Può sembrare strano, ma le attestazioni del tamburo a cornice in Magna Grecia sono abbastanza tarde: risalgono infatti al V secolo a.C. soprattutto in Puglia e in Sicilia, con minore intensità in Campania e in Calabria. Forma, dimensioni relative (quali si possono ricavare nelle arti figurative dal rapporto con l’immagine del suonatore), decorazioni sulla cornice e sulla membrana appaiono simili a quelle odierne, mentre solo sporadicamente – e in particolare nelle attestazioni apule – paiono trovarsi i cimbali affissi in finestre aperte sulla cornice, talvolta sostituiti (o accompagnati) da campanelli e/o sonaglini.
In particolare, tali rappresentazioni sono connesse a una sorta di ex voto, consistenti in miniature in bronzo, dedicate alle divinità ctonie e a Demetra, per ricordare il rito dei Misteri Eleusini, in cui con il suono del tamburo a cornice si imitava l’invocazione di aiuto di Persefone trascinata via sul cocchio di Ade.
Tale relazione è documentata anche dalle statuette fittili di suonatrici di tamburello, ampiamente diffuse nell’Italia meridionale e in Sicilia, in particolare tra il IV e il III sec. a.C che rappresentavano probabilmente delle sacerdotesse.
Quest’ambito, però fa pensare come la dimensione religiosa del tamburello sia assai più arcaica: il culto di Demetra è infatti una sorta di fossile vivente del complesso mondo spirituale minoico e miceneo, caratterizzato da una spiritualità di tipo sciamanico.
Così, il ritmo del tamburo a cornice, assieme alla danza sincopata, aiutava il fedele a entrare in trance, per fondersi nel Trascendente, il Numen dei latini, ed esplorare gli Abissi del proprio Io. Tale approccio al Sacro, per suo aspetto eversivo, che sfugge a ogni tentativo di vincolarlo a norme e dogmi, e per la sua dimensione individuale, in cui il rapporto con l’Assoluto è diretto e non mediato da strutture ecclesiastiche, è stato progressivamente emarginato.
Eppure, proprio perchè è legato alle radici della nostra cultura, è sopravvissuto, in forme diverse, in tutto il Mediterraneo. Mi limito a ricordare tre esempi: il primo è esicasmo, la pratica ascetica diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto.
«Esicasta», scrive Giovanni Climaco, «è colui che cerca di circoscrivere l’incorporeo nel corporeo… La cella dell’esicasta sono i limiti stessi del suo corpo: al suo interno c’è una dimora di sapienza»
E questo astrarsi dal sè cosciente avviene tramite la ripetizione continua di una breve preghiera, accompagnata da passi di danze e dal suono ritmato del tamburello.
Il secondo è la straordinaria esperienza dei Dervisci danzanti, fondati dal grande mistico Rumi, colui che scrisse
“Non giudeo sono, nè cristiano, nè ghebro o musulmano!
Nè orientale nè occidentale.
Non di Persia o Babilonia, nè del Khorosan io sono!
Il mio luogo è l’Oltrespazio, il mio Segno è il senza Segno,
Uno cerco, Uno conosco, Uno canto, Uno contemplo!
Dopo la morte, non cercate la tomba mia nella terra,
nel petto degli uomini santi è il mio sepolcro”
Il terzo, probabilmente il più vicino al significato arcaico del rito, è il nostro tarantismo, in cui la musica, la cromoterapia e la danza provocavano la catarsi delle tensioni e pulsioni distruttive presenti nelle persone e nella società rurale della Puglia
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