Con qualche giorno di ritardo, mi dedico al mio diario palermitano, per raccontare la scoperta di luoghi che di solito sfuggono ai turisti frettolosi: il motivo, a dire il vero, è abbastanza banale… Non mi sono portato dietro il portatile; scelta dovuta sia al mio pessimo rapporto con le regole sul bagaglio a mano di una certa compagnia irlandese, sia perché, per una volta, ho voluto godermi pienamente le vacanze, limitando al massimo la tentazione di guardare le mail di lavoro.
E devo dire che, tra una passaggiata e qualche scappata a mare, l’obiettivo è stato raggiunto: molto, a dire il vero, ha contribuito non avere preoccupazioni da Roma e a non avere a che fare con gli “uomini pieni di vuoto”.
Chiusa questa premessa, il mio viaggio comincia con un luogo riaperto alle visite da poco, benché sia nella centralissima via Maqueda, che prende il nome dal costruttore, il vicerè duca di Maqueda Bernardino de Cárdenas y Portugal, che decise di creare un nuovo asse viario, sia per togliersi dalle scatole i nobili locali, che chiedevano nuovo spazi per ampliare i loro palazzi, al fine di mostrare a tutti il loro potere e la loro ricchezza, sia per tentare di risolvere quella che già all’epoca appariva come l’annoso problema del traffico.
Su questa via, nascosto all’interno dell’ex Casa Conventuale dei Crociferi, l’ordine religioso fondato da San Camillo, per l’assistenza agli infermi, vi è l’Oratorio della Carità di San Pietro; a Palermo, quando si sente parlare di oratori, il pensiero fa subito allo splendore degli stucchi dei Serpotta… Però, in questo caso particolare, a dominare lo spazio sacro non è la scultura, ma la pittura.
L’oratorio nacque nel 1736, come una sorta di sede del sindacato di categoria dei preti palermitani: all’epoca, un gruppo di parroco palermitani decise di autotassarsi per offrire la propria solidarietà ai confratelli più disagiati, cioè quei preti poveri che stazionavano ai Quattro Canti per chiedere l’elemosina o aspettare che qualcuno li ingaggiasse per celebrare una messa.
In più, benché il pericolo dei pirati barbareschi stesse passando di moda, i parroci si impegnarono anche a riscattare i loro colleghi catturati dagli infedeli e, cosa più immediata e concreta, a garantire a quelli più poveri cure mediche e sepoltura dignitosa.
Nel 1738, La Congregazione de la Carità di San Pietro, così si chiamava questa sorta di sindacato, decise di affidare la decorazione della sua sede operativa al pittore Guglielmo Borremans; questo era un pittore fiammingo, nato ad Anversa del 1742, che per trovare fortuna, decise di trasferirsi in Italia.
Cosa strana, aprì la sua prima bottega a Cosenza, dove però non è che navigasse nell’oro: per cui, decise di trasferirsi a Napoli, dove entrò nel giro di Luca Giordano e del Solimena. Vista la concorrenza spietata in ambito artistico nella città partenopea, decise di trasferirsi a Palermo, dove ottenne un successo straordinario, creando in Sicilia una sorta di equivalente pittorico della poesia arcadica: infatti, nelle sue opere coniuga una spazialità teatrale e l’eleganza bizzarre delle pose dei suoi personaggi con un’attenzione ossessiva per i dettagli e un amore, quasi illuminista, per l’infinita ed enciclopedica varietà del vivere quotidiano.
A questo poi, associa una straordinaria eleganza e vivezza compositiva e cromatica e una saggia retorica, associata alla profondità coinvolgente della luce; di conseguenza, guardando alle sue scene sacre, sembra di assistere a un melodramma del Metastasio piuttosto che a una Sacra Rappresentazione.
Tutto ciò è evidente nell’Oratorio della Carità di San Pietro, preceduto da un antioratorio e da una sala rettangolare, anch’essi decorati da Guglielmo. Nell’affresco della volta dell’antioratorio è rappresentato “L’evasione di S. Pietro dal carcere”, invece nella volta dell’oratorio è raffigurato “La Gloria di San Pietro”. Nelle vele sono presenti i santi “Francesco d’Assisi”, “Acaio”, “Vincenzo de’ Paoli” e “Paolino”.
Il tutto, in una sorta di horror vacui, circondatda pitture con architetture effimere, trompe-l’œil, cartigli, conchiglie, finti stucchi, vele, festoni e ghirlande vegetali, ornati, cornici, nicchie con figure di Virtù, mensole, riccioli, volute e decorazioni con motivi a foglia d’acanto, quasi a sfidare la fantasia decorativa dei Serpotta e trasfigurare, in un ironico sberleffo, la pesantezza della materia.
Spettacolo, che però, non godiamo in pieno, secondo quanto ipotizzato dal pittore: L’assetto di questo oratorio fu stravolto alla fine dell’Ottocento, per ricavare dei vani a pian terreno da adibire a botteghe. Così l’accesso all’oratorio non fu più sulla strada, ma dal cortile attuale, rovinando parzialmente l’originale effetto sorpresa…
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