Una dei cartoni animati che ho più amato da bambino è Daitarn 3. A Yoshiyuki Tomino, autore di profonde e drammatiche riflessioni sulla guerra, come Zambot 3 e lo stesso Gundam, viene commissionata una serie diretta a un pubblico infantile, utile a fare vendere tanti modellini del robottone alla casa produttrice di giocattoli che ha finanziato l’anime.
Ma Tomino ha un talento straordinario, che lo porta ad andare oltre la visione manichea delle precedenti serie robotiche; in più, a quanto pare, in quel periodo soffre di una profonda depressione, che tende a trasferirsi in maniera più o meno evidente, nelle sue opere. Infine, a quanto pare, alcuni episodi vengono, come dire, sceneggiati in outsourcing, da altri membri dello studio di animazione con cui collabora.
In casi analoghi, genio, depressioni e intervento di terze parti, genererebbero un pastrocchio senza capo né coda; invece, per una strana combinazione astrale, qui hanno portato a un’opera complessa, ambigua, in cui i piani di lettura si intrecciano in nodo intricato.
Un’opera aperta, per citare Eco, che ogni spettatore vive e interpreta a modo suo: forse questo è la chiave per spiegare il suo successo in Italia, paese di individualisti, ognuno convinto che la sua opinione sia una verità assoluta, e non in Giappone, società assai più omologata, in cui si amano le forme nette e semplice e si considera l’ambiguità non libertà del possibile, ma come incompletezza, incapacità a esprimere a pieno una verità chiara ed evidente.
Daitarn 3 è un cartone animato postmoderno: nell’aspetto più ovvio e superficiale, cita, deformandoli in una gamma di sfumature che vanno dall’ironica malinconia alla parodia più spinta e sgangherata, tutti i canoni del genere dei Robottoni.
Poi, altro dato assai evidente, la serie è anche una sorta di frullatore dell’immaginario pop dell’epoca. Sono presenti dozzine di citazioni da cinema, letteratura, fumetti e televisione: ad esempio, nell’episodio 32 la base dei Meganoidi è uguale alla Morte Nera di Guerre stellari; nell’episodio 36, dove Banjo è oggetto di tortura psicologica, uno dei cattivi si chiama Phroid, parodia di Sigmund Freud; nell’episodio 10 Banjo prende parte alle riprese di un film di Kung Fu.
Per citare il grande saggio DocManhattan
I comandanti meganoidi che si trasformano in Megaborg sono un delirante frullato di spunti diversi, che comprende Biancaneve, i super-eroi USA, le stelle del cinema di Hong Kong e quelle di Hollywood, con il biondo Jimmy Dean.
Lo stesso Banjo (Haran è il cognome, ricordiamolo) gioca di continuo a fare il James Bond. Reika è un’ex agente dell’Interpol, la svampita Beauty chiaramente una Bond Girl. Il maggiordomo Garrison, invece, ricorda fin troppo l’Alfred Pennyworth di Batman.
Inoltre, in maniera assai sottile, per parafrasare Jean-François Lyotard, il postmodernismo di Daitarn è incredilità nei confronti delle metanarrazioni, i sistemi e le prospettive teoriche della modernità: la volontà illuminista di emancipazione dai dogmi religiosi, l’idea hegeliana di una fine della storia nel trionfo della razionalità, le ideologie egualitarie e totalizzanti (socialismo, comunismo), lo sviluppo dell’economia e della ricchezza, l’onnipotenza della scienza e della tecnica, l’idea di una giustizia universale.
La trama di Daitarn è il trionfo del disincanto: la trama è il trionfo del caos, un succedersi di momenti ed episodi, che spaziano tra generi differenti, che paiono sempre prossimi allo sfuggire di mano, che negano l’essenza stessa di un universo narrativo, concluso, autoreferente e ordinato.
Disincanto anche nella tematica di fondo dell’opera: non la contrapposizione favolistica tra Bene e Male, ma un tema ben diverso. Da una parte, i Meganoidi vogliono superare, con la tecnologia, la condizione umana; dall’altra Banjo Haran, nella suo tentativo, sempre frustrato, di realizzarsi pienamente come Oltreuomo. Per lui
L’uomo è un cavo teso tra la bestia e l’oltreuomo, – un cavo al di sopra di un abisso.
Insomma, in fondo Daitarn può essere anche letto come un ambiguo duello tra Nietzsche e il Transumanesimo. Banjo Haran è un antieroe cialtrone e superficiale, che in fondo vuole continuare a imporre lo status quo, mentre i meganoidi sotto la maschera di uomini di successo, sono inquiete, che non si riconoscono nei valori della società in cui sono costretti a vivere, spesso reduci da storie drammatiche e a differenza dei buoni, spesso capaci di compiere azioni valorose e degne di rispetto.
Ed è splendido il malinconico finale: troppo spesso, nella vita, legami che riteniamo forti e consolidati, svaniscono senza un apparente perché e all’improvviso, ti ritrovi accanto degli estranei. E il rimpianto, purtroppo, non riesce a fare tornare indietro le cose.
Il nuovo doppiaggio della Dynit del 2000, più aderente all’originale rispetto a quello di quando ero bambino, evidenzia ancora un altro strato di lettura, modificando la percezione che abbiamo del finale e mostrando sotto un’altra luce l’intera storia.
Per prima cosa, pare evidente come Haran Sozo, papà di Banjo, e Don Zauser siano la stessa persona. Di conseguenza, Koros, deve essere l’amante che Sozo ha preferito alla moglie. In più, Banjo, dopo averle sparato non le dice più
“Hai avuto quello che ti meritavi, maledetta”
come nella vecchia versione, ma
“Ma che cosa ho fatto?”,
come se, resosi conto delle sue azioni, ne provasse all’improvviso un immenso rimorso. Per cui, forse il protagonista non è che uno psicopatico, che pieno di rancore e desiderio di vendetta nei confronti del padre che lo ha abbandonato, per distruggere il sogno e l’opera della sua vita, compie una sorta di genocidio.
E per giustificare il tutto, mente a se stesso e a coloro che gli sono accanto; alla fine, questi, dinanzi alla verità, lo lasciano al destino che merita, la solitudine…