandarono un’ambasceria congiunta all’imperatore Zenone, chiedendogli di concedere loro l’estensione dei territori gotici in Mesia verso sud.

Dopo aver tentato vanamente di corrompere l’Amalo, Zenone ordinò all’esercito imperiale di affrontare l’esercito gotico riunificato, che intanto, nel 479, aveva sostenuto la breve rivolta di Flavio Marciano contro Zenone. Nonostante alcune sconfitte Teodorico l’Amalo rimase libero di muoversi verso ovest in Tracia, saccheggiando i territori attraversati. Una volta che il rivale si allontanò, Teodorico Strabone concluse un accordo di pace con Zenone: ottenne la restituzione dei propri beni, denaro per pagare 13.000 soldati, il comando di due unità palatinae e la riconferma del titolo di magister militum.

I 30.000 uomini di Teodorico erano però una seria minaccia per Zenone, che convinse i Bulgari ad attaccare i Goti di Tracia nelle loro basi. Strabone tuttavia sconfisse i Bulgari nel 480/481 e si mosse verso Costantinopoli. Una fazione della corte bizantina, che mal sopportava Zenone sia perché, come isaurico, lo considerava una sorta di barbaro, sia per le sue opinioni religiose filomonofisite, decise di approfittare dell’intevento del goto, per organizzare un colpo di stato.

Antimo svolse il ruolo di intermediario tra i ribelli e Strabone: tuttavia, i soldati goti, non volendo impegnarsi nell’assedio delle mura teodosiane, si ammutinarono e costringendolo a ripiegare in Grecia; al contempo, Zenone, scoperta la congiura, la represse con straordinaria crudeltà.

Antimo, per evirare di essere scuoiato vivo, si rifuggiò da Strabone; ma sfortuna volle che questi, mentre era accampato presso Stabulum Diomedis, in Tracia, e stava cercando di domare un cavallo selvaggio, cadde su una lancia appesa davanti a una tenda o a un carro, morendo sul colpo. Non perdendosi d’animo, Antimo si trasferi presso Teodorico l’Amalo, seguendolo nella sua guerra contro Odoacre.

Dopo qualche anno, Teodorico affidò ad Antimo, apprezzandone le doti di la freddezza, la precisione e la capacità di analisi, l’incarico di ambasciatore presso Teodorico di Metz, re dei Franchi, per evitare che i continui litigi tra i figli di Clodoveo degenerassero in una guerra totale. Mentre svolgeva al meglio questo compito, Antimo, che da buon seguace di Galeno, era convinto che una buona dieta, riequilibrando i quattro umori, desse un contributo importante nella mantenimento della salute, si mise le mani nei capelli, nel constatare come si mangiasse da schifo nella corte franca.

Per cui si impose come missione l’educare Teodorico su come realizzare una cucina di di qualità e al tempo stesso salutare, in quanto fondata su precisi canoni dietetici. Per fare questo, scrisse in latino il manuale De observatione ciborum ad Theodoricum regem Francorum epistola.

Così il medico giustifica la sua decisione

“Ma se mi si obietta: com’è che altrove vivono popoli che mangiano carni crude e sanguinolente e restano sani? Dirò che, quantunque neanche quelli siano da considerarsi del tutto sani, ciò accade perché hanno elaborato loro antidoti peculiari quando stanno male si scottano con il fuoco sullo stomaco, o sul ventre, o su altri organi, come si fa con le cavalle imbizzarrite il che dà ragione a quanto ho detto. D’altra parte quei popoli mangiano un solo cibo, come i lupi. Infatti non mangiano che quello di cui dispongono, cioè carne e latte. E sembrano essere in salute a causa della scarsa varietà alimentare. Così come il poco bere dà l’impressione di buona salute. Infatti quando hanno molto cibo non bevono, mentre lo fanno quando non ne hanno per lunghi periodi. A noi, invece, che ci nutriamo con cibi vari, con numerose ghiottonerie e bevande diverse, conviene controllarci, in modo che l’eccesso non ci faccia male e che, soprattutto diminuendo le quantità, restiamo in salute. Se poi qualcuno è irresistibilmente attratto da qualche cibo, si assicuri intanto che sia un piatto ben preparato e si limiti solo a piccoli assaggi di altre portate, in modo da trarre giovamento da quello che ha mangiato prima: solo così potrà digerire bene”.

Nel trattato, importante anche dal punto di vista linguistico, dato che aiuta a comprendere le dinamiche dell’evoluzione delle lingue medievali e a risolvere varie problematiche legate all’interpretazione dei germanismi che appaiono nei testi dell’epoca, Antimo illustra una personale teoria sul rapporto tra varietà alimentare, complessità delle preparazioni gastronomiche ed esigenza di morigeratezza nelle quantità.

Tra le curiosità, è possibile scoprire come Antimo raccomandasse con premura maniacale la cottura dei cibi, perché considera tale pratica legata alla buona saluta. Secondo il medico bizantino, la cottura rende più digeribili i prodotti della terra, depurandoli da sostanze nocive o velenose, a cominciare dal pane, fatto con frumento lievitato e ben cotto anziché quello in uso presso le tribù barbare, di farina d’orzo o di spelta.

Inoltre, il medico bizantino parla di piatti di carne esclusivamente bovina, bollita a lungo con aromi e vino. Viene menzionato anche il pollame e la piccola selvaggina, da cuocere anche allo spiedo, mentre la bollitura era ritenuta indispensabile per tutti i legumi, come fave, ceci, fagioli e lenticchie, così come i frutti acerbi e le uova, da scottare in acqua tiepida.

Tra le sue ricette troviamo: carote fritte, uova insaporite con l’ossimello, bos in iuscello. Il vino poi, oltre ad essere usato a scopi terapeutici, viene citato come condimento di alcuni piatti (Antimo cita come le popolazioni germaniche bevessero abitualmente sidro e birra). In particolare, tra le bevande viene citato l’oenomel, bevanda a base di miele e succo d’uva non fermentato molto in uso presso i Romani (in tardo latino “oenomeli”, derivante dal greco “oinomeli” composto da “oinos”, vino, e meli, miele)

Al lardo dei popoli germanici (verso cui c’è comunque un’apertura) viene poi preferito il classico olio dei Romani. Ma i nobili Franchi erano interessati anche ad imitare i costumi alimentari bizantini, per cui nel trattato ritroviamo anche alcune ricette appartenenti alla dietetica bizantina come l’afrutum (aphraton) – in latino spumeum – a base di pollo e bianco d’uovo e quella di un particolare stufato di manzo, a base di miele, aceto e spezie varie.

Roma nella geografia araba medievale

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Può sembrare strano, specie in questi giorni in cui domina la paura rispetto al dialogo, ma Roma era una costante nella letteratura araba medievale, essendo citata negli hadit (i detti attribuiti al Profeta) alla storia, dall’adab, che con qualche imprecisione, potremmo definire trattatistica morale e agli ‘aǧā’ib, la narrativa di viaggio.

Anzi, le sue descrizioni sono assai più presenti di quanto fossero nelle letturature occidentali quelle delle principali città del mondo arabo. Tuttavia, la Roma presente nell’immaginario arabo è qualcosa di assai diverso rispetto la città reale: essa è infatti il frutto della narrazione e della sovrapposizione di almeno tre diverse esperienze, tra loro conflittuali.

La prima è il principio di auctoritas: il primo a parlare di Roma, in ambito non religioso, è proprio il padre della geografia araba, Ibn Khordadhbeh, che nacque tra l’800 e l’825 in Khorasan da una ricca famiglia persiana del nord del Paese (suo padre era stato Wali del califfo al-Maʾmūn per il Ṭabaristān). Zoroastriano, per facilitare la sua carriera nella burocrazia abbaside, si convertì all’Islam.

Ricevuta un’ottima educazione nella cerchia di persone che gravitavano intorno a Isḥāq al-Mawṣilī, uno dei principali musicisti dell’epoca, e fu presto nominato “Direttore delle Poste e delle Informazioni” (Ṣāhib al-barīd wa l-khabar ) della provincia del Jibāl, nel NO della Persia all’epoca del califfo abbaside al-Muʿtamid. In quanto responsabile del barīd (ebbe in seguito responsabilità ancora maggiori a Baghdad e Sāmarrāʾ), Ibn Khordādhbeh era il responsabile del controspionaggio califfale.

Verso l’870, mettendo a frutto le conoscenze acquisite nel suo lavoro, Ibn Khordādhbeh scrisse il suo capolavoro, il Kitāb al-masālik wa al-mamālik (Il libro delle strade e dei reami) in cui descrisse il mondo conosciuto dell’epoca: se nell’ambito dei domini abbaside, raccontò le sue esperienze dirette, quando passò Dar al-Ḥarb, il mondo esterno all’Islam, si limitò a un mix tra le diverse fonti siriache e greche che aveva a disposizione.

Purtroppo, in quest’opera di copia e incolla, da una parte confuse le descrizione riferite alla vecchia Rome con quelle della nuova, ossia Costantinopoli, mischiandole, dall’altra fu vittima di una serie di equivoci linguistici. Il più strano fu riferito al Flavus Tiber, il biondo Tevere, che da “giallo” divenne “di bronzo”, facendo credere a Ibn Khordadhbeh come i suoi argini fossero di tale metallo.

Per cui, da questa serie di equivoci, nacque un luogo immaginario, degno de Le Città Invisibili di Calvino, che, per rispetto al venerando geografo, si trascinò anche in libri di altri autori.

Il secondo strato è dai contatti indiretti con il mondo cristiano: le versioni della Salvatio Romae e delle leggende su Virgilio negromante, che appaiono in diversi racconti di viaggio islamici, non potevano che provenire che dall’Europa.

Contatti che erano mediati dai mercanti : malgrado le teorie di Henri Pirenne, che parlava di una cesura pressoché totale dei traffici fra Europa cristiana e mondo islamico, i rapporti commerciali e culturali non erano in realtà mai venuti meno, anche se resi indubbiamente più difficili dalle saltuarie ostilità ideologiche tra le due parti contrapposte del mar Mediterraneo e le attività piratesche di entrambi gli schieramenti.

Mercanti sia di religione cristiana, sia ebraica, spesso provienienti dall’Italia bizantina, che oltre alle merci, scambiavano informazioni e storie. Sempre il buon Ibn Khordadhbeh, così li descrive

Questi mercanti parlano arabo, persiano, greco volgare, greco bizantino, franco, volgare castigliano e lingue slave. Viaggiando da ovest verso est e da est a ovest, in parte per via di terra, in parte sul mare, essi trasportavano da occidente gli eunuchi,donne e giovani ridotti in stato di schiavitù, articoli di seta, pellicce di castoro, di martora e di altri animali, e di spade. Prendono il mare in Firanja (luogo sulla cui identità gli studiosi si stanno scannando con entusiasmo: alcuni sostengono che si tratti della valle del Rodano, altri ipotizzano che si tratti dei themata del sud Italia, altri delle città di Amalfi, Napoli e Gaeta) sul mare Occidentale, e si spingono fino a Faramā (Pelusium). Lì essi caricano le loro mercanzie a dorso di dromedario e si muovono con carovane per via di terra, fino ad al-Qulzum (l’antica Clysma, oggi Suez), coprendo una distanza di venticinque farsakh (parasanghe).

S’imbarcano sul mar Rosso e navigano da al-Qulzum fino ad al-Jār (porto di Medina) o Jedda (porto di Mecca), quindi vanno nel Sind, in India e in Cina. Sulla via del ritorno dalla Cina, prendono con sé il Muschio, aloe, canfora, cannella e altri prodotti orientali verso al-Qulzum e li riportano a Faramā, da dove s’imbarcano nel mare Occidentale. Alcuni veleggiano verso Costantinopoli per vendere le loro mercanzie ai Bizantini; altri si recano nel palazzo dei re di Francia per vendere i loro beni.

Qualche volta questi mercanti ebrei, si associano ai Franchi del loro Paese, sul mar Occidentale, si dirigono alla volta di Antiochia (all’imboccatura dell’Oronte); da lì, per via di terra, fino ad al-Jābiya (al-Hanaya, ai bordi dell’Eufrate). Là s’imbarcano sul fiume Eufrate e raggiungono Baghdad, da dove discendono il fiume Tigri verso al-Ubulla.

A partire da tale città irachena, costoro navigano verso l’Oman, Sind, Hind e Cina. Seguendo un itinerario terrestre, i mercanti che partivano da al-Andalus, dalla Spagna cristiana o dalla Francia si recavano di norma a Sūs al-Aqṣā (oggi in Marocco) e quindi a Tangeri, da dove proseguivano alla volta di Qayrawān e della capitale dell’Egitto, Fusṭāṭ. Da lì essi andavano ad al-Ramla, visitavano Damasco, al-Kūfa, Baghdad e al-Baṣra, attraversando Ahvaz, il Fārs, Kirmān, Sind, Hind, e infine arrivando in Cina. Talvolta essi prendevano invece la via verso Roma e, traversando il Paese degli Slavi, arrivavano a Khamlīj (o Khamlīk), la capitale dei Khazari. S’imbarcavano sul mar Caspio (Mare del Jorjan), arrivavano a Balkh, traversavano l’Oxus e continuavano il loro viaggio verso Yurt, Toghuzghuz, il Paese degli Uiguri e di là verso la Cina

Terzo strato, sono i contatti diretti: nella Roma medievale, vi è continua e costante presenza araba. Si tratta di diplomatici, mercanti e pellegrini, sia cristiani, sia musulmani, che volevano onorare le tombe di San Pietro e San Paolo, gli ḥawāriyyūn del profeta Īsā ibn Maryam.

Proprio le loro esperienze concrete, che filtrano nelle storie dei geografi, trasformano le descrizioni arabe di Roma in un gioco di specchi ed enigmi, dove ogni elemento richiama sia la realtà vissuta, sia quella sognata.

LA CUCINA BIZANTINA

La Infinita Storia

Tra i tanti interessanti aspetti che può raccontare un impero come quello Bizantino, durato più di mille anni è l’aspetto culinario, una caratteristica dell’Impero erede di Roma, molto curiosa e particolare, in quanto ereditata dal periodo romano ed ellenistico ma non era una imitazione e la stranezza che risalta della dieta bizantina è la dose minore di grassi e maggiore di verdure a fronte di un’epoca come il medioevo, in cui esisteva un grande consumo di carne con conseguente assunzione di molti lipidi.

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Guardia Variaga in Puglia

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Uno dei documenti meno noti ma più interessanti sull’alto Medioevo italiano è costituito da un piccolo corpus di tre o quattro pietre runiche databili all’XI secolo, rinvenute due nella regione svedese dell’Uppland, e una o due nel Sønderslånd, e sulle quali vennero incise iscrizioni dedicate a guerrieri scandinavi caduti in Langbarðaland, non la nostra Lombardia, ma il themata bizantino della Langobardia minor, che, con qualche piccola differenza, corrispondeva alla nostra Puglia.

Si tratta di pietre funerarie, incise con il cosiddetto Futhark recente, l’alfabeto runico di sedici segni derivato da una semplificazione del Futhark antico, di 24 caratteri, dedicati ai soldati della guardia variaga.

Questo corpo militare ha una storia affascinante: nel 988, l’imperatore bizantino Basilio II richiese un gran numero di soldati variaghi a Valdamarr Sveinaldsson, che i russi chiameranno Vladimir di Kiev, come aiuto per difendere il suo trono. Costretto dal trattato che il padre aveva stipulato dopo l’assedio di Dorostolon, il principe russo di origine vichinga inviò 6.000 uomini al basileus, che in cambio gli diede in sposa sua sorella Anna Porfirogenita. Vladimir I si convertì al cristianesimo ortodosso e obbligò il suo popolo a mazzate in capo a seguirlo in questa decisione. Nel 989, questi soldati, guidati dallo stesso Basilio, si recarono a Crisopoli per sconfiggere il generale ribelle Barda Foca, che morì in battaglia. Il suo esercito fu messo in fuga e inseguito con grande ferocia dai variaghi, che si distinsero poi anche nelle successive campagne in Georgia e in Armenia.

Basilio II ne fu talmente impressionato, da trasformare questi mercenari nella sua guardia pretoriana: fu un ottima scelta. I vichinghi, saputo che a Miklagard, nome norreno di Costantinopoli, vi fosse la possibilità di avere uno stipendio regolare e assai più consistente di quanto pagato dai loro jarl, sciamarono in massa verso sud; inoltre, pur essendo estremamente sindacalizzati, spesso entrarono in sciopero per sollecitare l’aumento del soldo, erano alieni dal farsi coinvolgere nello sport preferito della corte bizantina, intrigare e pugnalare alle spalle il basileus, il che li rendeva assai più affidabili rispetto alle altre truppe.

Gli storici bizantini parlano con un misto di sgomento e ammirazione di questi giganti capaci di bere incredibili quantità di vino, inarrestabili in battaglia, provenienti da “Thule”, una terra situata genericamente a Nord del mondo conosciuto. Anna Comnena, la grande storica e principessa, parla di “pelekyphoroi barbaroi”, Barbari portatori di ascia. Anna conosceva bene i Variaghi: per ben due volte, salvarono la vita del fratello Giovanni II Comneno dai sicari che lei aveva inviato ad assassinarlo. Alla morte dell’Imperatore che avevano servito, le sue Guardie avevano il privilegio di prelevare dal tesoro del sovrano tutti i beni che fossero riusciti a trasportare.

Uno dei variaghi più famosi fu Harald Hardrada, fratellastro del re di Norvegia Olaf il Santo, Harald, ancora molto giovane si ritrovò a combattere per l’indipendenza del proprio paese nella battaglia di Stiklestad 1030. Olaf morì e Hardrada fuggì a Kiev, dove combatte al servizio del principe Jaroslav I di Kiev contro i nomadi delle steppe, fino a ottenere il rango di capitano.

Nel 1034, al comando di 500 uomini, si trasferì a Costantinopoli, dove combattè contro gli arabi sulle rive dell’Eufrate, fece da guardia del corpo agli ambasciatori diretti al Cairo, svolse il ruolo di braccio destro del Maniace nel tentativo bizantino di riconquistare la Sicilia, occasione in cui conobbe il capostipite degli Altavilla.

Su questa impresa si narrano molti aneddoti, il più noto probabilmente è come, assediando senza risultati una città fortificata, Harald si accorse che le case degli abitanti sono fatte di paglia e molti uccelli avevano il nido sui tetti. Harald ordinò di catturare tutti gli uccelli, sulla loro coda vennero legati dei pezzi di legno intrisi di catrame, gli diede fuoco. Come previsto gli uccelli infuocati si posarono sui loro nidi nei tetti di paglia, incendiandoli e facendo cadere la città.

Dopo avere contribuito a domare la rivolta bulgara, venne accusato di aver sottratto oro dal bottine destinato all’imperatore, e, per non farsi catturare, scappò via per ritrovarsi poi re di Norvegia come Harald III e finire la propria vita in Inghilterra contro Harold Godwinson nella battaglia di Stamford Bridge; proprio questo scontro, che favorì la successiva vittoria di Hastings di Guglielmo il Conquistatore, cambiò la natura della Guardia Variaga; progressivamente i guerrieri vichinghi furono sostituiti dagli anglosassoni in esilio, tanto che Edgardo Atheling, il re perduto d’Inghilterra, ne divenne capitano.

guardia

L’arma principale della Guardia Variega era l’ascia danese anche se erano spesso istruiti nell’arte della spada e in quella dell’arco. Alcune fonti li descrivono anche come guerrieri a cavallo. Allora, cosa centrano questi guerrieri con la Puglia ?

Una dei drammi politici dell’Impero Bizantino fu l’incapacità di integrare nel suo sistema di potere le  le élites del Sud Italia: benché i loro themata fossero i più ricchi tra i possessi del Basileus e fornissero buona parte delle sue entrati fiscali, i loro maggiorenti non ebbero mai un ruolo centrale a Costantinopoli. Nessun Basileus saltò fuori da Rhegion o da Bari.

Questa mancata integrazione, provocò uno stato di quasi perenne rivolta contro il potere centrale, fomentato e appoggiato dai vicini arabi e longobardi, di cui approfittarono poi i normanni: la Guardia Variaga fu spesso e volentieri utilizzata per mettere in riga i ribelli.

Una delle rivolte più sanguinose, a cui probabilmente fanno riferimento le iscrizioni svedesi, fu quella di Melo di Bari, che secondo il cronista Guglielmo di Puglia, era di origini longobarde (Longobardum natum). Longobardo, ma di cultura greca (come afferma Guglielmo di Puglia “more virum Graeco vestitum”), era un esponente dei ceti ricchi della Bari bizantina.

Sotto la sua guida, il 9 maggio 1009 le città di Bari, Trani e Bitonto si ribellarono al governo fiscale del catapano bizantino Giovanni Curcuas: durante la rivolta il catapano restò ucciso e gli insorti sconfissero i bizantini a Bitetto e a Montepeloso. La rivolta, appoggiata dai principi longobardi e non avversata dal papa Sergio IV, sembrava avere successo, approfittando anche del fatto che l’imperatore Basilio II era duramente impegnato nei Balcani nella guerra contro i Bulgari.

Ma il nuovo catapano Basilio Mesardonite, dopo un lungo e cruento assedio, riconquistò con la forza la città di Bari (1011): molti baresi furono uccisi, mentre i capi degli insorti riuscirono a fuggire: Melo si rintanò prima ad Ascoli e di là raggiunse Benevento, Salerno e Capua, accolto con qualche preoccupazione dai principi longobardi; suo cognato Datto chiese soccorso ai benedettini di Monte Cassino. La moglie di Melo, Maralda, e suo figlio Argiro, furono invece catturati e portati a Costantinopoli.

Con la benedizione di papa Benedetto VIII, Melo nel 1015 si recò in Germania dall’imperatore Enrico II per chiedere aiuto. L’imperatore lo accolse tra i suoi vassalli e lo nominò Duca di Puglia, tuttavia non gli fornì alcun aiuto militare. Melo allora ritornò in Italia, si procurò il rinnovato appoggio dei principi longobardi e delle città dissidenti e assoldò alcuni cavalieri mercenari normanni, guidati da Gilbert Buatère, che fecero così la loro comparsa sulla scena politica italiana. Con loro mosse da Capua verso la Capitanata: grazie ad alcuni successi iniziali (ad Arènola presso il Fortore, a Civitate, a Vaccarizza presso Troia nella primavera del 1017), Melo si aprì la strada fino a Trani. Ma lo scontro decisivo con le truppe bizantine guidate dal nuovo catapano Basilio Bojoannes avvenne nella battaglia di Canne del 1º ottobre 1018, che vide soccombere gli insorti.

Ora, cosa dicono queste iscrizioni ? Da queste si ricava come i guerrieri in partenza dalla Scandinavia per entrare a far parte della Guardia non fossero, come troppo spesso si ritiene in base agli stereotipi sui Vichingi, dei barbari rozzi e violenti, ma giovani provenienti da famiglie di heinjarl (nobili) o di hersir, già addestrati all’uso delle armi, le cui famiglie erano alfabetizzate, cosa rara nella società scandinava dell’epoca.

Tutti i personaggi menzionati nelle stele erano cristiani, così come i committenti, malgrado all’epoca la Svezia costituisse ancora una roccaforte del culto norreno (asàtrù) soprattutto nelle campagne e tra le classi inferiori (thraeller).

Infine, i committenti, che potevano essere sia uomini, sia donne, erano amanti della poesia scaldica, sia per la metrica dell’iscrizione, sia per l’uso dei kenning, la perifrasi che sostituisce il nome di una persona o di una cosa, come ad esempio testimoniato dalla seguente epigrafe

Inga ha innalzato questa pietra per Óleifr, suo figlio Egli ha arato con la sua prua il cammino dell’Oriente, e incontrato la propria fine nella terra dei Longobardi

Sciamanesimo Coreano

Parlando dello sciamanesimo, aveva accennato all’esperienza coreana, dove, tra molte difficoltà e diverse persecuzioni, questa forma di religiosità, nota come Mugyo oppure Shingyo, o ancora come Museok (cultura sciamana), convive e si integra nelle dinamiche di una tra le società postmoderne più evolute al mondo; in questo, forse, è il segreto del suo grande fascino.

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Evidenze archeologiche sembrano datare l’esistenza dello sciamanesimo in Corea sino all’era del bronzo. Alcuni studiosi invece, non distinguendo tra animismo e sciamanismo, lo datano persino al paleolitico, prova di ciò sono i numerosi dolmen che si trovano in Corea, dove non esistono in nessun altro paese al mondo zone con un’ alta concentrazione di dolmen come le si trovano in questa penisola.

Molti non lo sanno, ma uno studio recente ne ha catalogati 29.510, di cui 19.068 nella provincia di Chŏlla-namdo e 1.597 in Chŏlla-pukto, il che rivela che la Corea possiede il 60% dei dolmen esistenti al mondo. Anche se sono culturalmente indipendenti da quelli eretti in Europa, anche questi erano associati alle sepolture gentilizie delle figure di spicco di un clan e probabilmente associati a particolari orientamenti astronomici.

Il che implica l’esistenza sia di un culto degli antenati, sia delle forze misteriose della Natura: con il tempo, questa religiosità primigenia è stata influenzata dalla vicina cultura cinese, inglobando elementi provenienti sia dal buddismo, sia dal taoismo.

Perseguitato dagli occupanti giapponesi, che uccisero centinaia di sciamani e distrussero decine di templi, negli ultimi anni, il Mugyo sta avendo una nuova rinascita; cosa peculiare di questa religione, è come il ruolo di leader spirituale della comunità sia affidato preferibilmente ad una donna, nota come Mudang. Uno sciamano di sesso maschile è molto meno frequente, ed è noto come Baksu. Le Mudang sono divise in due gruppi: le Gangshinmu e le Seseummu.

Le Gangshinmu sono quelle sciamane che per diventare tali devono attraversare un periodo di iniziazione o possessione spirituale nota come shinbyeong: questo raggiunge il suo apice quando la iniziata si trova in stato di trance, durante il quale attraversa diverse dimensioni spirituali e trova i suo protettore divino, che solitamente si presenta sotto sembianze animali. Inoltre durante il suo viaggio tra le varie dimensioni la futura sciamana dovrà scalare montagne oppure alberi, entrambi riconducibili all’Axis Mundi.

In questo primo gruppo si distinguono due sottogruppi: le Mudang vere e proprie e le Myeongdu. Le Mudang propriamente dette ricevono la divinità o l’entità che tentano di contattare nello stato di trance, mentre le Myeongdu si interfacciano con le anime dei defunti.

Le Seseummu sono le sciamane che acquisiscono i loro poteri per via ereditaria. Anche in questo gruppo sono distinguibili due sottogruppi: quello delle Shinbang e quello delle Dangol. Le Shinbang comunicano con gli spiriti mediante sedute medianiche mentre le Dangol eseguono esclusivamente rituali. Il termine generico per rituale o cerimonia in coreano è Gut, che può essere sia di natura individuale (ad esempio un rituale di auto guarigione) o può rappresentare un festivo momento popolare, come un rituale per assicurare un buon raccolto o per proteggere il villaggio da entità non gradite. I rituali variano da regione a regione, di villaggio in villaggio ma sono scanditi tutti più o meno in 12 parti. Alcuni dei rituali più noti sono i seguenti:

  • Naerimgut: rituale di iniziazione
  • Dodanggut: rituale di prosperità
  • Chaesugut: rituale per la buona fortuna
  • Sshitgimgut: rituale di esorcismo
  • Namhaeanbyeolshingut: rituale molto lungo suddiviso in 18 parti, tipico della costa sud occidentale della penisola e serve per assicurare una pesca proficua.

Le “Gut”, si svolgono in casa o all’aperto e per attrarre gli spiriti dei defunti si lasciano ancora oggi offerte di cibi e bevande, tra cui anche una testa di maiale.Parlando di trance, gli sciamani si avvalgono di diversi strumenti per facilitare “l’accesso” a questo stato alterato di coscienza come danze, la musica e, peculiarità coreana, le rappresentazioni teatrali.

La danza sciamana per eccellenza è il Salpuri, ovvero la danza dell’esorcismo si eseguiva tradizionalmente accompagnata al ritmo dello Shinawi, un tipo di composizione musicale improvvisata composta da strumenti a fiato e a percussione, che con il proseguire della danza diventa sempre più veloce, che sotto molti aspetti, somigliava al nostro tarantismo, con i movimenti spontanei, che si concentrano per lo più nella parte superiore del corpo e sono atti alla ricerca della più profonda natura dell’uomo.

I teatri delle maschere, detti Talchum, rivelano di possedere le loro origini in rituali arcaici, in quanto iniziano sempre con un saluto agli dei.In queste rappresentazioni lo scopo non è quello di imitare le loor le gesta o comportamenti, bensì quello di evadere dalla propria maschera della personalità per favorire la possessione divina e permettere all’entità di comunicare attraverso il corpo del così detto “attore”.

Le divinità contemplate nello sciamanismo coreano sono troppe per nominarle tutte, in quanto sembra come nell’animismo riconosce principi divini in ogni sfaccettatura del creato. Alcune divinità, connesse direttamente allo sciamanesimo

  • JakduDaeshin, il dio della grande lama, che possiede la sciamana durante la danza nota come Jakdureultada, una danza dove questa dimostra alla divinità il suo valore danzando sulle spade.
  • SongsuDaeshin, è la dea protettrice delle mudang, può presentarsi sotto diverse forme.
  • ChangbuDaeshin, è lo spirito della musica e degli strumenti musicali, interviene nei rituali accompagnati da musica rituale “proteggendo” la musica.

chang

Un elemento tipico della spiritualità coreana sono i “Changsung”, grossi tronchi di legno scolpiti a forma di faccioni minacciosi, severi, talvolta grotteschi. I Changsung erano quasi sempre due: “il generale che comanda tutto ciò che sta sotto il cielo” e “il generale che comanda tutto ciò che sta sotto la terra”; venivano rizzati nei pressi dei villaggi, in un punto geomanticamente strategico, donde potessero esercitare i loro poteri apotropaici. A Jejudo sono diffusi gli “Harubang”, le pietre degli antenati, scolpite nella roccia lavica, alte fino a tre metri. Non è nota la loro origine, forse erano guardiani del villaggio o simboli di fertilità.

tempio

Ovviamente, esistono anche templi, come il famoso Inwangsan Guksadang era utilizzato per i sacrifici e gli esorcismi ed è il tempio sciamanico più famoso della città, fu ricostruito dai coreani dopo che i giapponesi lo distrussero nel 1925. Nelle vicinanze c’è Seonbawi, una grande roccia nera dove i monaci e gli abitanti di Seoul vanno a pregare, per dialogare con gli spiriti della Natura…

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