Ritornato a Roma, riprendo a parlare del romanzo breve che ho appena terminato di scrivere, il quale a seconda delle decisioni del curatore, potrà essere pubblicato in un’antologia, oppure seguire altre strade.
Come vi accennavo, il suo protagonista è Claudio: uomo coltissimo, tanto furbo da sopravvivere alle faide della famiglia Giulio Claudia, che fanno impallidire quelle de Il Trono di Spade, ottimo amministratore, mal sopportato dai radical chic, capeggiati dal buon Seneca, clamoroso esempio del contrasto tra Scrittura e Vita.
Seneca affermava ipocritamente che il denaro non rendesse felici
quel male che aveva reso penosa la povertà, e che rende altrettanto penosa la ricchezza, sta nell’animo stesso
ma inseguì i soldi e divenne ricchissimo. A differenza di lui, Claudio era assai meno snob e diciamola tutta, assia più moderno di tanti politici contemporanei: ad esempio, nel 48 d.C. si tenne in Senato un dibattito sull’ammissione al rango senatorio di alcuni maggiorenti della Gallia Comata, cosa assai poco gradita alle ologarchie sovraniste dell’epoca..
Claudio, invece, era a favore e il suo intervento, divennel’occasione per un excursus storico sul rapporto tra Roma e gli alleati e sui benefici ricavati dall’estensione dei diritti di cittadinanza. Ecco il testo, rielaborato dal buon Tacito
23 Sotto il consolato di A. Vispanio e L. Vitellio, poiché si discuteva sull’integrazione nel senato di nuovi membri, e poiché i più nobili abitanti della Gallia detta Comata, che avevano già prima ottenuto trattati di alleanza e il diritto di cittadinanza romana, chiedevano la facoltà di esercitare i diritti politici in città e di essere eletti, le opinioni al riguardo erano molte e diverse. E con strategie diverse si cercava di ottenere l’appoggio del principe: c’erano quelli che insistevano sul fatto che l’Italia non era così mal ridotta da non essere in grado di fornire il senato alla sua capitale. Dicevano che un tempo gli autoctoni erano stati sufficienti per governare i popoli dello stesso sangue, e che non ci si doveva pentire degli usi della vecchia repubblica: era anzi possibile ricordare esempi di gloria e virtù, forniti dal carattere romano, secondo gli antichi costumi. Non era forse già abbastanza grave il fatto che i Veneti e gli Insubri avessero fatto irruzione nella curia, senza che con una massa di stranieri si facessero entrare in senato dei, per dir così, prigionieri? Che carriera politica restava per i residui membri della nobilitas, o per un povero senatore di origini laziali, se mai ce n’era ancora qualcuno? Tutti i posti li avrebbero occupati quegli arricchiti, i cui nonni e bisnonni, alla guida di tribù ostili, avevano fatto strage con ferro e violenza dei nostri eserciti, e avevano assediato ad Alesia il divino Giulio. Per non parlare che delle vicende recenti: cosa sarebbe accaduto se si fosse risvegliato il ricordo di quelli che erano morti in difesa del Campidoglio e dell’acropoli della città, abbattuti dagli attacchi proprio di costoro? Si accontentassero dunque di esser considerati cittadini romani: non si dovevano avvilire le insegne dei padri, gli onori delle magistrature.
24. Per nulla turbato da queste opinioni, e altre di questo genere, il principe immediatamente tenne un discorso e, convocato il senato, cominciò così: “I miei antenati, di cui il primo, Clauso, di origine sabina, fu accolto nella cittadinanza romana e fra le famiglie patrizie, mi esortano ad adottare simili decisioni nel governo dello stato, portando qui quanto di egregio vi sia stato altrove. Infatti so bene che i Giulii vengono da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porci da Tusculo, e, per non considerare solo stirpi antiche, altri sono stati chiamati in senato dall’Etruria, dalla Lucania e da ogni parte d’Italia. Infine l’Italia stessa ha allargato i suoi confini fino alle Alpi, così che non solo gli uomini, presi singolarmente, ma anche le terre, i popoli, crescessero insieme nel nostro nome. Da quando, fatti entrare nella cittadinanza i Transpadani, si è portato aiuto al nostro dominio indebolito con l’aggiunta delle valide forze dei più validi fra i provinciali, col pretesto di fondare colonie militari in tutto il mondo, godiamo in patria di una stabile pace e siamo prosperi nelle vicende internazionali. Forse ci siamo pentiti che siano venuti qui i Balbi dalla Spagna, o uomini non meno nobili dalla Gallia Narbonese? Rimangono i loro discendenti, e non ci sono inferiori nell’amore verso questa patria. Cos’altro fu rovinoso per Spartani e Ateniesi, benché fossero potenti sotto il profilo militare, se non il fatto che tenevano lontani i vinti, trattandoli da stranieri? Invece il nostro fondatore, Romolo, fu così saggio da considerare moltissimi popoli nello stesso giorno prima nemici, poi concittadini. Abbiamo avuto re stranieri. Affidare le magistrature ai figli dei liberti non è consuetudine recente, come molti ritengono ingannandosi, ma era d’uso anche per gli antichi. Ma abbiamo combattuto contro i Senoni: Volsci ed Equi, di sicuro, non hanno mai combattuto contro di noi! Siamo stati fatti prigionieri dai Galli: ma abbiamo dato ostaggi agli Etruschi e abbiamo subito il giogo dei Sanniti. E tuttavia, se si ripercorrono tutte quante le guerre, nessuna è durata meno di quelle contro i Galli: e dopo la pace è stata continua e sicura. Ora, assimilati i nostri costumi, attività, parentele, ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, piuttosto che, separati da noi, se le tengano per loro. Senatori, tutto ciò che ora ha antichissima tradizione, un tempo fu nuovo. I plebei hanno ottenuto l’accesso alle magistrature dopo i patrizi, dopo i plebei i Latini, e dopo i Latini tutti gli altri Italici. Anche la decisione di oggi un giorno sarà antica, e quello che oggi legittimiamo attraverso esempi del passato, sarà considerato un esempio nel futuro”.
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