
La morte di Giovanni Corrao, chiunque sia stato il mandante, aumentò ulteriormente il malcontento dell’opinione pubblica siciliana; per cui, il governo sabaudo, per mantenere sotto controllo la situazione, spedì a Palermo Giuseppe Govone.
Govone, che aveva partecipato alla repressione dei moti di Genova del 1849 e al successivo saccheggio della città, aveva servito, come una sorta di agente segreto, al servizio dell’Impero Ottomano ai tempi della guerra di Crimea. Tornato in Piemonte, data la sua esperienza con i turchi, fu messo a capo dell’ Ufficio d’Informazioni e delle Operazioni Militari, il primo servizio informazioni militari italiano.
Dopo la Seconda Guerra di Indipendenza, partecipò alla repressione dei guerriglia filo borbonica in Sud Italia, il cosiddetto brigantaggio: segnato da quell’esperienza, Govone fece l’errore di confondere il confondere il contesto siciliano, profondamente diverso, con quello calabro lucano.
Per cui applicò un regime repressivo estremamente duro: i soldati piemontesi sparavano e arrestavano i disgraziati che cadevano nelle loro mani, sicuri dell’impunità. Govone aveva poi dato l’ordine di tagliare l’acqua a molti paesi e di bruciare le case con i parenti dei renitenti che si erano messi in salvo fuggendo sulle montagne.
Ad Ogliatro, nelle campagne del Feudo Traversa, quattro contadini, impauriti dall’arrivo dei militari dei quali conoscevano la bestialità, si erano dati alla fuga ed erano stati ammazzati a fucilate. Un giornale dell’epoca così descriveva il comportamento di Govone
Si ricercano i renitenti di leva e in assenza loro tantosto si arrestano la madre, il padre, le sorelle, i fratelli e poi legati a mò di malfattori o galeotti, di pieno giorno, sono trascinati al Castello (Nota Mia: si tratta di Castello a Mare, all’epoca fungeva ancora da fortezza e da carcere militare) fra pianti, grida di dolore, e la pubblica commozione…
Nel tentativo di fare terra bruciata attorno ai potenziali rivoltosi,i arrestava senza discernimento, senza prove o precise accuse. Govone gonfiava il numero dei renitenti alla leva per giustificare le sue brutalità; scriveva al ministero di 4.162 renitenti dei quali se ne erano presentati appena 462; quindi era necessario continuare le stesse violente e barbare operazioni militari per assicurare alla legge gli altri 3.500 fuggiaschi.
Govone, preso dal sacro fuoco della sua follia si rese colpevole di un tragico ed infamante
episodio: ordinò al capitano medico Antonio Restelli di bruciare con un ferro rovente un povero sordo muto di venti anni, Antonio Cappello considerato renitente alla leva e simulatore. Il disgraziato minorato fu bruciato nel corpo per 154 volte, fin quando l’aguzzino si rese conto che il poveretto era davvero sordo muto.
Solamente le proteste dei nobili siciliani, con la persecuzione ai danni dei contadini, Govone danneggiava i loro interessi economici e dei residenti inglesi, che fecero notare come l’indiscrimnata repressione non faceva nient’altro che gettare benzina sul fuoco, fecero rimuovere il militare, che in seguito fece un’ottima carriera politica, diventando ministro del governo Lanza. In quell’occasione, però, usci letteralmente di senno: lasciò il dicastero il 7 settembre 1870 per non meglio spiegati parossismi di follia. Come riferisce un cronista dell’epoca,
aveva perduto il ben dell’intelletto e ballava e saltava nel suo gabinetto ministeriale
In ogni caso, Govone, invece di sanare la piaga, l’aveva mandata in cancrena: a peggiorare il tutto si aggiunsero anche le misure burocratiche ed economiche adottate dai piemontesi. L’abolizione di monopoli e dazi mandò in tilt l’economia locale; a valle dell’introduzione di 41 nuovi balzelli, la tanto criticata tassazione borbonica non parve più così male.
L’introduzione del il “lasciapassare per il lavoro”: una sorta di passaporto interno che rilasciavano i sindaci e attestava i posti in cui eri autorizzato a risiedere ed a lavorare, che vietava di spostarsi a vivere e a lavorare legalmente altrove senza una burocratica autorizzazione, aveva creato, soltanto a Palermo e provincia 17mila disoccupati, quasi tutti capifamiglia.
Disoccupazione accentuata dall’abolizione delle congregazioni religiose, dovuta alle Leggi Siccardi, che avevano messo sul lastrico 10.000 famiglie, che campavano alle loro spalle, e che la mancanza di investimenti da parte del governo centrale impediva di sanare.
I Repubblicani e gli ex Garibaldini, delusi dalla situazione, decisero di organizzare una rivolta e ne informarono Mazzini, il quale li prese a pernacchioni, evidenziando la velleità del progetto con le seguenti parole
“un moto repubblicano, che conduce a far pericolare l’unità nazionale, sarebbe colpevole; un moto che restasse senza certezza che il resto d’Italia possa seguirlo, sarebbe un errore; un moto che restasse isolato, cadrebbe poco dopo nell’autonomismo, nello smembramento, nelle concessioni a governi e reggitori stranieri…”
La sua ammonizione cadde nel vuoto: così questi, nella speranza di avere più sostegno possibile nell’impresa, caricarono a bordo di tutto e di più, dai nostalgici borbonici ai mafiosi; così il 15 settembre, cominciò la rivolta del Sette e Mezzo, dai giorni della sua durata, così narrata da Camilleri
Una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all’ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l’Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell’impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano “repubblicana”, ma che i siciliani, con l’ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del “sette e mezzo”, ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il “sette e mezzo” è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell’Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l’altro, “dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica”, dove quel “quasi” è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d’Italia
La rivolta inizia con l’arrivo a Palermo di squadre di contadini, circa 4.000, provenienti dalle campagne e dai paesi vicini, principalmente da Monreale, Villabate e Misilmeri, guidati da quegli stessi capisquadra che avevano partecipato all’impresa di Garibaldi nel 1860, al grido di “Viva la Repubblica”, “Viva Santa Rosalia”, “Viva Francesco II” e allo sventolare delle bandiere rosse.
I rivoltosi, entrati in città, in breve tempo sollevano gli abitanti contro i governanti, tanto da raggiungere la cifra, secondo le stesse fonti ufficiali, di circa 35.000 uomini armati, su una popolazione di circa 200.000 persone, delle quali 175.000 rinchiuse nei limiti daziari e 25.000 abitanti nel contado e nei sobborghi ristretti ad una cerchia di 4 o 5 chilometri.
Durante i giorni della rivolta gli insorti, per dare maggiore forza e autorevolezza al comitato rivoluzionario, istituito da Giuseppe Badia, braccio destro di Giovanni Corrao, nei mesi precedenti con componenti non di spicco, obbligano il Barone Riso, il Principe Pignatelli, il Principe di Linguaglossa, il principe Di Niscemi, il Barone di Sutera, il Principe di Galati, il Principe di San Vincenzo, il Principe di Ramacca, Monsignor Bellavia e il dottor Di Benedetto a far parte del comitato. Presidente è eletto per la sua avanzata età il Principe di Linguaglossa e segretario l’ingegnere Francesco Bonafede, di fede mazziniana, uno dei capi della rivolta, che con vari proclami nei giorni dell’insurrezione incoraggia e trascina all’azione i rivoltosi.
All’alba del 16 settembre duecento armati tra i ribelli, protetti da contadini e abitanti dei borghi, entrano in città attraverso le porte di Castro, di Sant’Agata, di Montalto, di Sant’Agostino sotto gli occhi delle guardie daziarie, che non capiscono di che si tratta, e si disperdono nei quartieri chiamando a raccolta i cittadini. Conventi e monasteri diventano centri di riunione e allo stesso tempo basi di operazione, mentre le campane suonano a stormo chiamando alla rivolta. Avvengono scontri attorno al municipio e poi al Capo, mentre le file degli insorti si ingrossano e cominciano ad esserci morti
e feriti.
La situazione diventa difficile per i governativi e il prefetto Torelli dal Palazzo Reale, ben difeso al momento da guardie e soldati, telegrafa ai Prefetti di Messina e Napoli e al Ministero degli Interni a Firenze, capitale del Regno dal 3 febbraio 1865 e sede del governo, chiedendo rinforzi.
Gli insorti troppo tardi si accorgono di aver dimenticato di recidere i cavi telegrafici per bloccare le comunicazioni tra Palermo e il resto del mondo e pagheranno cara questa grave disattenzione. Messina, Napoli, Firenze si affrettano ad assicurare l’invio di truppe per sedare la rivolta. Vengono assaltate le stazioni dei carabinieri e nelle strade appaiono le prime barricate.
Il ventisettenne sindaco marchese Antonio Starabba di Rudinì e il prefetto Torelli, che lo ha raggiunto in municipio, decidono di uscire per strada con truppe armate e di attaccare gli insorti, ma giunti alle barricate di porta Maqueda vengono respinti con gravi perdite e devono ritirarsi. Il comportamento del sindaco irrita maggiormente i ribelli e li porta a lottare più strenuamente; tale gesto gli sarà sempre poi rimproverato dagli avversari e in particolare dal Crispi, che detto fra noi, non si comportò meglio con la repressione di fasci siciliani.
Il 17 settembre Salvatore Miceli, combattente del 1948 e del 1860, conosciuto negli ambienti mafiosi con ilnome di battaglia di ‘u Pianista, con numerosi insorti assalta le prigioni dell’Ucciardone per liberare i 2.000 carcerati, ma i tentativi vanno a vuoto. Gli scontri diventano sempre più violenti per l’arrivo di altre squadre di ribelli dal Giardino Inglesee da Via Lolli con altri morti e feriti.
Ma iniziano ad arrivare i rinforzi per le truppe governative, che così riprendono forza e vigore. Nonostante ciò i terribili scontri che si succedono sono ancora a favore dei rivoltosi, che prendono la stazione dei carabinieri di Piazza Marina e il Tribunale
Nobildonne e dame provvedono a curare i feriti nelle camere e nelle sale del Palazzo Reale; le popolane e le donne degli insorti nelle sacrestie e nei porticati dei conventi. Il comitato rivoluzionario da Sant’Agostino diffonde continui proclami alla lotta e distribuisce armi e munizioni. Il 18 settembre l’insurrezione volge ancora a favore dei insorti con la presa del Palazzo municipale, sul quale si fa sventolare la bandiera rossa.
Intanto Salvatore Miceli, ancora all’assalto delle carceri, è ferito gravemente da un colpo di mitraglia espira qualche ora dopo. Si combatte dovunque con violenza e senza tregua, quella sera i guerriglieri raggiungono il numero di dodicimila.
A salvare i governativi giungono in porto la mattina del 19 settembre otto grandi vascelli, che sbarcano marinai, fanti, bersaglieri, pezzi di artiglieria e quattro cannoni. Nel pomeriggio un altro scontro terribile, nonostante i cannoneggiamenti dell’artiglieria governativa, che si comporta come quella borbonica, nel maltrattare la città, si risolve a favore degli insorti, con i quali a Palazzo Reale si pensa pure di trattare. Intanto si diffonde la voce di un prossimo bombardamento della città dalle navi alla fonda e dagli spalti del Castello a mare.
Il 20 settembre l’insurrezione è completata nei paesi vicini, a Monreale, ad Altofonte, a Misilmeri, dove sono uccisi quaranta tra guardie, carabinieri e funzionari. Gli eccidi e gli assalti alle sedi amministrative e politiche mettono in evidenza l’odio degli insorti e in generale della popolazione verso le autorità e il loro malgoverno.
A Palermo il cannoneggiamento dal Forte di Castellamare e dalle lance da guerra in porto si fa sempre più intenso soprattutto sul Corso, Villa Giulia, Via Lincoln. Continuano, intanto, gli scontri e gli scambi di fucileria da una barricata all’altra, tra i governativi schierati all’altezza del Palazzo Arcivescovile e gli insorti che sparano dietro protezioni erette con carrozze e suppellettili, asportate dalla casa del sindaco, tra la chiesa di San Giuseppe e il palazzo di Rudinì ai Quattro Canti.
Lì muore un altro capo della rivolta, Gianni da Partinico, nome di battaglia di un personaggio di cui non si conoscono le origini e le vere generalità. Verso sera giungono in porto da Livorno il Città di Napoli e il Washington con due divisioni disoldati e il mercantile Principe Oddone con numerose altre truppe. Il corpo di spedizione è comandato provvisoriamente dal generale Angioletti e dal generale Masi in attesa dell’arrivo a Palermo del generale Raffaele Cadorna, padre del futuro Maresciallo d’Italia, nominato il giorno avanti, con decreto del Principe Eugenio di Savoia, comandante delle forze militari in Sicilia.
Il 21 settembre è un giorno tragico per i rivoltosi; le truppe governative, integrate da altri reparti sbarcati quella mattina, avanzano dai Moli e si allargano a ventaglio da Via Montepellegrino a Via Imperatore Federico, a Via Sampolo, a Via Marchese di Villabianca, a Via Libertà, a Via Dante, a Piazza Generale Cascino, mentre le otto fregate mitragliano dal porto Via Lincon e Via Toledo da Piazza Marina ai Quattro Canti e dal Forte del Castello a Mare i moderni pezzi di artiglieria colpiscono le barricate degli insorti e le strade del centro.
Viene riconquistato il municipio dai governativi e cadono nelle loro mani gli elenchi delle squadre dei rivoltosi, per i quali qualche ora prima è stata liquidata la cinquina ai capisquadra da parte del patriota Salvatore Nobile. Gli elenchi, per l’incuria di qualche sprovveduto furiere, si trasformeranno in liste di proscrizione contro il popolo palermitano al momento della reazione.
L’avanzare delle truppe governative, la liberazione delle autorità provinciali e comunali, il continuo arrivo di truppe fanno presagire la fine dell’insurrezione, anche perché mancano ai rivoluzionari le armi e le munizioni, sono sfiniti da sette giorni di lotta e di tensioni e mancano dell’appoggio della borghesia, che si è completamente defilata da qualsiasi aiuto all’azione degli insorti. I capi decidono allora di chiedere la mediazione del console di Francia signor De Sénevier, per ottenere dal prefetto Torelli una resa che riconosca lo stato di belligeranti ai ribelli e ne assicuri l’impunità.
Intanto nella loro avanzata i soldati compiono uccisioni, fucilazioni ed efferatezze; all’alba del 22 settembre due nuovi vascelli sbarcano nel porto numerose truppe di bersaglieri, provenienti da Ancona e per tutta la giornata gli sbarchi si susseguono, sì che a sera l’esercito governativo assomma a circa 40.000 uomini.
Il console generale di Francia ritorna dalla sua missione a Palazzo Reale per comunicare ai capi degli insorti che i governativi non vogliono intraprendere alcuna trattativa, forti ormai degli aiuti arrivati dal governo di Firenze. I reparti governativi avanzano dal mare, si allargano a ventaglio e occupano, dopo violenti scontri con i rivoluzionari tutte le strade e le piazze di Palermo. Molti insorti vengono presi prigionieri e quelli trovati con le armi in pugno vengono fucilati sul posto.
Verso mezzogiorno è tutto finito e già la sera si conosce il numero dei caduti da parte governativa: 8 ufficiali, 116 uomini di truppa oltre a 2 funzionari e 25 sottufficiali e agenti di P.S., in totale 161. Nessuno, però, si interessa di calcolare il numero dei morti tra gli insorti che sono migliaia. A sera le carrette della Guardia Nazionale vanno raccogliendo i cadaveri dei caduti che coprono le strade, mentre il sindaco Di Rudinì entra trionfalmente in Municipio e il generale Cadorna, risalendo il Corso raggiunge Palazzo Reale e dopo un incontro con il prefetto Torelli e i comandanti militari si accinge ad emettere il primo di una serie di proclami che limiteranno nel tempo sempre più le libertà individuali.
Il 23 settembre si proclama a Palermo lo stato d’assedio, il 24 settembre si fa divieto ai Palermitani di allontanarsi oltre un chilometro dalla città senza una carta di circolazione rilasciata dalla polizia e si ordina il disarmo, il 26 è sciolta la guardia nazionale, nei giorni seguenti sono istituiti tre tribunali di guerra militari, che emettono sentenze pesantissime dagli ex conventi della Martorana e della Mercede.
Ma al di là di questa apparente giustizia tanti sono gli eccidi e le rappresaglie perpetrati dai governativi. L’ufficiale dei granatieri Antonio Cattaneo scrive ai suoi amici piemontesi che il giorno 23 settembre 80 arrestati con le armi in mano, condotti fuori porta, sono posti in un fosso e fucilati sommariamente. E anche quando lo stato d’assedio è revocato, il 12 e il 15 gennaio 1867 gruppi di detenuti durante la traduzione a Palermo sono fucilati dai soldati.
I severi tribunali militari sono disciolti con decreto del 17 dicembre 1866, ma in soli 40 giorni, dal 20 ottobre al 29 novembre, comminano 8 condanne a morte, 48 ergastoli, 17 condanne a venti anni di lavori forzati e un centinaio di condanne a pene inferiori ai venti anni. Si aggiungono ai rigori dei giudici militari gli arresti spesso senza motivo che raggiungono il numero di 3.600 e rendono le carceri invivibili.
Il rigore dei generali piemontesi cala anche sul clero: finisce in carcere anche il colto e mite vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, di novanta anni, che il Cadorna ebbe a definire
«il noto brigante D’Acquisto».
E’ persino vietata la festa di Santa Rosalia, poiché era stata invocata dagli insorti, al grido:
«Santa Rosalia e repubblica!».
Lo stato di assedio dura fino al 31 gennaio 1867; non è possibile alcun censimento, ma si calcola con approssimazione, che le vittime furono circa 35.000; il colera, portato in città da alcuni marinai piemontesi, fece il resto, desolando di morti Palermo. Si calcolarono circa 50.000 vittime.
Il procuratore del re, Giuseppe Borsani, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ebbe il coraggio di dire che la giurisdizione militare aveva prodotto una giustizia violenta senza forme né garanzie. I nobili che avevano fatto parte del Comitato Provvisorio di Governo, furono prosciolti purché confessarono di avere accettato l’incarico perché
«costretti dalla forza della plebaglia».
I giornali italiani nascosero il massacro dei siciliani e stamparono poche righe con caratteri minuti a fondo pagina. I giornali francesi, spagnoli e inglesi riportarono i fatti con una certa tempestività; ma si limitarono a scrivere che si era trattato di una rivolta repubblicana ad opera di bande di briganti.
Il Giornale di Sicilia, da sempre filogovernativo, sostenne la tesi che di bande di fuorilegge si era trattato. Su proposta dell’editore Ardizzone indisse una colletta per i soldati piemontesi morti negli scontri e per le loro famiglie. Furono raccolte 10.750 lire. Per i rivoltso fu sufficiente la fossa comune al Cimitero dei Rotoli.