La Musica Popolare Greca (Parte II)

La canzone demotica, come detto, entrò in crisi con l’unità greca e con i mutamenti della struttura socio economica, dato che, dopo secoli, il mondo ellenico subiva gli effetti di un’improvvisa e tumultuosa urbanizzazione, che all’improvviso crea una ridistribuzione disuguale delle ricchezze: alla societa contadina, in cui, con l’eccezione dei fanarioti, la ricchezza era distribuita in maniera uniforme, si sostuisce una fortemente stratificata, in cui la borghesia impiegatizia e commerciale si contrappone alla grande massa dei diseredati.

Proprio tra questi, al Pireo, intorno al 1860, nasce una nuova forma musicale, che pur mantenendo una continuità di ritmi e melodie con la canzone demotica, ne innova i temi: i nuovi canti popolari trattano la nostalgia per la vita rurale abbandonata e lo straniamento provato dinanzi alla complessità della vita urbana. A questi, progressivamente, si aggiungono l’equivalente di quelle che in Italia si chiamano “le canzoni della Mala”, che trattavano temi di delinquenza, prostituzione, crimine e della vita del carcere.

In parallelo, a Smirne, il principale centro della Grecia ionica, in un contesto diverso, figlio di una borghesia ricca, multiculturale e con alle spalle secoli di vita cittadina, nasce una sorta di canzone bohémien e scapigliata, che parla di esteti eccentrici, fumatori d’oppio e artisti emarginati.

Se la canzone del Pireo trova il suo luogo principe nella strada e nella taverna, dove i poveri sfuggono alla difficoltà e alle delusioni della vita ubriacandosi con la retsina, la canzone di Smirne vive nei cafè-chantant, dove ricchi annoiati si illudono di provare il brivido della trasgressione. In più, la canzone ionica non fa che riadattare e contestualizzare alla lingua greca melodie di origine turca, sia popolari, sia colte.

La differenza, tra i due mondi è anche negli strumenti musicali: al Pireo domina il bouzouki, all’epoca con tre corde doppie, strumento simile al nostro mandolino, o la sua versione arcaica, il tabourás, con due corde doppie e il cantino. A Smirne invece dominano il kanokaki, ossia il qanun arabo, la cetra orizzontale a 78 corde, la zurna, una sorta di oboe turco, i tamburi a cornici, il clarinetto e una variante della lira bizantina.

Con il Novecento, la situazione economica nella Grecia libera peggiora ulteriormente: grandi masse di contadini sono da una parte privati dei loro poderi dalla crisi, dall’altra non sono assorbiti come operai dal limitato tessuto industriale greco.

Oltre ad aumentare il numero di diseredati nelle periferie di Atene, rendendo il tema della disperazione e della malavita predominante nella canzone urbana, ciò provoca una notevole migrazione negli Stati Uniti, dove nascerà la musica greco-americana, in cui le canzoni tradizionali vengono reinterpretate con i ritmi veloci dalla musica locale.

Questo mondo, complesso e variegato, cambia con quella che i Greci chiamano La Grande Catastrofe; a seguito della sconfitta nella guerra greco-turca, dovuta anche al voltafaccia italiano e francese, che per fare dispetto agli inglesi, considerati padrini politici di Atene, riempiono d’armi Atatürk e all’olocausto di Smirne, viene firmato il trattato di Losanna, che prevede uno scambio di popolazione tra due nazioni: in Grecia arrivano 1.221.849 profughi su un totale di 6.204.684 abitanti, il 20% circa della popolazione totale, mentre i turchi che abbandonarono la Grecia furono circa 300.000.

Di fatto gli unici turchi che rimarranno in Grecia sono quelli che abitavano il Dodecanneso, essendo questo una colonia italiana. Nel frattempo, la situazione dei profughi ionici è drammatica: erano vissuti nelle fertili terre dell’Anatolia o in città ricche e multiculturali e si ritrovavano in campi profughi di un piccolo paese montuoso che non aveva i mezzi per sostenerli e integrarli e in fondo, non li voleva neppure lì, considerandoli ospiti indesiderati

In questa condizione disperata, le due tradizioni musicali, quella del Pireo e quella di Smirne, si fondono assieme: nasce la musica rebetika, il cui nome, paradossalmente, deriva dal turco rembet che significa “fuorilegge”, che fuse le canzoni dei fuorilegge che avevano come protagonisti droga, sesso, crimini e prigionia e quelle più raffinate dei profughi dell’Asia Minore che raccontavano, invece, l’erotismo e la nostalgia per i propri paesi, lasciati contro la propria volontà. Lo stesso avviene in termini di musica e di strumenti utilizzati per suonarla.

Le canzoni rebetiche erano interpretate dai manghes, uomini di strada baffuti e sempre armati e uno dei temi spesso cantati era quello delle droga e dell’hascisc, vista come unica via di fuga dai dolori della vita.

Le canzoni della rebetika nascevano dalla spontaneita’. Esse avevano la capacita’ di scuotere, eccitare e coinvolgere l’ascoltatore. Iniziavano sempre con un preludio, il taxim, per strumento solo, di solito il buzuki. Il taxim serviva a creare l’atmosfera e a produrre nell’ascoltatore l’umore piu adatto per la canzone che si accingevano ad ascoltare. Di conseguenza esso permetteva al suonatore di mostrare la sua abilita e la sua esecuzione poteva durare fino a venti minuti. Lo stile musicale del taxim era naturale e pesante, il ritmo libero. Molto spesso esso era accompagnato dal continuo battere delle corde del baglama. Il metro più comune delle canzoni era il 9/8 dello zeibekiko.

Gli esecutori improvvisavano i loro versi, spesso di tono familiare, indicando persone presenti e facendo dei riferimenti ad episodi recenti di interesse locale. Essi cantavano con voce gutturale, calma, aspra e rauca, uno dopo l’altro, e ogni cantante aggiungeva un verso che spesso non aveva alcuna relazione col verso precedente, percio una canzone poteva protrarsi per delle ore. Un rebeta accompagnava il cantante con un buzuki o un baglama, e forse un altro, spinto dalla musica, poteva alzarsi ed eseguire una danza. Come racconta Gail Holst in “Road to Rembetik”.

“…la musica cominciava, con ritmo insistente, suono duro e metallico, ed il danzatore si alzava, come sotto compulsione, per rilasciare la sua dichiarazione. Gli occhi a meta chiusi, in trance – come assorto, sigaretta che pendeva dalle labbra, braccia aperte come per mantenere l’equilibrio, cominciava a girare in cerchio lentamente…”

Progressivamente, come per il jazz in America, quella che era la musica degli ultimi e degli emarginati, comincia a diffondersi nel grande pubblico, affascinandolo con la sua carica eversiva, vista come possibile protesta contro una società sempre più bigotta e repressiva.

Per cui, nel 1937, il dittatore Metaxàs decide di applicare la censura a tale genere musicali: vieta le canzoni dedicate all’hascisc, considerate come nemiche della pubblica morale, e quelle che rimpiangono l’Anatolia, le manès, perchè viste come un’esaltazione dello storico nemico turco. Censura che mette definitivamente in crisi gli artisti di origine smirniota, che si dedicavano a tale genere, che vengono progressivamente emarginati.

Il tutto peggiora con la guerra e l’occupazione tedesca; molti musicisti, entrando nella resistenza, sono uccisi sia dagli occupanti, sia dai collaborazionisti. La crisi della musica rebetika sembrava irreversibile, quando una sua rinascita fu conseguenza delle mutazioni subite dalla Grecia.

Alla fine della guerra mondiale, infatti, le traumatiche vicissitudini della guerra civile che seguì subito dopo causano una nuova corrente migratoria interna, che spopola definitivamente le campagne e rende Atene e Salonicco due immensi incubi urbanistici. Nuovi quartieri squallidi, nuove periferie desolate sorgono, si moltiplicano i comuni satelliti per ospitare altre masse della moderna proletarizzazione ed emarginazione.

Il protagonista di questo recupero fu Markos Vamvakáris, che era tutt’altro che un figlio della marginalità sociale in cui proliferava la rebetika, essendo figlio di piccolo-borghesi e studente di giurisprudenza. Vamvakáris ha l’intuizione di estendere il pubblico di questa musica popolare a un pubblico nuovo: la borghesia della grande città.

Di fatto, le vicissitudini che aveva subito la Grecia, l’avevano portata a ripiegarsi su sé stessa e riflettere sulla propria identità, ricostruendo una sua identità e un suo senso di communitas, che porta alla fusione tra alta e bassa cultura.

Così, la rebetika subisce diverse evoluzione: fondendosi con la musica greco-americana, si trasforma nella musica leggera greca. Per assecondare il pubblico più conservatore, si trasforma in una sua variante edulcorata, archondorebètika, con l’utilizzo di voci femminili invece delle tradizionali maschili, l’introduzione di strumenti di altre tradizioni europee, come la fisarmonica e la chitarra, e la modifica del bouzouki, la cui sonorità, per la quarta corda doppia, diventa assai più complessa.

Tutto ciò, però, dagli anni Novanta in poi, provoca, per reazione, un recupero quasi filologico delle canzoni e delle musiche degli anni Venti e Trenta, che, nonostante gli anni, mantengono ancora la loro drammatica carica eversiva….

2 pensieri su “La Musica Popolare Greca (Parte II)

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