Uno dei luoghi più affascinanti dell’Abruzzo è senza dubbio l’abbazia di San Clemente a Casauria, fondata come ex voto dall’Imperatore Ludovico II, pronipote di Carlo Magno, nell’871, a seguito delle complesse vicende che lo videro prima collaborare con i bizantini nella distruzione dell’Emirato di Bari, poi finire prigioniero del suo ex alleato, il duca longobardo di Benevento.
Secondo il Chronicon Casauriense, un cartularium, ossia come una raccolta di atti di acquisto, vendita, privilegio, donazione e di altri documenti regali o papali relativi alla costituzione del patrimonio dell’abbazia, redatto verso la fine del XII secolo, dal monaco Giovanni di Berardo (Johannes Berardi) che agì su impulso dell’abate Leonate, per difendere le proprietà di San Clemente dell’avidità dei vicini baroni normanni e per ridurre al minimo le tasse pagate agli Altavilla, l’imperatore Ludovico rimase talmente affascinato dalle bellezze del luogo, ricco di
“cervi che popolano selve, aquile che nidificano sovrane in rupi precipiti, falchi rapaci, fiumi ricchi di trote e di anitre selvatiche, fiumi in ogni modo ricchi di pesci…”
nella cosiddetta Insula Piscariense o casauriense, vicino una chiesa dedicata a S. Quirico e lungo le sponde del fiume Pescara che sin dall’801 aveva diviso naturalmente i confini dei ducati longobardi di Spoleto e Benevento.
Il motivo, ovviamente, era assai più politico, che religioso: a Ludovico serviva un avamposto, controllato da un ecclesiastico fedele, per tenere a bada gli inquieti e intriganti ducati longobardi del Sud, spesso e volentieri alleati e protetti dall’Abate di Montecassino.
Dedicato inizialmente alla SS. Trinità il cenobio,con l’attiguo convento sorto secondo la regola di San Benedetto, mutò successivamente nome con l’acquisizione delle ossa di San Clemente nell’872: nell’architrave del portale d’ingresso è raffigurata la leggenda della traslazione.
San Clemente Papa, a cui è dedicata una spledida chiesa nella valle tra l’Esquilino e il Celio, fu forse il terzo successore di S. Pietro, nel 96 o 97 sarebbe stato gettato in mare in Chersoneso per ordine di Traiano con un’ancora attaccata al collo; i suoi resti vennero ritrovati da Cirillo e Metodio, gli apostoli degli Slavi e riportati a Roma nell’868.
Il primo abate è Romano, scelto per santità di costumi ma anche per una saggia amministrazione dei beni; le prerogative eccezionali e le ripetute donazioni concesse prima da Ludovico II e poi dai suoi successori (il diritto di eleggere l’abate in maniera autonoma, il diritto di giurisdizione civile sui territori soggetti, l’uso dello scettro) portano l’abbazia dotata inizialmente di dodici moggi di terreno appartenenti alla diocesi di Penne ad averne millenovecento l’anno successivo.
Nel 911 fu abate Lupo, e accrebbe i beni territoriali sino ad arrivare alla costa del mare Adriatico, al massiccio della Majella e ai fiumi Pescara e Trigno, di fatto coprendo buona parte della regione. La ricchezza dell’abbazia, però, cominciò a fare gola alle bande di Saraceni, che sfruttando la complessa politica locale, bazzicavano il Sud della Penisola, che nel 916 saccheggiarono l’area; i monaci, per non sapere né leggere, né scrivere, se la diedero a gambe levate e il monastero, secondo il Chronicon
ut nihil funditus in eo remaneret
Passato il pericolo, i monaci si rifecero vivi e, sotto l’abate Alparo, cominciarono a recuperare le cose perdute e ad iniziare i lavori di restauro. Dato che Enrico I, impegnato nel suo duello mortale con i nomadi magiari, aveva tutt’altro a che pensare che a un’abbazia in Abruzzo, il tentativo di battere cassa per farsi finanziare i lavori dall’Imperatore fallì miseramente.
Per cui, per coprire le spese impreviste, i monaci dovettero vendere e a prestare terre; in un modo o nell’altro i lavori terminarono nel 970, realizzati al risparmio, tanto che nel 1025 l’abbazia mostrava nuovamente i segni dello sfacelo. Di conseguenza, a malincuore, vedendo
ruinam parietum, fracturas domorum, pane et vino penum vacuum, nudos fratres, destructum monasterium
l’abate Guido dovette mettere mano alle tasche. Sempre nel tentativo di ottenere qualche finanziamento dall’Imperatore,nel 1047 l’abate Domenico spedì un’ambasciata a Enrico III di Sassonia, il quale, si limitò a concedere solo un diploma, più teorico che reale, visto che agli inquieti nobilastri abruzzesi poco importava di quei proclami, di conferma dei beni dell’abbazia, senza accompagnarlo neppure da un’oncia d’ora.
Per cui, imparata la lezione, gli abati non si rivolsero più all’imperatore per tutelare i loro diritti e ottenere denari, bensì al papa, assai più vicino e interessato alle vicende abruzzarsi. Nel 1051 il nuovo orientamento della politica monastica, articolato nella fedeltà ai pontefici, era in fase di avanzata attuazione.
Il che fu una fortuna per i monaci, che all’orizzonte apparve presto una nuova rogna, i normanni, che stavano allungando i loro tentacoli sull’Abruzzo. Il capofila di quest’orda di cavallette fu il condottiero Hug de Malmozet, Ugo Malmozzetto (cioè “brutto ceffo”), comandante al servizio di Roberto di Loritello, braccio destro del Guiscardo, che si insediò ad Ortona e da lì cominciò una serie di aggressioni violente e vittoriose ai danni dei Signori e degli Abati dell’Abruzzo costiero e pedemontano, allo scopo di arraffare il più possibile e di farsi nominare Conte dagli Altavilla.
Nel 1066 Ugò attaccò Penne e la occupa, spodestando l’assente Conte in carica, Bernardo o Berardo di antiche origini franche, che, grande seguace della teoria
la miglior difesa è la fuga
si era già rintanato nel Monastero di San Bartolomeo di Carpineto fatto costruire nel 962 dal suo antenato omonimo e da cui in quello stesso 1066, scacciandone a pedate i monaci. Avutane notizia, Malmozzetto si portò all’assedio dello stesso Monastero, costringendo il defraudato Conte alla fuga e liberando il Monastero dagli scrocconi laici, per farvi poi tornare i legittimi proprietari.
Fu così che nella “Cronaca” del Monastero di San Bartolomeo, redatta alla fine del secolo successivo dal Monaco Alessandro sulla base dei documenti conservati nell’archivio abbaziale, il condottiero normanno viene descritto come un uomo giusto e magnanimo, amico di Dio e dei Cristiani, generoso, forte e molto bello, a dispetto del suo soprannome.
Nonostante questo, Gregorio VII poco si fidava di Ugo, tanto che Papa Gregorio VII, nel 1074, nominò vescovo di Valva ed abate di San Clemente a Casauria Trasmondo, figlio di Odorisio, Conte dei Marsi, e fratello di Attone, vescovo di Chieti, e di Desiderio, abate di Montecassino.
Trasmondo, per contrastare le ambizioni di Ugo, iniziò subito a realizzare il castello di Popoli, il monastero-fortezza di S. Benedetto in Perillis ed altre fortificazioni. Inoltre, per consolidare il suo prestigio vescovile, Trasmondo, nel 1075, cominciò a restaurare la Chiesa forse già intitolata a S. Pelino e, a protezione di questa, fondò il “Castrum de Pèntoma”, poi divenuto “Pentima“.
Fu tutto inutile; nel 1076, Ugo penetrò nei territori dell’abbazia e, incurante delle minacce di scomunica di Gregorio VII, piegò la resistenza dell’energico abate Trasmondo incarcerandolo e devastando il cenobio. Ovviamente, viste queste vicende, il Chronicon descrive un Ugo ben diverso da quello che appare dai documenti di San Bartolomeo: un ometto deforme, sfregiato nel volto da una lunga cicatrice obliqua, iracondo e violento, appassionato di stragi e stupri, ignorante e puzzolente
Per circa un ventennio l’abbazia subì i più umilianti arbitrii e le più capillari spoliazioni complice anche la mutata politica del papa, impegnato nella Lotta delle Investiture, che nel 1080 a Ceprano aveva raggiunto un accordo con i normanni per cui, pur di averne l’appoggio, aveva finito di avallarne l’operato.
La fortuna, però, girò dalla parte dei monaci: nel tentativo di congiungersi all’altra colonna dei Normanni, in marcia verso Avezzano, lungo la valle del Liri, l’esercito di Malmozzetto cinse d’assedio Prezza. Ma qui la sua epopea si fermò qui, in quanto i prezzani, con uno stratagemma, lo attirarono ad un convegno amoroso con la contessa Sansonesca, di cui si era invaghito, lo imprigionarno chiudendolo in una segreta e buttando la chiave.
La notizia fu celebrata dai monaci, tanto che Chronicon Casauriense indugiò sulla descrizione della cattura con dovizia di particolari paragonando la vicenda a quella di Sansone e Dalila o di Giuditta e Oloferne, e l’abbazia ricominciò a prosperare, grazie anche a una serie di abili abati.
Il primo fu l’abate Grimoaldo che nel 1097 incontrò papa Urbano II a Chieti, impegnato a raccogliere mercenari da spedire in aiuto ad Alessio Comneno, vicenda che, in maniera alquanto inaspettata per Papa e Basileus, si trasformò nella Prima Crociata.
Grimoaldo, dopo avere narrato a Papa tutte le peripezie subite dal cenobio ottenne come segno di potestà non lo scettro, ma l’anello e il pastorale; al di là dell’aspetto coreografico dell’incontro tramandatoci dal Chronicon Casauriense c’è dunque da registrare il passaggio dell’abbazia dal potere temporale a quello spirituale.
In più, l’abate decise di buttarsi nel business del pellegrinaggio, sfruttando il fatto che il monastero stava sulla strada che portava santuario di San Michele Arcangelo sul Garbano; ritirò fuori le reliquie di San Clemente, le piazzò all’interno dell’altare maggiore e, con l’occasione, organizzò un’opportuna festa.
L’arrivo dei pellegrini, portò parecchio soldini all’abbazia, così Grimoaldo ne approfittò per cominciare i grandi lavori di ristrutturazione: fece costruire sul lato settentrionale del monastero il palazzo abbaziale, facendolo riccamente decorare con pitture ispirate all’antico Testamento, e una serie di camere del tesoro, per custodire i preziosi dell’abbazia, tra cui una croce d’argento del peso di 15 libbre, un calice d’oro puro del peso di una libra per la celebrazione eucaristica nelle principali festività del calendario cristiano e un messale con la copertina esterna d’argento per le celebrazioni domenicali e festive.
L’opera di ricostruzione continuò anche con gli abati successivi; con Gisone nel 1113 viene edificata la sacrestia dove venivano conservati i tesori e i paramenti della Chiesa – in quegli anni era attivo anche un infirmatorium (ospedale) – apparendo sempre di più l’abbazia non solo realtà religiosa ma anche organizzata istituzione sociale. Al suo successore Oldrio si devono l’ampliamento delle abitazioni dei monaci e l’erezione della torre campanaria.
Ma è soprattutto con Leonate, consacrato abate da papa Adriano IV nel 1156, che l’abbazia conobbe il periodo di maggior splendore. L’elezione di Leonate, già accolto nel monastero da Oldrio come oblato, fu contrastata da Ruggero II e dai conti normanni di Manoppello per la loro politica di usurpazione e confisca delle terre della chiesa; viceversa permise a papa Adriano IV di controllare una regione vicina ai territori pontifici, rappresentando Leonate uno strumento della politica pontificia nei confronti del regno normanno in un periodo di grande tensione.
Ricomposte le liti con i conti di Manoppello, l’abbazia ritrovò di nuovo prestigio e potenza recuperando i beni temporali. Cardinale, monarca di uno stato con oltre trenta castelli Leonate profuse ogni sua energia nella ricostruzione della chiesa: dopo aver raccolto somme di denaro e chiamato le più abili maestranze cominciò dal 1176 a trasformarla con intenti monumentali; morì però nel 1182 prima di portare a termine la sua opera e venne sepolto nella parte destra della chiesa in un tumulo preparato precedentemente. A Leonate successe l’abate Gioele al quale si devono le porte di bronzo dorate divise in compartimenti nei quali si legge il nome dei castelli soggetti all’abbazia.
La decadenza di San Clemente fu dovuta all’imprevista e inaspettata concorrenza dei monasteri dei Cistercensi nella val Pescara, come la Badia di Casanova e l’abbazia di Santa Maria Arabona, che minarono sia il potere, sia le rendite dell’abbazia.L’abbazia divenne “commenda” di Santa Maria Arabona e di Casanova,secondo l’uso invalso da parte della Sede apostolica di affidare (commendare) i monasteri in difficoltà economiche o disciplinari a prelati o cardinali per risollevarne le sorti; ma la tentazione di usarne i proventi per i propri interessi invece che per la restaurazione della vita monastica è assai forte e quasi tutti i commendatari vi cedono.
Nel XIV secolo, dei possedimenti avuti non rimangono che l’isola di Casauria, Alanno, il castello di Valignano e Castelvecchio Monacisco. Anche le calamità naturali concorrono alla sua decadenza; nel 1349 un terremoto arrecò danni ingenti (si rompe fra l’altro la colonna originale del candelabro) mentre nel 1456 un altro sisma definito dal Baratta “il massimo dei massimi” provocò gravi guasti: l’opera di ricostruzione è riconducibile ad un abate della famiglia Sangro.
Una piccola ripresa si ebbe con l’abate commendario Giovanni Battista Branconio dell’Aquila, personaggio straordinario, orafo e protonotaro apostolico, amico di Leone X e di Raffaello Sanzio.
Fu inoltre custode dell’elefante Annone, donato a Leone X dal re Manuele I del Portogallo nel 1514 ed alloggiato nei giardini del Vaticano. L’esotico animale, proveniente dall’India, divenne oggetto di curiosità per tutta la città venendo ritratto da molti artisti ma morì prematuramente già nel 1516; Branconio dedicò ad Annone un epitaffio latino.
Nonostante si riempisse le tasche con le rendite di numerosi beni ecclesiastici, forse perché di origine abruzzese, tratto sempre con riguardo Casauria, tanto da pagarne i lavori di ristrutturazione e ampliamento.
Nel 1703 e nel 1706 il complesso fu ulteriormente danneggiato dai terremoti, senza che gli abati commendari si preoccupassero delle riparazioni; Antonio Ludovico Muratori nel 1726 si rammaricò di trovare la sede deserta, le antiche rendite dissipate, quelle che rimangono gestite dagli abati nel loro personale interesse. Con una sentenza dell’8 agosto 1775 si decretò l’abbazia di regio patronato: Don Francesco Caracciolo ne diventa primo abate.
Nel 1799 vi alloggiarono le truppe francesi comandate dal generale Ruscha che la spoliano derubando il braccio d’argento con la reliquia di S. Clemente e bruciandone l’artistica statua. Nel 1850 venne trasferita alla diocesi di Diano, in provincia di Salerno, appena costituita. Con regio decreto del 1859 la chiesa ed il locale annesso furono ceduti ai francescani, che ne vengono successivamente espulsi a seguito dell’Unità d’Italia nel 1865 in forza della legge di soppressione degli ordini monastici; il fabbricato venne quindi ceduto nel 1869 al comune di Castiglione a Casauria, in virtù della legge 7 luglio 1866. Poi gli eventi precipitano; lasciata dai monaci e ridotta a magazzino, stalla, ripostiglio.
Così la ricorda D’Annunzio
Più di dieci anni fa, nell’adolescenza lontana, vidi per la prima volta l’Abbazia di San Clemente a Casauria. Mi parve, al primo sguardo, una rovina. Tutto il suolo intorno era ingombro di macerie e di sterpi; frammenti di pietra scolpiti erano ammucchiati contro i pilastri; da tutte le fenditure pendevano erbe selvagge.La cosa bella rimaneva perduta in quella solitudine, pericolante, sotto una continua minaccia, condannata forse a sparire
Per fortuna lo storico locale Piero Luigi Calore si fece in quattro per recuperare e valorizzare l’abbazia, ma nessuno se lo sarebbe filato, se non l’avesse aiutato il Vato, che così ricorda l’amico
Questo piccolo uomo di Pescosansonesco è riuscito a raggiungere quel che nessuno di forse raggiungerà mai. Egli si è composto un sogno e lo abita. Egli ha acceso in se amore e lo va alimentando… Questo piccolo uomo dal gesto veemente ama una grande cosa morta, e l’ama con tutte le forze della passione umana…
Di conseguenza, l’abbazia fu dichiarata munumento nazionale nel 1894 e fu oggetto finalmente di restauro… Il Vate, per celebrare l’evento, citò l’abbazia nell’ultima revisione del Trionfo della Morte
E si ricordò dell’abbazia di San Clemente a Casauria, veduta in un giorno lontano dell’adolescenza e si ricordò di averla veduta in compagnia di Demetrio. Come tutti i ricordi legati all’immagine del consanguineo, anche quello era lucido e preciso quasi fosse del giorno innanzi. Bastò ch’egli gli raccogliesse per rivivere quell’ora, per risuscitare i fantasmi di tutte le sensazioni. – Scendevano, egli e Demetrio, giù per un tratturo verso l’abbazia che ancora gli alberi nascondevano. Una calma infinita era intorno, su i luoghi solitari e grandiosi, su quell’ampia via d’erbe e di pietre deserta, ineguale, come stampata d’orme gigantesche, tacita, la cui origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e sacre.
“Voglio condurti a un abbazia abbandonata, più solitaria del nostro Eremo, piena di memorie antichissime: dov’è un gran candelabro di marmo bianco, un fiore d’arte meraviglioso, creato da un artefice senza nome… Dritta su quel candelabro, in silenzio, tu illuminerai col tuo volto le meditazioni della mia anima.
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