Il Carmine Maggiore

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Il Mercato di Ballarò è uno scrigno che nasconde anche grandi tesori artistici: uno di questi è la chiesa del Carmine Maggiore. Sino a qualche anno fa, questa era assai poco accessibile al turista: al massimo ci si poteva imbucare durante le cerimonie religiose, con i fedeli e i preti che, giustamente, guardavano male gli estranei.

Ora, come conseguenza della crescita turistica di Palermo, il Carmine Maggiore è diventata assai più accessibile: dalle otto di mattina alle undici è accessibile a tutti i fedeli, mentre dalle undici a alle sedici, pagando due euro, si ha la possibilità di partecipare a una visita guidata, condotta da giovani storici dell’arte, pieni d’entusiasmo.

Questa chiesa ha una storia molto lunga e complessa: secondo la tradizione, l’arrivo dei carmelitani dalla Palestina a Palermo, risale al 1118, al seguito della gran contessa Adelasia del Vasto, al ritorno della sua fallimentare esperienza come regina di Gerusalemme.

Adelasia regalò ai religiosi una piccola cappella romanica all’Albergheria, dedicata alla Pietà, che, nei primi anni del Duecento, fu ampliata secondo lo stile gotico, con i costoloni del soffitto ad arco acuto e l'”Agnus Dei” nella chiave pensile e fu decorata con affreschi rappresentanti il Redentore e i profeti Elia ed Eliseo.

A ridosso della Cappella della Pietà, diventata angusta per il culto, fu costruita dai Frati nel 1243 una seconda chiesa. La dedicarono alla SS. Annunziata, come tutte le prime chiese fondate dai Carmelitani in Occidente, per il forte legame che essi avevano con Nazaret, luogo della casa della Madonna e dell’annuncio dell’Incarnazione del Cristo. Essa successivamente fu chiamata anche Madonna del Carmine.

Questa seconda chiesa aveva un’orientazione opposta all’attuale: l’ingresso si trovava al posto dell’attuale abside e relativo coro (nell’attuale Via Angelo Musco). Di essa rimangono i ruderi a fianco destro dell’attuate chiesa, all’interno della cappella di Gesù Bambino, le due colonne lungo il portico del chiostro.

La costruzione della chiesa attuale è invece condotta dal 6 marzo 1627 al 1693, con alcune interruzioni sotto la direzione di Mariano Smiriglio, uno dei protagonisti della stagione tra il manierismo e il barocco in Sicilia nella prima metà del Seicento.

L’edificio si presenta a forma di basilica a croce latina, con tre navate, sorretta da 12 colonne in pietra di Billiemi con capitelli dorici. La semplice e disadorna facciata è aggiunta nel 1814, nella nicchia sopra la porta centrale è collocata la statua della “Vergine del Carmelo” opera settecentesca. Nella navata principale, sul soffitto campeggia l’affresco “Il dono dello scapolare” opera di Giovanni Patricolo del 1814 unica porzione degli affreschi pervenuti.

Che si può visitare nella Chiesa? Si può cominciare, paradossalmente, Ex Cappella di Sant’Elia, chiusa quasi tutto l’anno, in cui è conservata la splendida statua della Madonna del Carmelo, una delle tante patrone di Palermo, portata in processione per il mercato di Ballarò nell’ultima domenica di Luglio, in quello che è chiamato

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Sulla grande “vara” rotonda, dotata ruote per via della pesantezza del fercolo ( kg. 200 ) trasporta la prominente statua argentea, come una reale persona ( cm. 180 ) rappresentata in posa frontale, fuori esce da una nuvola dove si intravedono delle teste di tre cherubini.

La Vergine regge nel braccio sinistro il bambino ignudo che consegna un giglio d’argento e, con la mano destra porge l’abitino. In particolare, la statua di legno policromo è ricoperta nella veste e nel mantello di una lamina d’argento, frutto della fatica di Giuseppe Castronovo, che detto fa noi, ebbe una pazienza di Giobbe nei confronti dei Carmelitani

Incominciata, in un primo momento dall’argentiere nel 1723, fu intimato, durante l’esecuzione dei lavori dai frati che la testa e le mani dovevano essere fatti a getto, per il resto si poteva procedere con la lavorazione a sbalzo; dinanzi a tale pretesa, Giuseppe entrò in sciopero e di conseguenza, i religiosi scissero il contratto.

Giuseppe, non domo, si rivolse alla sua associazione di categoria e tutti gli altri argentieri di Palermo, in segno di solidarietà, rifiutarono la commissione dei Carmelitani, che così tornarono a più miti consigli.

Nel 1725, il lavoro fu ridato a Giuseppe, con i Carmelitani che si limitarono a chiedere di rivestire un modello in legno di una nuova statua con argento lavorato, un lavoraccio che durò sei anni e finì solo nel 1729, anno in cui si procedette alla prima processione.

Nel 1773 l’argentiere Domenico Russo ritoccò il manto argenteo e vengono aggiunte due corone “all’imperiale” per la Madonna e il Gesù bambino, in modo da aggiornare la statua all’incipiente gusto neoclassico. Nuovi interventi si eseguirono nel 1813 dove intervenne Girolamo Bagnasco per eseguire il volto della Vergine e gli arti e, rimodellare il bambin Gesù.

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Accanto all’ex cappella di Sant’Elia, vi è quella di Spiridione di Trimitonte, santo venerato anche dagli Ortodossi e protettore dell’Isola di Corfù, caratterizzata dalla decorazione a marmi mischi, realizzata da Francesco e Gerardo Scuto, gli stessi che parteciparono al cantiere della Casa Professa, nel 1667.

Molto interessanti, sono le cappelle dei due transetti, dedicate alla Madonna del Carmine e al Crocefisso, le cui colonne tortili, ispirate a quelle del baldacchino di San Pietro, sono decorate dagli eleganti stucchi di Giuseppe e Giacomo Serpotta,che nel primo caso rappresentano le vicende connesse alla fondazione dell’Ordine dei Carmelitani, mentre nel secondo, le scene delle passione di Cristo.

Colonne, che sono causa di lunghe discussione tra gli studiosi dell’artista rococò: anche se non è documentato dalle fonti, nelle sue prime opere sono innegabili le influenze berniniane, comprensibili solo se si ipotizza un soggiorno romano.

Ma quando sarebbe avvenuto? I più ipotizzano che sia antecedente alla sua prima opera documentata, nel 1677, la decorazione con fregi e angeli, della chiesa della Madonna dell’Itria di Monreale, realizzata in collaborazione con Procopio de Ferrari.

Altri invece, visto il buco temporale tra i putti dell’Oratorio di San Mercurio e dell’Oratorio di san Manuel Loiacono, entrambi del 1678, la statua di Carlo II di Spagna a Messina, realizzata nel 1679 e distrutta dai buddaci nel 1848, e le colonne del Carmine Maggiore, risalenti al 1684, ipotizzano il viaggio in tale quinquennio.

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Sempre a Giacomo Serpotta, sono attribuiti da Donald Garstang, uno dei massimi esperti dell’artista, gli stucchi che decorano la cappella di Santa Caterina d’Alessandria; in ogni caso, assieme la vicina Cappella della Madonna dell’Udienza, questa rappresenta una sorta di antologia dell’opera scultorea della famiglia Gagini, di origine genovese, che ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione del Rinascimento in Sicilia.

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La Madonna è opera infatti del capostipite Domenico, che esordì come architetto nella città ligure, si trasferì a Napoli, dove collaborò alle decorazione scultorea dell’arco trionfale di Castelnuovo, per poi trovare pace in Sicilia, dove Mastru Duminicu marmuraru, oltre che all’Arte, si dedicò con enorme successo al commercio dello zucchero.

Santa Caterina è invece stata scolpita dal figlio Antonello, che ebbe talmente tanto successo, tanto da avere due botteghe: una presso il Duomo, vero cantiere di lavorazione, l’altra al porto dove mostra lavori finiti, pronti all’esportazione in tutta la Sicilia e in Calabria, e scalo per commercio non solamente di marmi.

Nella cappella dedicata a Sant’Andrea Corsini, vi è una tela che rappresenta l’apparizione del Vergine al santo, realizzata da Pietro Novelli, uno dei pittori di maggiore successo nel Barocco siciliano, durante il suo periodo caravaggesco.

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Infine dal Chiostro cinquecentesco, si può ammirare la splendida cupola, Costruita nel 1680 grazie all’impegno di Fra Angelo La Rosa, carmelitano, che diede fondo alla sua fantasia, s’innalza su tre ordini: tamburo, volta e lanternino.

I pilastri sono ornati da quattro statue di stucco, di Vincenzo Messina, del 1681 e raffigurano: Mosè, S. Elia, profeta, S. Giovanni Battista e Giona. La parte interna della volta è rivestita di stucchi ornamentali con festoni di fiori e frutta. Le quattro finestre sono ornate di putti, vasi e fiori in stucco.

All’esterno, invece vi sono quattro coppie di colonne scanalate di pietra con capitelli dorici intramezzati da quattro grandi telamoni, uomini goffi e muscolosi in atto di reggere la cupola. La cupola, poi, tutta convessa è rivestita da maioliche smaltate i cui colori richiamano il mondo arabo. Essa è divisa in quattro sezioni o punti cardinali ove viene messo in evidenza lo stemma carmelitano. In alto è sormontata da un cupolino, la palla e la croce.

Ballarò

La seconda tappa del mio diario palermitano è dedicata a uno dei mercati storici della città: Ballarò. Negli ultimi anni, la grande crescita del turismo diretto a Palermo, ha svolto un importante ruolo di volano nel recupero e nella riqualificazione urbana del suo centro storico.

Ha facilitato la pedonalizzazione del Cassaro e di Via Maqueda, che progressivamente stanno cambiando volto alle due strade, ha ampliato l’offerta di case vacanze e b&b, ha invogliato al recupero di monumenti e palazzi storici che erano abbandonati e chiusi al pubblico: di fatto sta cominciando a dare un importante contributo all’economia cittadina.

Ciò ha cambiato anche la natura stessa dei mercati: al Capo e alla Vucciria ormai ci sono più locali per aperitivi che banchi e persino Borgo Vecchio, di solito lontano dai flussi turistici, è stato oggetto di gentrification urbano, vedendo la crescita della presenza giovanile e turistica nelle ore notturne, attratta dai molti pub, luoghi di ritrovo e taverne, oltre che hotel e b&b.

L’unico mercato che continua a mantenere la sua anima popolare è proprio Ballarò, che ebbe origine almeno nel X secolo, a dare retta a quella malelingua del mercante arabo Ibn Hawqal; all’epoca, il mercato si teneva fuori delle antiche mura puniche, nella parte meridionale di un borgo agricolo, un rabat, esteso fra la moschea di ‘Ibn Siqlab, dove adesso sorge la chiesa di san Nicolò da Tolentino, e il Quartiere Nuovo, Harat Al Giadidab, adiacente a quello che diventerà il Quartiere Ebraico, ed esterno all’attuale via Divisi.

Questa parte della città comunicava con quella recinta dalle antiche mura punico romane attraverso le porte Bab Al Anba (nelle vicinanze di S. Giovanni degli Eremiti), Bab As Sudan (la porta dei negri) lungo la Via Biscottai all’altezza dell’ex ospedale Fatebenefratelli e Bab al Hadid (porta di ferro) là dove è oggi l’ingresso laterale della Facoltà di giurisprudenza. Essa era separata dall’agro palermitano da una muraglia di fortificazione interrotta dalle porte Mazara e S. Agata. E’ questo il tratto di mura che il normanno Conte Ruggero espugnò dando così inizio alla conquista di Palermo da parte dei normanni.

Ibn Hawqal oltre ad accennare all’esistenza del mercato, ne collega l’origine alla vicinanza con un villaggio agricolo nei pressi di Baida, Bahara, da cui provenivano le mercanzie. Tuttavia è possibile come il nome possa invece derivare anche da Segel-ballareth, che in arabo significa sede di fiera.

La persistenza della denominazione è peraltro confermata da una serie di documenti d’archivio: il primo, del 1287, parla di una contrata Ballarò ed un secondo, della stessa epoca, riferisce di un macellum Ballaronis. Un terzo, del 1327, cita una platea pubblica de Ballarò, cioè un mercato destinato a tutti i generi alimentari e non solo alla carne.

Il primo nucleo del mercato doveva svilupparsi lungo l’omonima via, n origine stretta e tortuosa che nel Quattrocento sarebbe stata allargata fino ad assumere l’attuale configurazione di piazza, compresa fra il monastero di Santa Chiara e il convento del Carmine.

Piazza in cui sbuca la via Albergheria, che fa da il nome all’intero quartiere, che secondo alcuni deriva da “Albergaria Centurbi et Capicii” con cui i palermitani indicarono territorio in cui Federico II deportò nel 1243 gli abitanti di Centuripe e di Capizzi che si erano ribellati alla sua autorità e secondo altri potrebbe invece significare “terra a mezzogiomo”, da Albahar, strada di impianto medievale e con le medesime caratteristiche del vicolo, divenuta nel Cinquecento platea magna, strada commerciale un po’ più larga per allinearvi le taverne e per il passaggio dei carri.

In quell’epoca Ballarò assumeva un assetto definitivo. Il governo borbonico sottopose il mercato ad alcuni miglioramenti che riguardavano la costruzione di portici e banconi, così come era stato fatto per la Vucciria. Purtroppo, come ricorda il marchese di Villabianca, tali provvedimenti riuscirono solo in parte per la natura troppo angusta dei vicoli.

Tra l’altro, proprio il tentativo di ristrutturazione urbanistica dell’area ipotizzato da Franceschiello, che avrebbe portato a numerosi sventramenti, fu una delle cause del malumore locale che favorì l’impresa dei Mille. Nel Novecento i bombardamenti angloamericani del secondo conflitto mondiale provocarono la distruzione della cortina edilizia, parzialmente ripristinata nel dopoguerra, per fare riprendere l’attività alle botteghe, e che aumenta purtroppo la percezione di degrado e di insicurezza da parte dei turisti, quando la realtà è assai più tranquilla.

Oggi l’articolazione del mercato nel mandamento di Palazzo Reale non si è discostata sensibilmente dalla configurazione originaria, rimanendo concentrata in larga misura fra le due piazze Ballarò e Carmine, su cui troneggia la splendida chiesa del Carmine Maggiore, di cui parlerò domani.

In realtà tutta la compravendita si estende anche lungo la via Chiappara al Carmine, fino all’arco di Cutò, al confine con la via Maqueda. Dall’altro lato si può accedere da via San Mercurio o da corso Tukory superando l’antica Porta Sant’Agata, o lungo la via Università, passando per Casa Professa.

Come spesso accade a Palermo, un forte ruole di coesione sociale e di costruzione di un’identità condivisa dentro il Mercato è dato dalle Confraternite, come quella di Maria Santissima del Rosario al Carminello, custode dell’omonimo oratorio, decorato dagli splendidi stucchi dei Serpotta, o quella di Gesù e Maria dei Panettieri, che ha sede nella chiesa di Sant’Isidoro Agricoltore all’Albergheria.

Confraternita che, oltre alla storica processione del Venerdì Santo, da un ventenni allestisce nella sacrestia della Chiesa, durante il periodo natalizio, dei presepi realizzati interamente di pane, vere e proprie sculture effimere.

Un’altra delle caratteristiche di Ballarò sono i banchi dedicati al cibo da strada, che ahimè, a causa della dieta, ho potuto guardare e non toccare. Per curiosità, ne elenco alcuni, a cominciare dai babbaluci, le lumachine, a cui è dedicata una famosa canzone popolare siciliana.

Piatto tradizionale del Festino di Santa Rosalia, i babbaluci sono fatti spurgare per un giorno in acqua e sale, vengono prima bolliti e poi cotti in tegame con aglio e prezzemolo e, a piacere, anche con un poco di pomodoro a pezzetti.

Vi è poi a frittula, formata da tutti i residui della macellazione di bovini, suini, ovini e caprini (sivu i chianchieri). Tali residui vengono dapprima scaldati in un grande recipiente di ferro (fustu) dove friggono lentamente nello strutto (o sugna), e poi nuovamente bolliti per tenerli morbidi e infine compressi come una ciambella. Il frittularu offre tradizionalmente la sua merce in un grande paniere ricoperto da uno strofinaccio a quadrettoni.

Sempre appartenenti al quinto quarto sono il mussu e il quarumi: il primo è un bollito bovino, servito freddo e condito con sale e limone. Viene ricavato da varie parti dell’animale, oltre che dal muso da cui prende il nome: mascella, bocca e naso, piede, calcagno, collo del piede, ginocchio e in generale tutte le parti muscolose formate da tessuti connettivi.

A quarumi, sempre di origine bovina, è un bollito d’interiora, ricavate prevalentemente da varie parti dello stomaco e dell’intestino, insaporito con cipolla, sedano e carote. Per chi invece preferisce il pesce, si trova spesso e volentieri tra i banchi il polpo bollito, condito con abbondante limone, gli involtini di pesce spada e le sarde a beccafico, cosparse di un ripieno di pangrattato, uvetta e pinoli, arrotolate e infornate con gli aromi dell’alloro e del limone.

Per finire il pasto, i fichi d’india o i cedri, serviti a fette e conditi col sale, e accompagnata dallo zammù, un bicchierone d’acqua freddissima, al cui fondo, per mezzo di una bottiglia con un lungo beccuccio di metallo, venivano deposte alcune gocce di anice…

 

Oratorio della Carità di San Pietro

Con qualche giorno di ritardo, mi dedico al mio diario palermitano, per raccontare la scoperta di luoghi che di solito sfuggono ai turisti frettolosi: il motivo, a dire il vero, è abbastanza banale… Non mi sono portato dietro il portatile; scelta dovuta sia al mio pessimo rapporto con le regole sul bagaglio a mano di una certa compagnia irlandese, sia perché, per una volta, ho voluto godermi pienamente le vacanze, limitando al massimo la tentazione di guardare le mail di lavoro.

E devo dire che, tra una passaggiata e qualche scappata a mare, l’obiettivo è stato raggiunto: molto, a dire il vero, ha contribuito non avere preoccupazioni da Roma e a non avere a che fare con gli “uomini pieni di vuoto”.

Chiusa questa premessa, il mio viaggio comincia con un luogo riaperto alle visite da poco, benché sia nella centralissima via Maqueda, che prende il nome dal costruttore, il vicerè duca di Maqueda Bernardino de Cárdenas y Portugal, che decise di creare un nuovo asse viario, sia per togliersi dalle scatole i nobili locali, che chiedevano nuovo spazi per ampliare i loro palazzi, al fine di mostrare a tutti il loro potere e la loro ricchezza, sia per tentare di risolvere quella che già all’epoca appariva come l’annoso problema del traffico.

Su questa via, nascosto all’interno dell’ex Casa Conventuale dei Crociferi, l’ordine religioso fondato da San Camillo, per l’assistenza agli infermi, vi è l’Oratorio della Carità di San Pietro; a Palermo, quando si sente parlare di oratori, il pensiero fa subito allo splendore degli stucchi dei Serpotta… Però, in questo caso particolare, a dominare lo spazio sacro non è la scultura, ma la pittura.

L’oratorio nacque nel 1736, come una sorta di sede del sindacato di categoria dei preti palermitani: all’epoca, un gruppo di parroco palermitani decise di autotassarsi per offrire la propria solidarietà ai confratelli più disagiati, cioè quei preti poveri che stazionavano ai Quattro Canti per chiedere l’elemosina o aspettare che qualcuno li ingaggiasse per celebrare una messa.

In più, benché il pericolo dei pirati barbareschi stesse passando di moda, i parroci si impegnarono anche a riscattare i loro colleghi catturati dagli infedeli e, cosa più immediata e concreta, a garantire a quelli più poveri cure mediche e sepoltura dignitosa.

Nel 1738, La Congregazione de la Carità di San Pietro, così si chiamava questa sorta di sindacato, decise di affidare la decorazione della sua sede operativa al pittore Guglielmo Borremans; questo era un pittore fiammingo, nato ad Anversa del 1742, che per trovare fortuna, decise di trasferirsi in Italia.

Cosa strana, aprì la sua prima bottega a Cosenza, dove però non è che navigasse nell’oro: per cui, decise di trasferirsi a Napoli, dove entrò nel giro di Luca Giordano e del Solimena. Vista la concorrenza spietata in ambito artistico nella città partenopea, decise di trasferirsi a Palermo, dove ottenne un successo straordinario, creando in Sicilia una sorta di equivalente pittorico della poesia arcadica: infatti, nelle sue opere coniuga una spazialità teatrale e l’eleganza bizzarre delle pose dei suoi personaggi con un’attenzione ossessiva per i dettagli e un amore, quasi illuminista, per l’infinita ed enciclopedica varietà del vivere quotidiano.

A questo poi, associa una straordinaria eleganza e vivezza compositiva e cromatica e una saggia retorica, associata alla profondità coinvolgente della luce; di conseguenza, guardando alle sue scene sacre, sembra di assistere a un melodramma del Metastasio piuttosto che a una Sacra Rappresentazione.

Tutto ciò è evidente nell’Oratorio della Carità di San Pietro, preceduto da un antioratorio e da una sala rettangolare, anch’essi decorati da Guglielmo. Nell’affresco della volta dell’antioratorio è rappresentato “L’evasione di S. Pietro dal carcere”, invece nella volta dell’oratorio è raffigurato “La Gloria di San Pietro”. Nelle vele sono presenti i santi “Francesco d’Assisi”, “Acaio”, “Vincenzo de’ Paoli” e “Paolino”.

Il tutto, in una sorta di horror vacui, circondatda pitture con architetture effimere, trompe-l’œil, cartigli, conchiglie, finti stucchi, vele, festoni e ghirlande vegetali, ornati, cornici, nicchie con figure di Virtù, mensole, riccioli, volute e decorazioni con motivi a foglia d’acanto, quasi a sfidare la fantasia decorativa dei Serpotta e trasfigurare, in un ironico sberleffo, la pesantezza della materia.

Spettacolo, che però, non godiamo in pieno, secondo quanto ipotizzato dal pittore: L’assetto di questo oratorio fu stravolto alla fine dell’Ottocento, per ricavare dei vani a pian terreno da adibire a botteghe. Così l’accesso all’oratorio non fu più sulla strada, ma dal cortile attuale, rovinando parzialmente l’originale effetto sorpresa…

La rivolta del Sette e mezzo

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La morte di Giovanni Corrao, chiunque sia stato il mandante, aumentò ulteriormente il malcontento dell’opinione pubblica siciliana; per cui, il governo sabaudo, per mantenere sotto controllo la situazione, spedì a Palermo Giuseppe Govone.

Govone, che aveva partecipato alla repressione dei moti di Genova del 1849 e al successivo saccheggio della città, aveva servito, come una sorta di agente segreto, al servizio dell’Impero Ottomano ai tempi della guerra di Crimea. Tornato in Piemonte, data la sua esperienza con i turchi, fu messo a capo dell’ Ufficio d’Informazioni e delle Operazioni Militari, il primo servizio informazioni militari italiano.

Dopo la Seconda Guerra di Indipendenza, partecipò alla repressione dei guerriglia filo borbonica in Sud Italia, il cosiddetto brigantaggio: segnato da quell’esperienza, Govone fece l’errore di confondere il confondere il contesto siciliano, profondamente diverso, con quello calabro lucano.

Per cui applicò un regime repressivo estremamente duro: i soldati piemontesi sparavano e arrestavano i disgraziati che cadevano nelle loro mani, sicuri dell’impunità. Govone aveva poi dato l’ordine di tagliare l’acqua a molti paesi e di bruciare le case con i parenti dei renitenti che si erano messi in salvo fuggendo sulle montagne.

Ad Ogliatro, nelle campagne del Feudo Traversa, quattro contadini, impauriti dall’arrivo dei militari dei quali conoscevano la bestialità, si erano dati alla fuga ed erano stati ammazzati a fucilate. Un giornale dell’epoca così descriveva il comportamento di Govone

Si ricercano i renitenti di leva e in assenza loro tantosto si arrestano la madre, il padre, le sorelle, i fratelli e poi legati a mò di malfattori o galeotti, di pieno giorno, sono trascinati al Castello (Nota Mia: si tratta di Castello a Mare, all’epoca fungeva ancora da fortezza e da carcere militare) fra pianti, grida di dolore, e la pubblica commozione…

Nel tentativo di fare terra bruciata attorno ai potenziali rivoltosi,i arrestava senza discernimento, senza prove o precise accuse. Govone gonfiava il numero dei renitenti alla leva per giustificare le sue brutalità; scriveva al ministero di 4.162 renitenti dei quali se ne erano presentati appena 462; quindi era necessario continuare le stesse violente e barbare operazioni militari per assicurare alla legge gli altri 3.500 fuggiaschi.

Govone, preso dal sacro fuoco della sua follia si rese colpevole di un tragico ed infamante
episodio: ordinò al capitano medico Antonio Restelli di bruciare con un ferro rovente un povero sordo muto di venti anni, Antonio Cappello considerato renitente alla leva e simulatore. Il disgraziato minorato fu bruciato nel corpo per 154 volte, fin quando l’aguzzino si rese conto che il poveretto era davvero sordo muto.

Solamente le proteste dei nobili siciliani, con la persecuzione ai danni dei contadini, Govone danneggiava i loro interessi economici e dei residenti inglesi, che fecero notare come l’indiscrimnata repressione non faceva nient’altro che gettare benzina sul fuoco, fecero rimuovere il militare, che in seguito fece un’ottima carriera politica, diventando ministro del governo Lanza. In quell’occasione, però, usci letteralmente di senno: lasciò il dicastero il 7 settembre 1870 per non meglio spiegati parossismi di follia. Come riferisce un cronista dell’epoca,

aveva perduto il ben dell’intelletto e ballava e saltava nel suo gabinetto ministeriale

In ogni caso, Govone, invece di sanare la piaga, l’aveva mandata in cancrena: a peggiorare il tutto si aggiunsero anche le misure burocratiche ed economiche adottate dai piemontesi. L’abolizione di monopoli e dazi mandò in tilt l’economia locale; a valle dell’introduzione di 41 nuovi balzelli, la tanto criticata tassazione borbonica non parve più così male.

L’introduzione del il “lasciapassare per il lavoro”: una sorta di passaporto interno che rilasciavano i sindaci e attestava i posti in cui eri autorizzato a risiedere ed a lavorare, che vietava di spostarsi a vivere e a lavorare legalmente altrove senza una burocratica autorizzazione, aveva creato, soltanto a Palermo e provincia 17mila disoccupati, quasi tutti capifamiglia.

Disoccupazione accentuata dall’abolizione delle congregazioni religiose, dovuta alle Leggi Siccardi, che avevano messo sul lastrico 10.000 famiglie, che campavano alle loro spalle, e che la mancanza di investimenti da parte del governo centrale impediva di sanare.

I Repubblicani e gli ex Garibaldini, delusi dalla situazione, decisero di organizzare una rivolta e ne informarono Mazzini, il quale li prese a pernacchioni, evidenziando la velleità del progetto con le seguenti parole

“un moto repubblicano, che conduce a far pericolare l’unità nazionale, sarebbe colpevole; un moto che restasse senza certezza che il resto d’Italia possa seguirlo, sarebbe un errore; un moto che restasse isolato, cadrebbe poco dopo nell’autonomismo, nello smembramento, nelle concessioni a governi e reggitori stranieri…”

La sua ammonizione cadde nel vuoto: così questi, nella speranza di avere più sostegno possibile nell’impresa, caricarono a bordo di tutto e di più, dai nostalgici borbonici ai mafiosi; così il 15 settembre, cominciò la rivolta del Sette e Mezzo, dai giorni della sua durata, così narrata da Camilleri

Una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all’ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l’Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell’impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano “repubblicana”, ma che i siciliani, con l’ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del “sette e mezzo”, ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il “sette e mezzo” è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell’Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l’altro, “dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica”, dove quel “quasi” è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d’Italia

La rivolta inizia con l’arrivo a Palermo di squadre di contadini, circa 4.000, provenienti dalle campagne e dai paesi vicini, principalmente da Monreale, Villabate e Misilmeri, guidati da quegli stessi capisquadra che avevano partecipato all’impresa di Garibaldi nel 1860, al grido di “Viva la Repubblica”, “Viva Santa Rosalia”, “Viva Francesco II” e allo sventolare delle bandiere rosse.

I rivoltosi, entrati in città, in breve tempo sollevano gli abitanti contro i governanti, tanto da raggiungere la cifra, secondo le stesse fonti ufficiali, di circa 35.000 uomini armati, su una popolazione di circa 200.000 persone, delle quali 175.000 rinchiuse nei limiti daziari e 25.000 abitanti nel contado e nei sobborghi ristretti ad una cerchia di 4 o 5 chilometri.

Durante i giorni della rivolta gli insorti, per dare maggiore forza e autorevolezza al comitato rivoluzionario, istituito da Giuseppe Badia, braccio destro di Giovanni Corrao, nei mesi precedenti con componenti non di spicco, obbligano il Barone Riso, il Principe Pignatelli, il Principe di Linguaglossa, il principe Di Niscemi, il Barone di Sutera, il Principe di Galati, il Principe di San Vincenzo, il Principe di Ramacca, Monsignor Bellavia e il dottor Di Benedetto a far parte del comitato. Presidente è eletto per la sua avanzata età il Principe di Linguaglossa e segretario l’ingegnere Francesco Bonafede, di fede mazziniana, uno dei capi della rivolta, che con vari proclami nei giorni dell’insurrezione incoraggia e trascina all’azione i rivoltosi.

All’alba del 16 settembre duecento armati tra i ribelli, protetti da contadini e abitanti dei borghi, entrano in città attraverso le porte di Castro, di Sant’Agata, di Montalto, di Sant’Agostino sotto gli occhi delle guardie daziarie, che non capiscono di che si tratta, e si disperdono nei quartieri chiamando a raccolta i cittadini. Conventi e monasteri diventano centri di riunione e allo stesso tempo basi di operazione, mentre le campane suonano a stormo chiamando alla rivolta. Avvengono scontri attorno al municipio e poi al Capo, mentre le file degli insorti si ingrossano e cominciano ad esserci morti
e feriti.

La situazione diventa difficile per i governativi e il prefetto Torelli dal Palazzo Reale, ben difeso al momento da guardie e soldati, telegrafa ai Prefetti di Messina e Napoli e al Ministero degli Interni a Firenze, capitale del Regno dal 3 febbraio 1865 e sede del governo, chiedendo rinforzi.

Gli insorti troppo tardi si accorgono di aver dimenticato di recidere i cavi telegrafici per bloccare le comunicazioni tra Palermo e il resto del mondo e pagheranno cara questa grave disattenzione. Messina, Napoli, Firenze si affrettano ad assicurare l’invio di truppe per sedare la rivolta. Vengono assaltate le stazioni dei carabinieri e nelle strade appaiono le prime barricate.

Il ventisettenne sindaco marchese Antonio Starabba di Rudinì e il prefetto Torelli, che lo ha raggiunto in municipio, decidono di uscire per strada con truppe armate e di attaccare gli insorti, ma giunti alle barricate di porta Maqueda vengono respinti con gravi perdite e devono ritirarsi. Il comportamento del sindaco irrita maggiormente i ribelli e li porta a lottare più strenuamente; tale gesto gli sarà sempre poi rimproverato dagli avversari e in particolare dal Crispi, che detto fra noi, non si comportò meglio con la repressione di fasci siciliani.

Il 17 settembre Salvatore Miceli, combattente del 1948 e del 1860, conosciuto negli ambienti mafiosi con ilnome di battaglia di ‘u Pianista, con numerosi insorti assalta le prigioni dell’Ucciardone per liberare i 2.000 carcerati, ma i tentativi vanno a vuoto. Gli scontri diventano sempre più violenti per l’arrivo di altre squadre di ribelli dal Giardino Inglesee da Via Lolli con altri morti e feriti.

Ma iniziano ad arrivare i rinforzi per le truppe governative, che così riprendono forza e vigore. Nonostante ciò i terribili scontri che si succedono sono ancora a favore dei rivoltosi, che prendono la stazione dei carabinieri di Piazza Marina e il Tribunale

Nobildonne e dame provvedono a curare i feriti nelle camere e nelle sale del Palazzo Reale; le popolane e le donne degli insorti nelle sacrestie e nei porticati dei conventi. Il comitato rivoluzionario da Sant’Agostino diffonde continui proclami alla lotta e distribuisce armi e munizioni. Il 18 settembre l’insurrezione volge ancora a favore dei insorti con la presa del Palazzo municipale, sul quale si fa sventolare la bandiera rossa.

Intanto Salvatore Miceli, ancora all’assalto delle carceri, è ferito gravemente da un colpo di mitraglia espira qualche ora dopo. Si combatte dovunque con violenza e senza tregua, quella sera i guerriglieri raggiungono il numero di dodicimila.

A salvare i governativi giungono in porto la mattina del 19 settembre otto grandi vascelli, che sbarcano marinai, fanti, bersaglieri, pezzi di artiglieria e quattro cannoni. Nel pomeriggio un altro scontro terribile, nonostante i cannoneggiamenti dell’artiglieria governativa, che si comporta come quella borbonica, nel maltrattare la città, si risolve a favore degli insorti, con i quali a Palazzo Reale si pensa pure di trattare. Intanto si diffonde la voce di un prossimo bombardamento della città dalle navi alla fonda e dagli spalti del Castello a mare.

Il 20 settembre l’insurrezione è completata nei paesi vicini, a Monreale, ad Altofonte, a Misilmeri, dove sono uccisi quaranta tra guardie, carabinieri e funzionari. Gli eccidi e gli assalti alle sedi amministrative e politiche mettono in evidenza l’odio degli insorti e in generale della popolazione verso le autorità e il loro malgoverno.

A Palermo il cannoneggiamento dal Forte di Castellamare e dalle lance da guerra in porto si fa sempre più intenso soprattutto sul Corso, Villa Giulia, Via Lincoln. Continuano, intanto, gli scontri e gli scambi di fucileria da una barricata all’altra, tra i governativi schierati all’altezza del Palazzo Arcivescovile e gli insorti che sparano dietro protezioni erette con carrozze e suppellettili, asportate dalla casa del sindaco, tra la chiesa di San Giuseppe e il palazzo di Rudinì ai Quattro Canti.

Lì muore un altro capo della rivolta, Gianni da Partinico, nome di battaglia di un personaggio di cui non si conoscono le origini e le vere generalità. Verso sera giungono in porto da Livorno il Città di Napoli e il Washington con due divisioni disoldati e il mercantile Principe Oddone con numerose altre truppe. Il corpo di spedizione è comandato provvisoriamente dal generale Angioletti e dal generale Masi in attesa dell’arrivo a Palermo del generale Raffaele Cadorna, padre del futuro Maresciallo d’Italia, nominato il giorno avanti, con decreto del Principe Eugenio di Savoia, comandante delle forze militari in Sicilia.

Il 21 settembre è un giorno tragico per i rivoltosi; le truppe governative, integrate da altri reparti sbarcati quella mattina, avanzano dai Moli e si allargano a ventaglio da Via Montepellegrino a Via Imperatore Federico, a Via Sampolo, a Via Marchese di Villabianca, a Via Libertà, a Via Dante, a Piazza Generale Cascino, mentre le otto fregate mitragliano dal porto Via Lincon e Via Toledo da Piazza Marina ai Quattro Canti e dal Forte del Castello a Mare i moderni pezzi di artiglieria colpiscono le barricate degli insorti e le strade del centro.

Viene riconquistato il municipio dai governativi e cadono nelle loro mani gli elenchi delle squadre dei rivoltosi, per i quali qualche ora prima è stata liquidata la cinquina ai capisquadra da parte del patriota Salvatore Nobile. Gli elenchi, per l’incuria di qualche sprovveduto furiere, si trasformeranno in liste di proscrizione contro il popolo palermitano al momento della reazione.

L’avanzare delle truppe governative, la liberazione delle autorità provinciali e comunali, il continuo arrivo di truppe fanno presagire la fine dell’insurrezione, anche perché mancano ai rivoluzionari le armi e le munizioni, sono sfiniti da sette giorni di lotta e di tensioni e mancano dell’appoggio della borghesia, che si è completamente defilata da qualsiasi aiuto all’azione degli insorti. I capi decidono allora di chiedere la mediazione del console di Francia signor De Sénevier, per ottenere dal prefetto Torelli una resa che riconosca lo stato di belligeranti ai ribelli e ne assicuri l’impunità.

Intanto nella loro avanzata i soldati compiono uccisioni, fucilazioni ed efferatezze; all’alba del 22 settembre due nuovi vascelli sbarcano nel porto numerose truppe di bersaglieri, provenienti da Ancona e per tutta la giornata gli sbarchi si susseguono, sì che a sera l’esercito governativo assomma a circa 40.000 uomini.

Il console generale di Francia ritorna dalla sua missione a Palazzo Reale per comunicare ai capi degli insorti che i governativi non vogliono intraprendere alcuna trattativa, forti ormai degli aiuti arrivati dal governo di Firenze. I reparti governativi avanzano dal mare, si allargano a ventaglio e occupano, dopo violenti scontri con i rivoluzionari tutte le strade e le piazze di Palermo. Molti insorti vengono presi prigionieri e quelli trovati con le armi in pugno vengono fucilati sul posto.

Verso mezzogiorno è tutto finito e già la sera si conosce il numero dei caduti da parte governativa: 8 ufficiali, 116 uomini di truppa oltre a 2 funzionari e 25 sottufficiali e agenti di P.S., in totale 161. Nessuno, però, si interessa di calcolare il numero dei morti tra gli insorti che sono migliaia. A sera le carrette della Guardia Nazionale vanno raccogliendo i cadaveri dei caduti che coprono le strade, mentre il sindaco Di Rudinì entra trionfalmente in Municipio e il generale Cadorna, risalendo il Corso raggiunge Palazzo Reale e dopo un incontro con il prefetto Torelli e i comandanti militari si accinge ad emettere il primo di una serie di proclami che limiteranno nel tempo sempre più le libertà individuali.

Il 23 settembre si proclama a Palermo lo stato d’assedio, il 24 settembre si fa divieto ai Palermitani di allontanarsi oltre un chilometro dalla città senza una carta di circolazione rilasciata dalla polizia e si ordina il disarmo, il 26 è sciolta la guardia nazionale, nei giorni seguenti sono istituiti tre tribunali di guerra militari, che emettono sentenze pesantissime dagli ex conventi della Martorana e della Mercede.

Ma al di là di questa apparente giustizia tanti sono gli eccidi e le rappresaglie perpetrati dai governativi. L’ufficiale dei granatieri Antonio Cattaneo scrive ai suoi amici piemontesi che il giorno 23 settembre 80 arrestati con le armi in mano, condotti fuori porta, sono posti in un fosso e fucilati sommariamente. E anche quando lo stato d’assedio è revocato, il 12 e il 15 gennaio 1867 gruppi di detenuti durante la traduzione a Palermo sono fucilati dai soldati.

I severi tribunali militari sono disciolti con decreto del 17 dicembre 1866, ma in soli 40 giorni, dal 20 ottobre al 29 novembre, comminano 8 condanne a morte, 48 ergastoli, 17 condanne a venti anni di lavori forzati e un centinaio di condanne a pene inferiori ai venti anni. Si aggiungono ai rigori dei giudici militari gli arresti spesso senza motivo che raggiungono il numero di 3.600 e rendono le carceri invivibili.

Il rigore dei generali piemontesi cala anche sul clero: finisce in carcere anche il colto e mite vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, di novanta anni, che il Cadorna ebbe a definire

«il noto brigante D’Acquisto».

E’ persino vietata la festa di Santa Rosalia, poiché era stata invocata dagli insorti, al grido:

«Santa Rosalia e repubblica!».

Lo stato di assedio dura fino al 31 gennaio 1867; non è possibile alcun censimento, ma si calcola con approssimazione, che le vittime furono circa 35.000; il colera, portato in città da alcuni marinai piemontesi, fece il resto, desolando di morti Palermo. Si calcolarono circa 50.000 vittime.

Il procuratore del re, Giuseppe Borsani, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ebbe il coraggio di dire che la giurisdizione militare aveva prodotto una giustizia violenta senza forme né garanzie. I nobili che avevano fatto parte del Comitato Provvisorio di Governo, furono prosciolti purché confessarono di avere accettato l’incarico perché

«costretti dalla forza della plebaglia».

I giornali italiani nascosero il massacro dei siciliani e stamparono poche righe con caratteri minuti a fondo pagina. I giornali francesi, spagnoli e inglesi riportarono i fatti con una certa tempestività; ma si limitarono a scrivere che si era trattato di una rivolta repubblicana ad opera di bande di briganti.

Il Giornale di Sicilia, da sempre filogovernativo, sostenne la tesi che di bande di fuorilegge si era trattato. Su proposta dell’editore Ardizzone indisse una colletta per i soldati piemontesi morti negli scontri e per le loro famiglie. Furono raccolte 10.750 lire. Per i rivoltso fu sufficiente la fossa comune al Cimitero dei Rotoli.

Civitate 1053, quando i giganti svevi furono “accorciati” dai Normanni

Storia Militare Medievale

I fatti della battaglia di Civitate (18 giugno 1053) sono abbastanza noti. Un grande esercito raccolto da papa Leone IX, composto dalla nobiltà longobarda centromeridionale e da numerosi mercenari tedeschi, si mise in movimento per infliggere una dura lezione a “qui maledetti Normanni” e mettere fine una volta per tutte alle loro razzie e scacciarli definitivamente dall’Italia meridionale. L’obiettivo tattico era quello di ricongiungersi con le forze bizantine anch’esse ostili ai Normanni. Ma i guerrieri del Nord, sventarono tale piano andando a fronteggiare i papalini sul fiume Fortore, nei pressi di San Paolo di Civitate, all’estremo nord della Puglia. I clan normanni di tutta l’italia meridionale s’erano radunati per fronteggiare quella minaccia che sapevano essere esiziale per la loro permanenza in quei territori che tanto faticosamente avevano conquistato. C’erano gli Altavilla (Umfredo e il Guiscardo), Riccardo Drengot, il conte d’Aversa e tutti gli altri capi normanni. Il fonteggiamento tra i…

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Giovanni Corrao

Giovanni_Corrao

A seguito delle complesse vicende legate alla Notte dei Pugnalatori, il 12 marzo 1863 a Palermo cominciarono centinaia di perquisizioni dei reali carabinieri e della polizia, che finirono con sessanta mandati di arresto, con l’accusa di organizzazione eversiva e di attentato alla sicurezza dello Stato.

Perquisizioni che colpirono oppositori sia di Destra, nostalgici borbonici, più o meno connessi ai tentativi di Franceschiello di sobillare le rivolte antipiemontesi a Sud, sia di sinistra, i mazziniani e i garibaldini delusi.

Tra i ricercati, vi era uno dei più stretti collaboratori di Garibaldi, che aveva avuto un ruolo fondamentale nell’organizzare i moti del 1860: Antonino Giovanni Francesco Currau, noto ai piemontesi come Giovanni Corrao.

Giovanni, nato nel 1822, era un calafato in servizio al porto di Palermo, ossia era impiegato per impermeabilizzare gli scafi in legno, inserendo nel fasciame stoppa impregnata di pece; la sua vita cambiò nel 1848, quando fu tra i protagonisti della rivoluzione siciliana di quell’anno, distinguendosi per le sue gesta prima a Palermo, poi a Catania e Messina.

Neella battaglia messinese una delle azioni che lo rese celebre, compiuta insieme a Bartolomeo Loreto ed altri rivoluzionari, fu il recupero sotto il fuoco nemico di diaciassette cannoni dell’esercito borbonico, che erano rimasti sepolti sotto le macerie del muro dell’Arsenale.

Le abilità mostrate sul campo di battaglia gli valsero il grado e il soldo di capitano d’artiglieria, assegnatogli il 23 settembre di quello stesso anno dalla Camera dei comuni. Quando il combattimento tra i due schieramenti riprese, nell’aprile del 1849, fu tra i più determinati nella lotta estrema contro il nemico, e con le sue truppe tentò di resistere fino all’ultimo all’esercito guidato da Filangeri, dal 7 al 9 maggio.Come si apprende dalla testimonianza di Giustino Fortunato, Corrao prese parte alla delegazione che dichiarò la resa all’esercito borbonico.

Per evitare di essere spedito nelle poco accoglienti carceri di re Ferdinando, nel maggio del 1849 scappò a Malta, da cui però, cadendo in una trappola ordita dai servizi segreti borbonici, si allontanò presto, per tornare a Palermo, dove gli era stato fatto credere che stesse per iniziare una nuova rivolta.

Invece, appena giunto nella città, fu arrestato e attraverso un provvedimento di polizia venne relegato nell’isola di Ustica, dove rimase per tre anni. Nel maggio del 1852, notando una barchetta lasciata incustodita da alcuni ragazzi, tentò la fuga insieme ad altri relegati, venendo però raggiunto e riportato sull’isola; questo tentativo di fuga, tuttavia, spinse le autorità siciliane a trasferirlo nell’agosto del 1852 nella cittadella di Messina, dove ebbe come compagno di prigionia Raffaele Villari. Dopo essere stato trasferito nelle Grandi prigioni di Palermo, all’Ucciardone, tra il maggio e l’agosto del 1855, Giovanni venne scarcerato a condizione che lasciasse il Regno delle Due Sicilie

Abbandonata la Sicilia, nel settembre del 1855 Giovanni sbarcò a Marsiglia, da dove mosse per Genova; si stabilì nella città ligure fino alla fine del 1857, per poi trasferirsi a Torino; tuttavia il suo estremismo politico, unito al fatto che esercitasse abusivamente la professione di medico, spinse il governo sabaudo ad espellerlo; lui cercò in tutti i modi di sottrarsi all’espulsione, che infine avvenne il 18 aprile 1858, giorno in cui fu costretto ad abbandonare il Regno di Sardegna insieme al suo amico Giuseppe Badia.

Desideroso di vendetta, Giovanni fu dunque costretto a cercare asilo a Malta, poi ad Alessandria d’Egitto e successivamente di nuovo a Malta, nel gennaio del 1859; intanto in questo periodo iniziò il rapporto epistolare che lo avrebbe saldamente legato Rosolino Pilo, altre grande e poco noto rivoluzionario siciliano

Dopo il fallito tentativo di Felice Orsini del 14 gennaio 1858, i due iniziarono anche a progettare un attentato a Napoleone III, progetto che, per fortuna dei piani di Cavour, non ebbe mai attuazione concreta.

Nel marzo 1860 assieme a Pilo, Giovanni organizzò una spedizione in Sicilia, il cui merito nei libri scolastici è ingiustamente attribuito a Crispi, a seguito della promessa di Garibaldi di intervenire in caso di successo. I due partirono da Genova a bordo della tartana viareggina Madonna del Soccorso capitanata da Raffaello Motto e sbarcarono a Messina nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1860.

Subito dopo si recarono a Palermo, per appoggiare la rivolta della Gancia, organizzando un migliaio di volontari che in quei giorni si scontrarono a Carini con le truppe borboniche: Garibaldi, a dire il vero, non è che fosse molto propenso a onorare la promessa, tanto che all’epoca, i mazziniani tentarono anche di rivolgersi a Ignazio Ribotti, che era assai più gradito del Nizzardo alla corte sabauda e a Cavour

Saputa la cosa, anche perché la rivolta siciliana sembrava non essere un fuoco di paglia, l’Eroe dei due mondi si decise a intervenire. Con lo sbarco il 14 maggio dei Mille a Marsala, ricevette l’ordine da Garibaldi di effettuare una manovra diversiva con i suoi volontari, fu assalito il 21 maggio dalle truppe borboniche e Pilo cadde in combattimento nei pressi di San Martino delle Scale, una frazione di Monreale, e Corrao ritirò i restanti volontari a Montelepre. Il 27 attaccò Palermo dal lato opposto da quello delle truppe garibaldine.

Nominato da Garibaldi colonnello dell’esercito meridionale il 17 luglio, condusse un reggimento nella battaglia di Milazzo combatté con i garibaldini per l’intera durata della campagna, e il 1º ottobre fu ferito gravemente sul Volturno. Fu nominato generale dallo stesso Garibaldi per sostituire il 29 ottobre Giuseppe La Masa al comando della Brigata Sicula.

Dopo l’Unità d’Italia passò con il grado di colonnello nel Regio esercito, dal quale si dimise poco tempo dopo in coerenza con la sua avversione verso la politica del governo verso la Sicilia, che riteneva discriminatoria e troppo a favore dei nobili e dei latifondisti, seguendo nel 1862 con i suoi volontari siciliani Garibaldi in Aspromonte.

Tornato successivamente a Palermo, mantenne in armi 400 dei suoi volontari, in attesa di organizzare una nuova azione garibaldina fino all’amnistia per i fatti di Aspromonte. Proprio questa decisione, di avere tenuto in piedi una sorta di milizia privata, lo mise nella lista nera del governo piemontese.

Nel frattempo, Corrao era stato anche accusato di essere colluso con la “Maffia”: l’accusa si L’accusa si basava su alcune lettere anonime e sulla testimonianza di Orazio Matracia, un sergente espulso dall’esercito borbonico per “opere infami ed altre nefandezze” passato poi ai garibaldini che lo cacciarono via, a loro volta, perché sorpreso a rubare.

Nonostante questo curriculum poco ammirevole, Matracia può essere considerato il primo pentito di Mafia della storia, dato che la sua testimonianza permise di arrestare numerosi criminali dell’epoca. Giovanni, informato del mandato di arresto, riuscì a fuggire prima di essere catturato; ma la sera del 3 agosto 1863 mentre stava percorrendo con il calesse la strada che da un suo podere in San Ciro conduceva a Palermo,cadde in un agguato: tre sicari lo aspettarono alla curva dei Mulini e gli spararono a lupara,
uccidendolo all’istante. Fu, sotto certi aspetti, il primo dei misteriosi delitti che continuano a insanguinare Palermo.

Carlo Trasselli, amico di Giovanni, affermò che una vecchia gli avesse confidato come negli ultimi giorni si aggirassero nella zona due carabinieri, i quali il giorno dell’uccisione di Corrao si erano vestiti da cacciatori, ma che lei era riuscita comunque a riconoscerli. Tuttavia, dopo che Trasselli ebbe comunicato alla magistratura le informazioni che aveva recuperato ed era riuscito a far aprire un processo, la donna cambiò residenza e negò ogni particolare di fronte al giudice.

La morte di Giovanni Corrao portò il lutto a Palermo; il popolo fu costernato, le botteghe furono listate a nero e i funerali furono imponenti. Vi parteciparono circa 70.000 persone, la bara fu portata a spalla dagli ex ufficiali garibaldini che vollero così rendere l’estremo omaggio al loro generale. Garibaldi,per motivi di opportunità politica, si limitò ad inviare alcune righe di cordoglio che furono pubblicate sul Giornale “Il Precursore”.

Corrao era veramente mafioso ? Il prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualterio, che, nonostante i tentativi di una certa storiografia neoborbonica di screditarlo, era una sorta di Dalla Chiesa dell’epoca, ne era convinto, tanto da scrivere nel suo rapporto del 1865

Era d’altronde noto al sottoscritto che queste relazioni [tra partito garibaldino e maffia] erano tenute per lo innanzi dal noto general Corrao, e poi da tempo era in cognizione che costui, senza che il Partito d’Azione lo dubitasse neppure, era passato ai servigi del partito borbonico. Alla morte di costui successe un tal Vincenzo [sic] Badia fabbro di cera, che era stato il suo primo strumento, ed era altresì noto allo scrivente che costui aveva seguito le tracce del suo facinoroso maestro ed ora si aveva esso posto al servigio dei Borboni

Alleanza, tra Mafia, Sinistra mazziniana e nostalgici borbonici che, assieme al malcontento popolare per il governo sabaudo porterà alla rivolta del Sette e Mezzo, di cui parlerò prossimamente…

Con il senno di poi, Corrao, pur non essendo personalmente un mafioso, è stato forse il primo dei politici siciliano convinti di potere utilizzare Cosa Nostra come strumento per raggiungere i suoi obiettivi politici. Ma come dice un vecchio proverbio

Chi cavalca la tigre, finesce nelle sue fauci…

La Musica Popolare Greca (Parte IV)

Ma con quali strumenti, si suonava il rebétiko? Una pletora e per la maggior parte, di provenienza anatolica, sia per l’origine bizantina, sia per l’influenza turca.

Il primo, ovviamente, è il bouzouki, che sembra essere diventato lo strumento simbolo della musica popolare greca. Questo strumento musicale appartiene alla famiglia dei liuti a manico lungo ed ha il ruolo di eseguire il taxim, l’introduzione musicale, ed accompagnare il cantante.

Strumento di origine antichissima: nell’antica Grecia, questo strumento era noto come πανδούρα, pandúra e la versione più piccola πανδουρίς pandurís o πανδούριον pandúrion, era chiamato anche τρίχορδος tríchordos perché aveva tre corde.

In epoca bizantina viene chiamato ταμπουράς ta(m)bourás. Con l’arrivo degli Ottomani, questi ultimi lo adottano nella loro musica. L’odierno strumento turco tambur è praticamente identico al pandurís. Presso il Museo Storico Nazionale di Atene è in mostra il tambouras del generale Makrijannis (eroe della Rivoluzione Greca del 1821). Questo tambouras presenta le stesse caratteristiche del bouzouki usato dai Rebetes.

Dal bouzouki tradizionale, con cui veniva eseguiti in origine i pezzi del rebétiko, sono nel Novecento derivati due strumenti: il primo è il bouzoki a quattro corde, attualmente in uso e il cosiddetto bouzouki irlandese, utilizzato nella musica celtica.

Pare la variante gaelica sia dovuta Johnny Moynihan,fondatore degli Sweeney’s Men, pioniere del moderno irish folk, che si portò dietro un bouzoki da una sua vacanza in Grecia e cominciò a suonarlo, con una diversa accordatura, all’unisono rispetto a quella originale,in ottava, nei suoi concerti: con il tempo, rispetto alla variante ellenica, per adattarsi meglio alle sonorità irlandesi, il corpo a goccia dello strumento venne reso più ampio e dotato di un fondo piatto.

Nel bouzuki greco, il fondo è a doghe, bombato come quello di un mandolino napoletano, di cui è parente stretto, il molto lungo e possiede 26 tasti, mentre la tavola armonica, spesso decorata in madreperla, è a forma di goccia.

La cassa armonica del bouzouki è costituita da strisce di legno (doghe) attaccate le une alle altre. I tipi di legno frequentemente utilizzati sono palissandro e noce. La qualità dello strumento è migliore quando si usano più doghe. Un bouzouki di livello base ne monta una ventina, mentre i modelli professionali più di 60.

L’accordatura tradizionale, quella del tricordo, è re-la-re, mentre quella della versione a tetracordo è re-la-fa-do; nella versione irlandese, invece, questa è di solito sol-re-la-re

Il baglamas, sotto molti aspetti, può considerarsi un bouzoki di ridotte dimensioni: la sua trasportabilità, è uno strumento musicale lungo tra i 50 e i 60 cm con una cassa armonica a forma di pera, lo rendeva lo strumento preferito dei rebeti, specie nei giorni di Metaxas, in cui la loro musica era proibita.

Il suo nome deriva dal turco bağlamak (vincolare), bağlama (vincolo o nodo), da cui il sostantivo maschile greco “il baglamàs”. Esiste, tra l’altro, in Turchia uno strumento dallo stesso nome, che però appartiene alla famiglia dei grandi liuti.

In origine, le tre corde del baglamas erano accordate come quelle del bouzouki tradizionale, ossia in re-la-re ma un’ottava sopra, oppure sol-si-mi; con la diffusione del buozuki a quattro corde, il baglamas, per accompagnare una sonorità assai più ricca della tradizionale, divenne uno strumento più completo, con molti più tasti (fino a 36). Esiste inoltre una variante ancor più minuta di baglamàs (di 30 cm ca.), chiamato con il diminutivo baglamadàki (το μπαγλαμαδάκι).

Ovviamente, non poteva mancare il capofila della famiglia, il liuto, che nella versione greca, che appartiene alla sottoclasse di quelli a manico lungo, ha quattro corde doppie è misura 96,5 cm, con un corpo di 37 cm circa di larghezza, mentre il manico e lungo circa 34,5 cm.

L’accordatura piu comune e, a partire dall’alto verso il basso, la re sol do, con la e re accordati all’unisono, mentre sol e do vengono accordati all’ottava. Il liuto greco è suonato usando un plettro. Il suo scopo principale e di accompagnare altri strumenti, ma in alcuni luoghi viene usato anche come strumento solista.

Lo outi non è niente più che una variante di un antico strumento arabo, l’‘ūd, l’antenato del liuto, che una leggenda persiana racconta essere stato inventato da a Lamak, nipote di Adamo ed Eva. L’‘ūd è un’evoluzione del barbat, antico strumento persiano pre-islamico. Nel IX secolo Ziryab, musicista di ‘ūd di Baghdad fonda a Cordova una scuola di musica, aggiungendo una quinta corda allo strumento. Nel X secolo dalla Spagna islamica, è importato in Europa, dove diviene presto strumento preferito per accompagnare la musica di corte.

Nello stesso periodo, fu introdotto nella corte di Alessio Comneno, da cui poi si diffuse sia in Anatolia, sia in Grecia.

Il moderno outi ha una cassa lunga circa 50 cm, larga 40 e profonda 20, un manico tagliato ad angolo, lungo circa 20 cm e senza tasti, e i bischeri che si estendono su una lunghezza di circa 22 cm. Il moderno oud turco (cosi come la versione usata in Grecia) ha di solito sei corde. Come in altri strumenti a corda, oggi ci sono numerose accordature popolari, come Do-Sol-Re-La-Sol-Re oppure Re-La-Mi-Si-La-Mi. L’outi viene suonato con un plettro, noto come “mizrab” in turco, più sottile e più lungo del plettro medio, all’incirca 12 cm.

Un discorso analogo vale per il santuri, la variante greca del santur, uno strumento musicale iraniano, diffuso in tutto il Medio Oriente appartenente alla famiglia degli Zither su tavola. È uno strumento a corde percosse, come il cimbalom o il piano apparsi più tardi, di cui è l’antenato comune. Lo si può anche classificare come strumento a percussione melodico. Viene suonato mediante due bacchette.

Il santuri, a differenza dei suoi parenti arabi, indiani e turchi, è di tipo cromatico e imponente per le dimensioni (100 cm × 60 cm × 10 cm con angolo di 70°) e la disposizione delle corde in sei sezioni. La cassa di risonanza è in acero, faggio o palissandro laminato, i lati vengono tagliati e rincollati insieme invertendo il filo del legno, per garantire una maggiore stabilità. La tavola armonica è in abete o larice, ha due grandi fori esagonali circondati piccoli fori rotondi (a volte due rosette rotonde) posti al centro e a sinistra della serie mediana dei ponti.

Ha circa 115 corde (in acciaio, bronzo e rame filettato) disposte in cori di 2, 3, 4 o 5 su cinque serie di ponti (fissi, collegati da tasti di metallo).

Viene suonato sia da seduti, appoggiandolo su un tavolo o sulle ginocchia o in piedi con una cinghia passante per il collo del musicista che lo mantiene all’altezza delle anche. La sua estensione gli permette di essere adoperato sia come strumento armonico sia melodico; si presta tanto a essere utilizzato come solista, che in duo o solo per l’accompagnamento.

Il toumbeleki è lo strumento a percussione utilizzato per dare il ritmo di accompagnamento. Ha uno scheletro a forma di brocca con una larga apertura dove si applica la pelle che viene fissata in diversi modi.La parte superiore dello scheletro e aperta per permettere di ascoltare il suono. Il toumbeleki viene tenuto sotto l’ascella sinistra oppure appeso alla spalla sinistra e suonato con due mani. La mano destra picchia i tempi forti e con la sinistra si battono i tempi deboli.

La destra batte di solito al centro della pelle dove c’e un’eco più bassa, mentre la sinistra batte sul bordo, vicino alla pelle, dove l’eco e più acuta e di minore durata; spesso è accompagnato dal defi, l’equivalente dei tamburi a cornice del sud Italia e con la zilia, i cimbalini a dita, due piccoli piattini di metallo, tenuti appaiati da una cinghia di cuoio e percossi con cadenza con la mano.

Nella variante smirniota, spesso si usava anche la zurna, lo strumento a fiato simile all’oboe, tipico della musica turca

La Musica Popolare greca (Parte III)

Benché il rebètiko sia associato essenzialmente alle canzoni, le diverse scansioni ritmiche della sua musica sono state utilizzate per accompagnare diverse tipologie di danze di origine turco-anatolica, che, tramite la mediazione dei profughi smirnioti, sono entrate nella tradizione popolare greca.

Il più famoso è l’hasàpiko, che in origine era la danza identificativa della corporazione dei macellai (kasaplar in turco, hasápides in greco) di Istanbul ai tempi del Sultano, i cui membri, tradizionalmente, erano di origine albanese e non greca.

L’hasàpiko è una danza in 2/4 ed è diviso in ottave: in questa danza si possono riconoscere dei passi principali, di base, e una serie di varianti, le cosiddette “figure” che vengono richiamate dal conduttore. I passi sono quattro al suolo ed uno in aria. Di solito viene danzato da due–tre uomini di altezza simile che tendedo le braccia orizzontalmente e appoggiando la mano sulla spalla del proprio vicino, danzano in fila mantenendo un perfetto sincronismo.

Le figure principali prevedono il doppio passo e il raddoppio della velocità del ritmo, oppure il danzare sui tacchi delle scarpe. L’hasàpiko è una delle basi da cui nel 1964 è stata costruito a tavolino, in occasione del film Zorba il greco, il sirtaki dal coreografo Giorgos Provias; i sui passi lenti ,la parte “Argos” o “Varis”, cioe’ pesante, sono tratti da tale danza, mentre quelli veloci,la parte “Grigoros”, sono tratti dall’hassaposerviko (hasàpiko dei serbi) una danza in 4/4 che era invece ballata sia dagli aiduchi, i briganti serbi che infestavano la Tessaglia, sia dagli armatoli, le milizie rumene che il Sultano utilizzava per mantenere l’ordine pubblico nell’Ellade.

Altra danza associata alla musica del rebétiko, è zeibèkiko ballata sul tempo misto di 9/4 o 9/8, ballato da soli uomini, tranne che a Cipro, dove invece è danzata esclusivamente dalle donne; anche in questo caso, l’origine non è greca. Deriva infatto dalla danza tipica dei Zeibekidi, una bellicosa tribu’ dei Turcomanni, utilizzata come milizia irregolare da parte del Sultano, sterminata nel 1833 a seguito di una loro rivolta.

Il zeibèkiko originale era una danza di guerra, in cui i soldati Zeibekidi ballavano tenendo entrambe le braccia aperte imitando il volo del falco; prima a Smirne, poi al Pireo, divenne invece una sorta di improvvisazione coreutica, in cui il rebètes danzava in solitario, per esprimere la propria malinconia e sfogare il proprio dolore.

Lo schema tipico di questa danza prevede movimenti lenti, pesanti e circolari, che gradualmente si evolvono in acrobazie sempre più complesse.

L’ultima danza associata alla rebétiko, esclusivamente femminile, è lo Tsifteteli, un ballo in 4/4 esclusivamente femminile, che ha origine nei Cafe-Aman di Smirne e che, sotto molti aspetti, può essere considerata come la variante semplificata della danza turca “Oryantal”.

Il suo nome deriva infatti dalla parola turca Çiftetelli che significa ‘due corde’ (diplóchordo in greco) e indicava un particolare disposizione delle quattro corde del violino per doppi cori ottenuta tramite la modifica delle scanalature del ponticello e del capotasto dello strumento, utilizzata proprio per accompagnare tale ballo

Salutando zio Emidio

dopounaddio

Oggi avrei voluto parlare di tante cose: continuare a raccontare della musica popolare greca, dalle danze agli strumenti, insultare il ladro della mia corrispondenza, se avesse ragione Lombroso, l’avrei già individuato, condividere le mie riflessioni sul convegno Cloud IBM, lamentarmi di non conosce il senso della parola “inopportuno”, perché convinto di essere il centro del mondo, o il significato della parola “scusa”.

Poi ti arriva un messaggio su whatsapp e tutte queste piccolezze assumono il loro giusto peso: la scomparsa di zio Emidio, l’ultimo dei fratelli e sorelle di mio nonno ancora in vita, non era inaspettata, ma nonostante questo, mi lascia un vuoto dentro.

Perchè con lui, si chiude una pagina della mia vita: ti capita all’improvviso addosso la consapevolezza di essere invecchiati, di come sia passato il tempo e di come, di tutte gli anni e i sogni dell’infanzia e della giovinezza non siano rimasti che ricordi.

Soprattutto, perché mi manca: zio era senza dubbio una delle persone più solari e dal cuore grande che abbia conosciuto. Tutte le volte che passeggiavo tra le stradine di Centocelle Vecchia e finivo davanti la sua casa, non mancava mai di chiamarmi con il suo vocione, per invitare a fermarmi e dirmi

“Nipo’, bevite un bicchiere di vino”.

Ed era sempre la solita storia: io mi fermavo, scambiavo due chiacchiere, ci facevamo due risate e alla fine, questo bicchiere non lo bevevo mai, però lui era felice lo stesso…

Sarei felice, se invecchiando, potessi essere come lui…

La Musica Popolare Greca (Parte II)

La canzone demotica, come detto, entrò in crisi con l’unità greca e con i mutamenti della struttura socio economica, dato che, dopo secoli, il mondo ellenico subiva gli effetti di un’improvvisa e tumultuosa urbanizzazione, che all’improvviso crea una ridistribuzione disuguale delle ricchezze: alla societa contadina, in cui, con l’eccezione dei fanarioti, la ricchezza era distribuita in maniera uniforme, si sostuisce una fortemente stratificata, in cui la borghesia impiegatizia e commerciale si contrappone alla grande massa dei diseredati.

Proprio tra questi, al Pireo, intorno al 1860, nasce una nuova forma musicale, che pur mantenendo una continuità di ritmi e melodie con la canzone demotica, ne innova i temi: i nuovi canti popolari trattano la nostalgia per la vita rurale abbandonata e lo straniamento provato dinanzi alla complessità della vita urbana. A questi, progressivamente, si aggiungono l’equivalente di quelle che in Italia si chiamano “le canzoni della Mala”, che trattavano temi di delinquenza, prostituzione, crimine e della vita del carcere.

In parallelo, a Smirne, il principale centro della Grecia ionica, in un contesto diverso, figlio di una borghesia ricca, multiculturale e con alle spalle secoli di vita cittadina, nasce una sorta di canzone bohémien e scapigliata, che parla di esteti eccentrici, fumatori d’oppio e artisti emarginati.

Se la canzone del Pireo trova il suo luogo principe nella strada e nella taverna, dove i poveri sfuggono alla difficoltà e alle delusioni della vita ubriacandosi con la retsina, la canzone di Smirne vive nei cafè-chantant, dove ricchi annoiati si illudono di provare il brivido della trasgressione. In più, la canzone ionica non fa che riadattare e contestualizzare alla lingua greca melodie di origine turca, sia popolari, sia colte.

La differenza, tra i due mondi è anche negli strumenti musicali: al Pireo domina il bouzouki, all’epoca con tre corde doppie, strumento simile al nostro mandolino, o la sua versione arcaica, il tabourás, con due corde doppie e il cantino. A Smirne invece dominano il kanokaki, ossia il qanun arabo, la cetra orizzontale a 78 corde, la zurna, una sorta di oboe turco, i tamburi a cornici, il clarinetto e una variante della lira bizantina.

Con il Novecento, la situazione economica nella Grecia libera peggiora ulteriormente: grandi masse di contadini sono da una parte privati dei loro poderi dalla crisi, dall’altra non sono assorbiti come operai dal limitato tessuto industriale greco.

Oltre ad aumentare il numero di diseredati nelle periferie di Atene, rendendo il tema della disperazione e della malavita predominante nella canzone urbana, ciò provoca una notevole migrazione negli Stati Uniti, dove nascerà la musica greco-americana, in cui le canzoni tradizionali vengono reinterpretate con i ritmi veloci dalla musica locale.

Questo mondo, complesso e variegato, cambia con quella che i Greci chiamano La Grande Catastrofe; a seguito della sconfitta nella guerra greco-turca, dovuta anche al voltafaccia italiano e francese, che per fare dispetto agli inglesi, considerati padrini politici di Atene, riempiono d’armi Atatürk e all’olocausto di Smirne, viene firmato il trattato di Losanna, che prevede uno scambio di popolazione tra due nazioni: in Grecia arrivano 1.221.849 profughi su un totale di 6.204.684 abitanti, il 20% circa della popolazione totale, mentre i turchi che abbandonarono la Grecia furono circa 300.000.

Di fatto gli unici turchi che rimarranno in Grecia sono quelli che abitavano il Dodecanneso, essendo questo una colonia italiana. Nel frattempo, la situazione dei profughi ionici è drammatica: erano vissuti nelle fertili terre dell’Anatolia o in città ricche e multiculturali e si ritrovavano in campi profughi di un piccolo paese montuoso che non aveva i mezzi per sostenerli e integrarli e in fondo, non li voleva neppure lì, considerandoli ospiti indesiderati

In questa condizione disperata, le due tradizioni musicali, quella del Pireo e quella di Smirne, si fondono assieme: nasce la musica rebetika, il cui nome, paradossalmente, deriva dal turco rembet che significa “fuorilegge”, che fuse le canzoni dei fuorilegge che avevano come protagonisti droga, sesso, crimini e prigionia e quelle più raffinate dei profughi dell’Asia Minore che raccontavano, invece, l’erotismo e la nostalgia per i propri paesi, lasciati contro la propria volontà. Lo stesso avviene in termini di musica e di strumenti utilizzati per suonarla.

Le canzoni rebetiche erano interpretate dai manghes, uomini di strada baffuti e sempre armati e uno dei temi spesso cantati era quello delle droga e dell’hascisc, vista come unica via di fuga dai dolori della vita.

Le canzoni della rebetika nascevano dalla spontaneita’. Esse avevano la capacita’ di scuotere, eccitare e coinvolgere l’ascoltatore. Iniziavano sempre con un preludio, il taxim, per strumento solo, di solito il buzuki. Il taxim serviva a creare l’atmosfera e a produrre nell’ascoltatore l’umore piu adatto per la canzone che si accingevano ad ascoltare. Di conseguenza esso permetteva al suonatore di mostrare la sua abilita e la sua esecuzione poteva durare fino a venti minuti. Lo stile musicale del taxim era naturale e pesante, il ritmo libero. Molto spesso esso era accompagnato dal continuo battere delle corde del baglama. Il metro più comune delle canzoni era il 9/8 dello zeibekiko.

Gli esecutori improvvisavano i loro versi, spesso di tono familiare, indicando persone presenti e facendo dei riferimenti ad episodi recenti di interesse locale. Essi cantavano con voce gutturale, calma, aspra e rauca, uno dopo l’altro, e ogni cantante aggiungeva un verso che spesso non aveva alcuna relazione col verso precedente, percio una canzone poteva protrarsi per delle ore. Un rebeta accompagnava il cantante con un buzuki o un baglama, e forse un altro, spinto dalla musica, poteva alzarsi ed eseguire una danza. Come racconta Gail Holst in “Road to Rembetik”.

“…la musica cominciava, con ritmo insistente, suono duro e metallico, ed il danzatore si alzava, come sotto compulsione, per rilasciare la sua dichiarazione. Gli occhi a meta chiusi, in trance – come assorto, sigaretta che pendeva dalle labbra, braccia aperte come per mantenere l’equilibrio, cominciava a girare in cerchio lentamente…”

Progressivamente, come per il jazz in America, quella che era la musica degli ultimi e degli emarginati, comincia a diffondersi nel grande pubblico, affascinandolo con la sua carica eversiva, vista come possibile protesta contro una società sempre più bigotta e repressiva.

Per cui, nel 1937, il dittatore Metaxàs decide di applicare la censura a tale genere musicali: vieta le canzoni dedicate all’hascisc, considerate come nemiche della pubblica morale, e quelle che rimpiangono l’Anatolia, le manès, perchè viste come un’esaltazione dello storico nemico turco. Censura che mette definitivamente in crisi gli artisti di origine smirniota, che si dedicavano a tale genere, che vengono progressivamente emarginati.

Il tutto peggiora con la guerra e l’occupazione tedesca; molti musicisti, entrando nella resistenza, sono uccisi sia dagli occupanti, sia dai collaborazionisti. La crisi della musica rebetika sembrava irreversibile, quando una sua rinascita fu conseguenza delle mutazioni subite dalla Grecia.

Alla fine della guerra mondiale, infatti, le traumatiche vicissitudini della guerra civile che seguì subito dopo causano una nuova corrente migratoria interna, che spopola definitivamente le campagne e rende Atene e Salonicco due immensi incubi urbanistici. Nuovi quartieri squallidi, nuove periferie desolate sorgono, si moltiplicano i comuni satelliti per ospitare altre masse della moderna proletarizzazione ed emarginazione.

Il protagonista di questo recupero fu Markos Vamvakáris, che era tutt’altro che un figlio della marginalità sociale in cui proliferava la rebetika, essendo figlio di piccolo-borghesi e studente di giurisprudenza. Vamvakáris ha l’intuizione di estendere il pubblico di questa musica popolare a un pubblico nuovo: la borghesia della grande città.

Di fatto, le vicissitudini che aveva subito la Grecia, l’avevano portata a ripiegarsi su sé stessa e riflettere sulla propria identità, ricostruendo una sua identità e un suo senso di communitas, che porta alla fusione tra alta e bassa cultura.

Così, la rebetika subisce diverse evoluzione: fondendosi con la musica greco-americana, si trasforma nella musica leggera greca. Per assecondare il pubblico più conservatore, si trasforma in una sua variante edulcorata, archondorebètika, con l’utilizzo di voci femminili invece delle tradizionali maschili, l’introduzione di strumenti di altre tradizioni europee, come la fisarmonica e la chitarra, e la modifica del bouzouki, la cui sonorità, per la quarta corda doppia, diventa assai più complessa.

Tutto ciò, però, dagli anni Novanta in poi, provoca, per reazione, un recupero quasi filologico delle canzoni e delle musiche degli anni Venti e Trenta, che, nonostante gli anni, mantengono ancora la loro drammatica carica eversiva….