Ballarò

La seconda tappa del mio diario palermitano è dedicata a uno dei mercati storici della città: Ballarò. Negli ultimi anni, la grande crescita del turismo diretto a Palermo, ha svolto un importante ruolo di volano nel recupero e nella riqualificazione urbana del suo centro storico.

Ha facilitato la pedonalizzazione del Cassaro e di Via Maqueda, che progressivamente stanno cambiando volto alle due strade, ha ampliato l’offerta di case vacanze e b&b, ha invogliato al recupero di monumenti e palazzi storici che erano abbandonati e chiusi al pubblico: di fatto sta cominciando a dare un importante contributo all’economia cittadina.

Ciò ha cambiato anche la natura stessa dei mercati: al Capo e alla Vucciria ormai ci sono più locali per aperitivi che banchi e persino Borgo Vecchio, di solito lontano dai flussi turistici, è stato oggetto di gentrification urbano, vedendo la crescita della presenza giovanile e turistica nelle ore notturne, attratta dai molti pub, luoghi di ritrovo e taverne, oltre che hotel e b&b.

L’unico mercato che continua a mantenere la sua anima popolare è proprio Ballarò, che ebbe origine almeno nel X secolo, a dare retta a quella malelingua del mercante arabo Ibn Hawqal; all’epoca, il mercato si teneva fuori delle antiche mura puniche, nella parte meridionale di un borgo agricolo, un rabat, esteso fra la moschea di ‘Ibn Siqlab, dove adesso sorge la chiesa di san Nicolò da Tolentino, e il Quartiere Nuovo, Harat Al Giadidab, adiacente a quello che diventerà il Quartiere Ebraico, ed esterno all’attuale via Divisi.

Questa parte della città comunicava con quella recinta dalle antiche mura punico romane attraverso le porte Bab Al Anba (nelle vicinanze di S. Giovanni degli Eremiti), Bab As Sudan (la porta dei negri) lungo la Via Biscottai all’altezza dell’ex ospedale Fatebenefratelli e Bab al Hadid (porta di ferro) là dove è oggi l’ingresso laterale della Facoltà di giurisprudenza. Essa era separata dall’agro palermitano da una muraglia di fortificazione interrotta dalle porte Mazara e S. Agata. E’ questo il tratto di mura che il normanno Conte Ruggero espugnò dando così inizio alla conquista di Palermo da parte dei normanni.

Ibn Hawqal oltre ad accennare all’esistenza del mercato, ne collega l’origine alla vicinanza con un villaggio agricolo nei pressi di Baida, Bahara, da cui provenivano le mercanzie. Tuttavia è possibile come il nome possa invece derivare anche da Segel-ballareth, che in arabo significa sede di fiera.

La persistenza della denominazione è peraltro confermata da una serie di documenti d’archivio: il primo, del 1287, parla di una contrata Ballarò ed un secondo, della stessa epoca, riferisce di un macellum Ballaronis. Un terzo, del 1327, cita una platea pubblica de Ballarò, cioè un mercato destinato a tutti i generi alimentari e non solo alla carne.

Il primo nucleo del mercato doveva svilupparsi lungo l’omonima via, n origine stretta e tortuosa che nel Quattrocento sarebbe stata allargata fino ad assumere l’attuale configurazione di piazza, compresa fra il monastero di Santa Chiara e il convento del Carmine.

Piazza in cui sbuca la via Albergheria, che fa da il nome all’intero quartiere, che secondo alcuni deriva da “Albergaria Centurbi et Capicii” con cui i palermitani indicarono territorio in cui Federico II deportò nel 1243 gli abitanti di Centuripe e di Capizzi che si erano ribellati alla sua autorità e secondo altri potrebbe invece significare “terra a mezzogiomo”, da Albahar, strada di impianto medievale e con le medesime caratteristiche del vicolo, divenuta nel Cinquecento platea magna, strada commerciale un po’ più larga per allinearvi le taverne e per il passaggio dei carri.

In quell’epoca Ballarò assumeva un assetto definitivo. Il governo borbonico sottopose il mercato ad alcuni miglioramenti che riguardavano la costruzione di portici e banconi, così come era stato fatto per la Vucciria. Purtroppo, come ricorda il marchese di Villabianca, tali provvedimenti riuscirono solo in parte per la natura troppo angusta dei vicoli.

Tra l’altro, proprio il tentativo di ristrutturazione urbanistica dell’area ipotizzato da Franceschiello, che avrebbe portato a numerosi sventramenti, fu una delle cause del malumore locale che favorì l’impresa dei Mille. Nel Novecento i bombardamenti angloamericani del secondo conflitto mondiale provocarono la distruzione della cortina edilizia, parzialmente ripristinata nel dopoguerra, per fare riprendere l’attività alle botteghe, e che aumenta purtroppo la percezione di degrado e di insicurezza da parte dei turisti, quando la realtà è assai più tranquilla.

Oggi l’articolazione del mercato nel mandamento di Palazzo Reale non si è discostata sensibilmente dalla configurazione originaria, rimanendo concentrata in larga misura fra le due piazze Ballarò e Carmine, su cui troneggia la splendida chiesa del Carmine Maggiore, di cui parlerò domani.

In realtà tutta la compravendita si estende anche lungo la via Chiappara al Carmine, fino all’arco di Cutò, al confine con la via Maqueda. Dall’altro lato si può accedere da via San Mercurio o da corso Tukory superando l’antica Porta Sant’Agata, o lungo la via Università, passando per Casa Professa.

Come spesso accade a Palermo, un forte ruole di coesione sociale e di costruzione di un’identità condivisa dentro il Mercato è dato dalle Confraternite, come quella di Maria Santissima del Rosario al Carminello, custode dell’omonimo oratorio, decorato dagli splendidi stucchi dei Serpotta, o quella di Gesù e Maria dei Panettieri, che ha sede nella chiesa di Sant’Isidoro Agricoltore all’Albergheria.

Confraternita che, oltre alla storica processione del Venerdì Santo, da un ventenni allestisce nella sacrestia della Chiesa, durante il periodo natalizio, dei presepi realizzati interamente di pane, vere e proprie sculture effimere.

Un’altra delle caratteristiche di Ballarò sono i banchi dedicati al cibo da strada, che ahimè, a causa della dieta, ho potuto guardare e non toccare. Per curiosità, ne elenco alcuni, a cominciare dai babbaluci, le lumachine, a cui è dedicata una famosa canzone popolare siciliana.

Piatto tradizionale del Festino di Santa Rosalia, i babbaluci sono fatti spurgare per un giorno in acqua e sale, vengono prima bolliti e poi cotti in tegame con aglio e prezzemolo e, a piacere, anche con un poco di pomodoro a pezzetti.

Vi è poi a frittula, formata da tutti i residui della macellazione di bovini, suini, ovini e caprini (sivu i chianchieri). Tali residui vengono dapprima scaldati in un grande recipiente di ferro (fustu) dove friggono lentamente nello strutto (o sugna), e poi nuovamente bolliti per tenerli morbidi e infine compressi come una ciambella. Il frittularu offre tradizionalmente la sua merce in un grande paniere ricoperto da uno strofinaccio a quadrettoni.

Sempre appartenenti al quinto quarto sono il mussu e il quarumi: il primo è un bollito bovino, servito freddo e condito con sale e limone. Viene ricavato da varie parti dell’animale, oltre che dal muso da cui prende il nome: mascella, bocca e naso, piede, calcagno, collo del piede, ginocchio e in generale tutte le parti muscolose formate da tessuti connettivi.

A quarumi, sempre di origine bovina, è un bollito d’interiora, ricavate prevalentemente da varie parti dello stomaco e dell’intestino, insaporito con cipolla, sedano e carote. Per chi invece preferisce il pesce, si trova spesso e volentieri tra i banchi il polpo bollito, condito con abbondante limone, gli involtini di pesce spada e le sarde a beccafico, cosparse di un ripieno di pangrattato, uvetta e pinoli, arrotolate e infornate con gli aromi dell’alloro e del limone.

Per finire il pasto, i fichi d’india o i cedri, serviti a fette e conditi col sale, e accompagnata dallo zammù, un bicchierone d’acqua freddissima, al cui fondo, per mezzo di una bottiglia con un lungo beccuccio di metallo, venivano deposte alcune gocce di anice…

 

3 pensieri su “Ballarò

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