Tornando a parlare di San Clemente a Casauria, entriamo assieme nella chiesa, con tre navate longitudinali, divise iette campate ogivali ed il transetto adornato di una sola abside semicircolare. La copertura, a capriata con mattoni dipinti a losanghe, originariamente doveva presentarsi nel transetto con volta a crociera sostenuta da pilastri polistili, in analogia ai modelli francesi, mentre era probabilmente a tetto nelle navate come consueto d’altronde negli edifici sacri del XII secolo.
Ci avviciniamo poi all’ambone, posto fra il terzo e quarto pilastro sulla destra della navata centrale, che rispettando la tradizione del Centro e del Sud Italia, è poggiato su quattro colonne, che hanno i capitelli adornati di palme (simbolo del martirio e della vita eterna), le quali dapprima chiuse (nel primo sulla destra) aprendosi gradualmente nei successivi in senso antiorario, simboleggiano l’animo del cristiano che si apre ascoltando le parole del predicatore.
Opera probabilmente di maestranze adunate da Leonate intorno al 1176; è logico infatti pensare che l’Abate chiamasse i maestri più in voga per l’esecuzione di varie opere (le decorazioni del portico e del portale, il ciborio primitivo) fra cui l’ambone che forse non era completato alla sua morte dal momento che il Chronicon non ne fa menzione, sulla scritta dedicatoria del lato prospiciente l’altare compare comunque il nome di un Fra Giacomo da Popoli non bene identificato.
E’ interessante ricordare come la realizzazione degli amboni nella nostra regione ha una cronologia ben precisa: dal 1132 (ambone di S. Maria in Cellis di Carsoli) al 1267 (ambone di S. Stefano di Corcumello). In questo arco di tempo la quantità e la validità artistica fanno della produzione degli amboni una peculiarità abruzzese, che di seguito influenzerà, tramite la mediazione normanna e sveva, anche le successive realizzazione toscane.
Inoltre, questi amboni sono frutto di un’unica bottega, detta di Guardiagrele, dal nome del paese d’origine degli scultori, dei maestri Nicodemo, Roberto e Ruggero, in cui non è collegabile Fra Giacomo, che reinterpreta, seconda i moduli della scultura borgognone, l’iconografia della tradizione locale.
Questo si nota soprattutto nelle decorazioni degli architravi: nella parte rivolta all’ingresso un tralcio di vite che parte dalla bocca di un drago, simbolo del paganesimo – l’ornamento decorativo che si sviluppa dalla bocca di un animale è molto frequente in Abruzzo – , mentre nella parte di fronte al candelabro una decorazione simile nasce da foglie disposte alle estremità. L’iscrizione che si dispiega sopra, che può essere accostata alle iscrizioni pugliesi del coro di S. Nicola di Bari o sul trono di Canosa, e quindi di ispirazione normanna, invita chi predica ad una regola di vita coerente con ciò che va enunciando.
Nel lato prospiciente l’ingresso tre plutei da cui spiccano tre grandi fiori ad altissimo rilievo, sormontati da alberelli: qui il rosone abruzzese può dirsi giunto al più alto grado decorativo. Nel lato di fronte al candelabro: al centro, sotto il leggio, un’aquila che poggia gliartigli su un libro che a sua volta poggia su un leone; nei plutei laterali due rosoni.Gli altri due simboli degli evangelisti (il bue e l’angelo) dovevano essere nella parte rivolta all’altare che è da ritenersi la più infelice: probabilmente un terremoto dovette danneggiare il terzo e il quarto lato dell’ambone, quando si fece il restauro trovarono posto in questo lato anche i frammenti caduti dal quarto.
Il ciborio d’altare è della metà del XV secolo, a forma quadrata, data dagli angoli trilobi poggianti su quattro colonne, è alleggerito in alto da una terminazione piramidale. Un’iscrizione incisa sul basamento, ricorda la presenza nella chiesa delle reliquie dei Santi Pietro e Paolo, oltre a quelle di San Clemente. Sul frontone del prospetto del ciborio, ci sono i simboli degli Evangelisti, due angeli al centro e la Madonna col Bambino, l’Angelo Gabriele, la Vergine Annunciata sono scolpiti nei lati dell’arco, la cui terminazione triloba è arricchita dal tralcio vegetale.
Sulla destra campeggiano due angeli che sorreggono lo scudo araldico; sul retro sono disposte le storie della fondazione dell’Abbazia, già scolpito sull’architrave del portale maggiore per alto, infine sulla facciata finale, c’è il rilievo che simboleggia il Peccato Carnale e quello Spirituale, scultura tarda, rifatta nei primi anni del Novecento.
Il candelabro per il cero pasquale si erge su una base a forma di ara con le teste di leone ai quattro spigoli (fine IV – inizio V sec.), probabilmente proveniente da un tempio pagano e qui reimpiegata. La colonna attuale (in pietra di Pescosansonesco) andò a sostituire quella originaria distrutta dal terremoto del 1349. Va datata invece intorno al 1240 la parte superiore che per il Bertaux non può essere anteriore ai capitelli dell’ambone di Prata d’Ansidonia; era comunque uso costante pensare all’erezione del candelabro solo quando l’ambone era terminato; in questo caso l’interruzione dei lavori con la morte di Leonate (1182) avrebbe rimandato molto più in là l’esecuzione.
Nella parte superiore del candelabro un capitello, che si compone secondo lo schema francese già visto in S. Giovanni in Venere di otto foglie ad uncino ripartite in due ordini a forma di bacca entro cui si sviluppa un ramoscello, sostiene un’edicola a due piani che doveva avere dodici colonnine: Serafino Ventura le ricordava ancora integre agli inizi del 1800, mentre nel 1853 rimanevano soltanto le sei del primo piano. I mosaici che adornavano sia l’abaco del capitello che i prismi esagonali delle lanterne paragonati a quelli di S. Pietro d’Alba Fucens hanno in realtà smalti poveri, coi toni del mattone e della terra grigia, in una sorta di reinterpretazione minimalista delle esperienze cosmatesche di Roma e del Sud Italia.
L’altare è costituito da un sarcofago paleocristiano (per Gavini e Calore è della fine del IV – inizio V sec. : Sotomayor lo data invece al 320 d. C.). Il fronte è diviso in cinque pannelli: quelli pari sono strigilati, presentano cioè una serie di scanalature ad andamento ondulato – motivo decorativo ricorrente nei monumenti funerari romani -; quelli dispari mostrano invece alcune figure (a sinistra forse S. Pietro fra le guardie, in quello centrale Gesù tra SS. Pietro e Paolo o – secondo altri – un orante fra due apostoli; in quello di destra una scena della Negazione – se sulla parte abrasa si ipotizza la presenza di un gallo – o, secondo Calore, Cristo che tenendo in mano un rotolo parla ad una figura maschile imberbe). Il recupero del sarcofago paleocristiano, di probabile origine romana, è tipico della cultura cassinense dell’epoca, con il porre la Chiesa come continuità, culmine e completamento della Classicità greco-romana.
Il sarcofago appoggiato al muro della navata sinistra fu portato nel 1931 in S. Clemente dalla chiesa madre di Castiglione a Casauria. E’ opera quattrocentesca che ha al centro del lato più lungo della cassa uno stemma araldico( forse dei Brancaccio). Vi è raffigurato, sdraiato con le mani ornate di un anello che reggono un libro, Berardo Napoleoni com’è dato leggere nell’ epigrafe in caratteri gotici che corre lungo i bordi del coperchio. Vescovo di Boiano dal 1364 al 1390 Berardo Napoleoni è ricordato nel 1364 come preposito della chiesa di Santa Maria del Colle in Pescocostanzo. Sarcofago, influenzato dalla scultura del Nord Italia, che mostra come l’Abruzzo, per la sua posizione di snodo geografico sull’Adriatico, fu precocemente convolto nel processo dell’elaborazione della scultura proto-umanista.
L’urna d’alabastro in cui probabilmente, dopo averle avvolte in un manto, l’imperatore Ludovico II pose nell’872 le ossa di S. Clemente “involvit totum Corpus in pretioso pallio. Deinde posuit in vasculo pretioso, quod ipse rex secum habebat factum de alabastro” (Chron. Cas. 18 v. – 19 r.).conteneva anche reliquie di S. Pietro e S. Paolo e fu rinvenuta nel 1104, vicino l’altare, dal cardinale Agostino mandato da papa Pasquale II a verificare se nell’abbazia fossero ancora custoditi i resti del Santo. Profanata e danneggiata nel 1799, quando le truppe francesi alloggiano nella chiesa devastandola, l’urna viene successivamente recuperata per caso da Pier Luigi Calore che pratica un foro nella parte posteriore dell’altare, durante i lavori di restauro terminati nel 1891. Gabriele D’Annunzio, tessendo le lodi dell’amico in un articolo su “Il Mattino” di Napoli del 1892 ricorda che il Calore
“ritrovò dentro un sarcofago cristiano la teca funeraria di marmo greco scolpita a fiorami nel sec. III dopo Cristo, la quale contenne il corpo di S. Clemente”.
Infine, la cripta è accessibile dal presbiterio, ed è la parte più antica del cenobio, usata per la custodia dei santi e degli abati. Ambiente a pianta centrale, scandito da nove navatelle longitudinali, per due trasversali, con el campate che hanno volta a crociera. Per la sua costruzione fu utilizzato materiale di spoglio, proveniente da edifici romani situati nei dintorni, dato che l’abbazia sorse presso il pagus di Interpromio, distrutto da un sisma, venendo usato per coprire la cripta di San Clemente. Tra il materiale più antico si distinguono 4 capitelli corinzi della parte absidale, la colonna miliare con l’iscrizione che ricorda gli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano per il restauro della via Claudia Nuova, iniziati nel 360-63 d.C.
E’ una cripta presbiteriale rialzata (come quella di S. Vincenzo a Milano e S. Marco a Venezia), per andare al presbiterio della chiesa bisogna infatti salire quattro gradini. Vi si accede da due scale poste alle estremità delle navate laterali; G.B. Pacichelli nel 1695 la ricordava colma “ di poco mondo terreno” cioè di cadaveri.
La cripta fu realizzata con tre altari, anche se oggi ne rimane uno, il centrale, nella parte sinistra una parte di intonaco rimane dipinta di colore rosso e verde, a motivi lineari, la presenza dei due recinti absidali, separati dall’intercapedine, ha generato dibattito tra gli studiosi per la datazione.
Gavini lo data al IX secolo, rifatto dall’abate Leonate, per via delle evidenti manomissioni e della grandezza sproporzionata delle forme rispetto all’ampiezza della cripta. La cripta in origine doveva essere più grande, ma poi sarebbe stata ristretta, secondo altri studiosi, per la presenza scoordinata degli archetti ogivali sulla parete destra.
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