Commerci tra Micenei e Sardegna

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E’ complesso parlare dei commerci tra Sardegna e mondo miceneo nell’età del Bronzo, per il fatto che, questo tema, negli ultimi decenni è passato dall’ambito della Storia a quello, assai più controverso e scivoloso, dell’Ideologia, connesso al recupero dell’Identità e dell’Orgoglio di un’isola troppo spesso marginalizzata e trascurata dai suoi dominatori.

Da una parte, vi sono coloro che Rubens D’Oriano definisce i profeti del fantarcheosardismo, ossia

un’assurda, e spesso ridicola, iper-esaltazione della Civiltà Nuragica, addirittura fantasiosamente osannata come madre e/o dominatrice ditutte le altre antiche civiltà euro-mediterranee, i cui seguaci tacciano di complottardo anti-sardista chi ne rilevi il cumulo di fantasie e, viceversa, osannano come bravo sardo chi più la spara grossa

Dall’altra i negazionisti a prescindere, che arrivano a sostenere, negando le evidenze archeologiche, che i popoli nuragici commerciassero con altri popoli, chiusi in uno splendido isolamento.

In realtà, anche se l’identità tra Sereden e popoli nuragici è problematica, tema che approfondirò in futuro, il commercio tra Ellade e Sardegna esplode nel Tardo Elladico IIIA. I mercanti micenei si avventurano sull’isola, per loro lontanissima, per due motivi.

Il primo è dovuto al fatto che le sue sue coste siano un importante punto di approdo della rotta commerciale verso l’Iberia meridionale, ricca di giacimenti metalliferi e terminale della lunga rotta marittima dello stagno, che univa le coste della Cornovaglia a quelle mediterranea.

Il secondo è legato alla volontà di affrancarsi dal monopolio cipriota del rame, sostituendolo con quello sardo, che veniva scambiato con beni di lusso, ad esempio, a nord di Cagliari, a Decimoputzu è stata ritrovata una piastra eburnea con la rappresentazione della testa di un guerriero con elmo a denti di cinghiale, con il vino di provenienza siciliana e con i profumi e gli unguenti prodotti nel Peloponneso, come testimoniato dai numerosi frammenti ceramici.

La diffusione in Sardegna di tali beni di importazione, tra l’altro, porta alla nascita, come nei territori della civiltà appenninica, a un artigianato di imitazione dei modelli e prodotti elladici. Questo contesto cambia notevolmente nel Tardo Elladico B, quando i commerci micenei si concentrano nell’Adriatico.

Per prima cosa, i mercanti micenei sono sostituiti da quelli cipriota, tanto che il rame dell’isola di Afrodite, nei suoi tipici lingotti a forma di pelle di bue, diventa una sorta di bene rifugio per i capi nuragici.

Poi, vi una sorta di immigrazione da parte di artigiani levantini, sia in ambito metallurgico, sia in quello ceramico, probabilmente organizzati in officine itineranti tra i vari stanziamenti sardi, che influenzano notevolmente le tecniche di produzione locali.

Infine, progressivamente, i sardi prendono il ruolo che avevano avuto i micenei nel Tirreno, fungendo prima da intermediari tra la coste iberiche e la Sicilia, poi inserendosi attivamente nei commerci dello stesso Mediterraneo orientale.

Le testimonianze di tale cambiamento, che avrà un ruolo fondamentale nell’evoluzione della civiltà nuragica, sono assai numerose. Il capovolgimento delle prospettive che nel passato dipingevano l’immagine di una Sardegna nuragica passivamente ricettiva di stimoli esterni, è iniziato concretamente negli anni Ottanta, con il rinvenimento di ceramica nuragica sull’Acropoli di Lipari, nelle isole Eolie.

In Sicilia, più di recente a Cannatello nell’Agrigentino ceramica nuragica del Bronzo Recente e del Bronzo Finale iniziale è stata rinvenuta insieme a ceramica egea, cretese e cipriota. Un’altra scoperta di grande importanza, pubblicata nel 1989, è stata quella della presenza della ceramica nuragica del Bronzo Recente nel sito portuale di Kommos, sulla costa centro-meridionale di Creta. Negli stessi anni è stata riconosciuta la fattura nuragica della brocchetta askoide trovata a Khaniale Tekkè, nella Creta centrale, nello stesso periodo in cui appaiono nella zona tracce della presenza di immigrati appenninici, che lavoravano come pastori a servizio dell’economia palaziale.

Rapporti, quelli tra Sardegna e Micenei, bidirezionali e che lasciano una traccia anche nella memoria storica dei greci classici, tanto che lo pseudo-Aristotele scrisse

Si dice che nell’isola di Sardegna si trovano edifici modellati secondo l’antica tradizione ellenica, e molti altri splendidi edifici, e delle costruzioni con volta a cupola con straordinario rapporto delle proporzioni. Si ritiene che queste opere siano state innalzate da Iolao figlio di Ificle nel tempo in cui, portando con sé i Tespiadi figli di Eracle, trasferì la colonia per condurla via dai loro luoghi di origine verso quelle contrade, poiché procurava queste per il parentado di Eracle, al quale qualunque terra fosse situata verso Occidente riteneva gli appartenesse…

San Nazaro in Brolo (Parte I)

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La mia prima dimora milanese, qualcuno se la ricorda ancora, era nelle vicinanze della basilica di Basilica di San Nazaro in Brolo, nei pressi di Porta Romana.

Anche se poco nota, è una delle chiese più antiche di Milano, espressione dello sforzo, anche urbanistico, del vescovo Ambrogio e dell’imperatore Graziano di affermare il primato del cristianesimo niceano nei confronti della versione ariana e del paganesimo, per incrementare, con il legame con Roma, la loro legittimità, spesso e volentieri contestata.

Se Graziano voleva proporsi come nuovo Costantino, colui che aveva rinnovato il mos maiorum, dandogli una veste cristiana, Ambrogio voleva proporsi come una diretta emanazione del vescovo romano.

Per prima, fu costruita, nell’ottica di ristrutturazione dell’antico decumano, la cosiddetta Via Porticata, che partiva dalla Porta Romana d’epoca romana e che terminava in direzione Placentia (la moderna Piacenza) con un arco trionfale, coincidendo con il nostro corso Lodi, corso Vercelli e corso di Porta Romana, mentre l’arco di trionfo si trovava all’altezza del moderno largo della Crocetta.

La via Porticata era lunga circa 600 metri, larga 9,30 metri compresi i marciapiedi, aveva il selciato lastricato con basoli ed era rialzata di 70 cm rispetto al terreno circostante per prevenire eventuali allagamenti dovuti alla presenza del fiume Seveso, che scorreva nelle sue vicinanze. Per superare il dislivello con le zone circostanti, furono probabilmente previsti, lungo i bordi del selciato della strada, dei fianchi che digradavano dolcemente verso le aree adiacenti alla strada, o forse venne realizzata una rampa di accesso in corrispondenza dell’arco di trionfo.

La via Porticata era affiancata da due portici con colonnato in pietra che correvano lungo tutta la lunghezza della strada da ambedue i lati. Sotto i portici erano presenti botteghe e negozi, che si trovavano in locali realizzati in laterizio ed essendo dedicati a merci di lusso, erano affrescati: nel complesso, i portici, erano quindi un grande mercato coperto. Sotto il selciato della via Porticata era presente una fognatura che raccoglieva i reflui provenienti dalle botteghe e dai negozi, nonché l’acqua piovana che cadeva sulla strada.

L’arco trionfale, che era rivestito in marmo bianco, dato che era soprannominato arco di Giano, era probabilmente a quattro fornici, ricordando nella forma, quello di Malborghetto, sempre nel tentativo di Graziano di ricollegarsi al modello costantiniano.

La via Porticata, quindi, svolgeva un importante ruolo simbolico, una sorta di passaggio di consegne tra la storica capitale dell’Impero e la città che gli era succeduta in Occidente. A questo, Ambrogio associò la costruzione di quattro nuove basiliche, disposte lungo i quattro punti cardinali, come a stringere in un abbraccio la città, che come le abitudine dell’epoca non furono dedicate a un santo specifico, ma alle loro ehm categorie professionali.

Furono così costruite una basilica per i profeti (dedicata poi a san Dionigi, della quale si conosce solo la localizzazione vicino ai Bastioni di Porta Venezia, dato che fu ridotta in dimensioni sul finire del 1500 per poi essere completamente demolita nel 1700), una per i martiri (martyrum), che in seguito ospitò le sue spoglie e divenne la basilica di Sant’Ambrogio), una per le vergini (futura basilica di San Simpliciano) ed una degli Apostoli, la nostra San Nazaro in Brolo, che sorse sull’area di un precedente necropoli frequentata dall’età medio imperiale, cristianizzata probabilmente dal IV secolo perché sede delle sepolture vescovili di Calimero e Castriciano.

Sempre nell’ottica di proporre Milano come Nuova Roma, la Basilica Apostolorum si rifaceva pari pari a quella voluta da Massenzio sulla via Appia, in cui vi era il sepolcro gentilizio degli Urani, la famiglia del padre di Ambrogio, in cui vi era sepolta una sua lontana parente Sotere, morta in odore di santità.

Di conseguenza, nel progetto originario, la basilica milanese era di tipo circiforme, con deambulatorio,una navata unica, delle stesse dimensioni di quella romana, con l’abside separata dal presbiterio da un triforio (fornice tripartito) per creare un sacello, altare al centro della navata, sulla quale si aprivano due mausolei parimenti separati dalla navata centrale da trifori; i mausolei equivalevano anche per dimensioni al mausoleo (singolo) della basilica romana.

Graziano, imitando anche in questo Massenzio e il ramo romano della famiglia di Costantino, pensiamo al Mausoleo di Sant’Elena o a quello di Santa Costanza, aveva ipotizzato di costruire il suo mausoleo circolare adiacente alla basilica: ma ahimè, la rivolta di Magno Massimo, che portò alla sua morte, ruppe le uova nel paniere a lui e ad Ambrogio.

Magno Massimo, che aveva tutt’altro che voglia di litigare con il vescovo di Milano e con il suo protettore Teodosio, permise ad Ambrogio di continuare con i suoi progetti edilizio, il quale, con un forte gesto politico, cambiò il progetto, non guardando più a Roma, ma alla Costantinopoli dove risiedeva colui che, in cuor suo, riteneva il vero imperatore, Teodosio.

Ispirata ai Santi Apostoli di Costantinopoli -progettata dallo stesso Costantino come suo mausoleo – San Nazario è forse il primo esempio in Occidente della pianta a croce, simile a quella coeva Martyrum di San Babila di Antiochia e nel Martyrum di San Giovanni a Efeso.

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Le dimensioni della struttura di San Nazaro in Brolo in Milano sono generose, una croce latina di 56 metri di lunghezza per 45,30 metri nel transetto, una larghezza di 14,20 metri ed un’altezza di 13,15 metri. Se l’abside era piana, nei bracci dei transetti, erano presente due esedre, probabilmente destinate a custodire delle sepolture. Il pavimento, invece, era realizzato in opus sectile, ancora parzialmente conservato nell’aula di destra. Inoltre si conserva la copertura di una tomba con cinque distici in greco. Detta tomba reca l’inizio -per tre righe- della traduzione in latino che si riferirebbe ad un medico egiziano, tale Dionigi, forse lo stesso personaggio citato in una lettera di sant’Agostino nel 428.

Al centro, nel punto di incontro degli assi della croce, era l’altare con le reliquie degli apostoli; il posizionamento dell’altare al centro dell’intersezione fra l’asse longitudinale e quello trasversale fa sospettare che vi fossero dei diaframmi, che dividessero la pianta in un vano centrale, dove i sacerdoti celebravano il rito, e i quattro bracci della Croce, in cui, a seconda del ceto, si disponevano i fedeli per assistere alla cerimonia. Di conseguenza, non si aveva una concezione assiale dello spazio, ma una centripeta e disaggregante.

La copertura era costituita da un tetto a doppio spiovente, di questi due ambienti uno era ad un livello inferiore a quello della navata e come questo a capriate lignee e con soffittatura piana. Resta ancora oscuro se a quell’epoca la chiesa fosse dotata di un atrio di collegamento tra la facciata e la via porticata a causa degli interventi edilizi effettuati in questo settore dall’età romanica sino a tempi anche molto recenti che non ne consentono la chiara definizione. L’ipotetica presenza di un legame fisico tra la basilica e la via monumentale è ancora oggi un argomento dibattuto e carico di interesse, per l’affinità con la posizione del S. Sepolcro e della strada colonnata a Gerusalemme.

Secondo il Martyrologium Hieronimianum (V sec.), la chiesa fu dotata di reliquie in due momenti distinti: i resti di Giovanni, Andrea e Tommaso un 9 maggio e quelli di Luca, Andrea, Giovanni, Severo e Eufemia un 27 novembre. In seguito, stando alla tradizione medievale nota da Landolfo Seniore, Simpliciano, un anziano e autorevole prete romano, destinato a succedere ad Ambrogio sulla cattedra vescovile di Milano, avrebbe portato da Roma le reliquie per contatto di Pietro e Paolo.

Ambrogio compose un inno dedicato agli apostoli Pietro e Paolo, che si cantò per la prima volta in occasione della festa dei due santi, il 29 giugno 386. Tra le strofe che sottolineano il primato del soglio di Pietro vi sono la 6°

“Hinc Roma celsum verticem/ devotionis extulit,/ fondata tali sanguine,/ et vate tanto nobilis. ”

e l’8°

“Prodire quis mundum putet, concorrere plebem poli, electa gentium caput, sedes magisteri gentium”

Secondo una tradizione arrivata fino ai nostri giorni, il vescovo con tutto il clero metropolitano, si portavano alla basilica Apostolorum al vespro del 28 giugno, considerato giorno di digiuno, e per la solenne funzione del giorno successivo. Dopo il vangelo della messa, il vescovo milanese teneva la sua omelia o ne concedeva l’onore a un ospite, come accadde con Gaudenzio, vescovo di Brescia e suo prestigioso suffraganeo.

Dal canto suo, Siricio ribadiva la missione del papa romano nella Chiesa:

“L’apostolo Pietro in persona sopravvive nel vescovo di Roma. Se il papa porta il peso di tutti coloro che hanno bisogno del suo appoggio, non dubito che il beato apostolo Pietro non porti con lui e in lui questo peso formidabile”

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Le reliquie furono custodite nella Capsella di San Nazaro sotto l’altare maggiore, ritrovata nel 1578 da San Carlo Borromeo. La capsella in argento è decorata con rilievi a sbalzo di altissima qualità, la cui iconografia è ancora in parte da chiarire: sul fronte è raffigurata la Madonna in trono col Bambino e due offerenti che porgono loro piatti vuoti. Sul lato destro c’è il Giudizio di Salomone, mentre sul lato opposto appare una scena di Giudizio variamente interpretata, come Giuseppe che giudica i suoi fratelli oppure come il Giudizio di due martiri romani, o ancora come Daniele che giudica i vecchi che hanno insidiato Susanna. Sull’ultimo lato sono raffigurati quattro giovani stanti, interpretati come i Tre ebrei nella fornace salvati dall’Angelo, oppure come i Magi condotti dall’Angelo lontano da Erode o ancora come i Pastori che ricevono l’annuncio della nascita di Gesù. Infine sul coperchio viene raffigurato Cristo in trono tra gli apostoli con ai piedi anfore e panieri a ricordo dei miracoli delle Nozze di Cana e della moltiplicazione dei pani, con esplicito riferimento al tema comune della rivelazione di Cristo.

Dopo la morte dell’imperatore Teodosio, avvenuta a Milano nel gennaio 395, tutte le conquiste che pensava di aver stabilizzato sembravano essere messe nuovamente in discussione per il fatto che l‘undicenne imperatore Onorio, figlio di Teodosio, era sotto la tutela del generale vandalo Stilicone. Unica sua alleata sembrò essere la moglie del generale e figlia adottiva di Teodosio, Serena; tuttavia la sua posizione era alquanto precaria, tanto che sembrava come la posizione della corte si stesse spostando rapidamente dal cristianesimo niceano a quello ariano.

Per bloccare tale pericolo, Ambrogio tirò fuori dal cilindro la scoperta delle presunte reliquie di San Nazaro, un romano di famiglia ebrea e legionario. Discepolo di Pietro, ricevette il battesimo dal futuro papa Lino. Per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani e forse inviato da Lino, lasciò Roma e si recò in alcune zone della Lombardia. Passò in particolare anche a Piacenza e a Milano, dove avrebbe incontrato in carcere i compagni di fede Gervasio e Protasio.

Successivamente iniziò l’evangelizzazione delle Gallie. Qui sarebbe stato affidato Celso, che aveva appena nove anni, da una matrona della Gallia. Celso ricevette dal maestro l’educazione alla fede cristiana e il battesimo. Insieme proseguirono nell’opera di diffusione della nuova fede, viaggiando per la Francia meridionale e arrivando a Treviri. Qui avrebbero subito numerose persecuzioni e sarebbero stati arrestati. Tuttavia Nazario, quale cittadino romano, non subì torture ma venne inviato a Roma per subire un regolare processo. Qui, al suo rifiuto di rinnegare la sua fede e sacrificare agli dèi romani, venne condannato a morte. Secondo altre fonti la condanna a morte venne decisa dal governatore di Ventimiglia. Ad ogni modo, insieme a Celso, venne imbarcato su una nave che doveva portarli al largo e gettarli in mare.

I due tuttavia scamparono alla morte a causa di un nubifragio. La leggenda vuole che, gettati in mare, presero a camminare sulle acque. Si scatenò allora una tempesta che terrorizzò i marinai, i quali chiesero aiuto a Nazario. Le acque si calmarono immediatamente. La nave sarebbe infine approdata a Genova, e qui Nazario e Celso proseguirono la loro opera evangelizzatrice in tutta la Liguria negli anni 66 e 67. Si spinsero poi fino a Milano, dove infine vennero arrestati e nuovamente condannati a morte dal prefetto Antolino. La sentenza fu eseguita per decapitazione nell’anno 76.

Così racconta il ritrovamente Paolino, biografo di Ambrogio, che avvenne il 28 luglio del 395, casualmente presso il cimitero di Porta Romana.

32.2. Esumato il corpo del santo martire Nazaro sepolto in un cimitero fuori della città, lo trasferì nella basilica degli Apostoli, che è a Porta Romana. 3. E noi vedemmo nel sepolcro, ove giaceva il corpo del martire – di cui fino ad oggi non possiamo sapere quando abbia compiuto la Passione -, il suo sangue ancora così fresco, quasi fosse stato versato in quello stesso giorno, ed anche il suo capo, ch’era stato reciso dagli empi, così integro e incorrotto con i capelli e la barba, da sembrarci lavato e composto nel sepolcro nel momento stesso in cui fu esumato. 4. E perché stupirsi, se il Signore aveva già promesso nel Vangelo che non un capello del loro capo andrà perduto? Ed anche fummo avvolti da tal profumo, che vinceva la soavità di tutti gli aromi.

33.1. Esumato il corpo del martire e compostolo in una lettiga, subito ci dirigemmo con il santo vescovo al luogo di sepoltura del santo martire Celso, nel medesimo cimitero, per farvi un’orazione. Sappiamo che egli non aveva mai pregato prima d’allora in quel posto; ma se il santo vescovo si fosse recato a pregare in un luogo dove non era mai stato per l’innanzi, ciò significava che gli era stato rivelato un martire. 2. Apprendemmo poi dai custodi di quel luogo che era stata data loro dai genitori e dagli avi tale consegna, di non abbandonare mai quel sito per tutta la loro generazione e progenie, perché vi erano riposti grandi tesori… 3. Traslato dunque il corpo del martire nella basilica degli Apostoli, dove il giorno avanti erano state deposte le reliquie degli Apostoli tra la più profonda devozione di tutti

Il successo propagandistico di tale scoperta fu tale, che il tentativo ariano di alzare la testa fu domato, tanto che Ambrogio, per celebrare il suo trionfo, Ambrogio stesso dettò un’epigrafe, la prima e l’unica composta dal vescovo per una sua basilica, la cui traduzione recita:

Ambrogio ha fondato il tempio e lo ha consacrato al Signore con il nome degli Apostoli e con il dono delle loro reliquie.

Il tempio ha la forma della croce, il tempio rappresenta la vittoria di Cristo: la sacra immagine trionfale contrassegna il luogo.

All’estremità del tempio è Nazaro dalla vita santa e il pavimento è nobilitato dalle spoglie del martire. Là dove la croce ha legato il sacro capo piegandosi a cerchio, qui è l’estremità del tempio e la dimora per Nazaro che, vincitore per la sua fede, gode per la pace eterna. Colui per il quale la croce fu palma di vittoria, nella croce è accolto

Ovviamente, oltre a una nuova consacrazione, l’arrivo delle nuove reliquie portò a una serie di lavori ristrutturazione. L’abside della chiesa da piatta, fu trasformata in tonda. Inoltre, all’inizio del 397 Serena volle fare un gesto di assoluta deferenza verso Ambrogio, offrendo i marmi libici per ornare l’abside centrale dove si trovava la cella memoriae contenente i resti del “martire” Nazaro. L’offerta appariva come ex voto per il ritorno del marito Stilicone dalla guerra contro Alarico. L’epigrafe con cui immortalava il suo voto è sfortunatamente persa, ma nota attraverso una trascrizione:

“Dove situati per cavo regresso sorgono i tetti
e della sacrata croce s’inflette a cerchio il capo
Nazaro di vita immacolata integro corpo è nascosto.
Esulta che questo sia del tumulo il luogo
Che il pio Ambrogio segnò con l’immagine di Cristo.
Con marmi libici Serena fiduciosa orna
Per gioire lieta del ritorno del coniuge Stilicone
Dei suoi fratelli e dei suoi figli”

Oltre che dai marmi donati da Serena l’edificio ambrosiano doveva forse essere impreziosito da un mosaico o una pittura absidale. Le epigrafi di fondazione sopra citate, potrebbero alludere ad una decorazione dell’abside paleocristiana, costituita da una croce iscritta in un cerchio, con forse al centro il volto di Cristo, secondo un’iconografia diffusa, riscontrata ad esempio nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna.

Particolari tipologie tombali, tra cui due tombe internamente intonacate e dipinte con soggetti figurati inquadrabili forse entro il secolo IV e dall’inizio almeno del V sec. numerose epigrafi, segnalano il prestigio di quest’area funeraria, che accoglie anche le sepolture dei vescovi Venerio (405), Marolo e Lazzaro (+ante 451) nel segno della continuità della tradizione apostolica.

Una nota serie di 13 epigrammi ennodiani sui vescovi di Milano da Ambrogio a Teodoro è stata associata a dei ritratti vescovili, visti in San Nazaro, seppur in maniera frammentaria, ancora da Andrea Alciato (XVI sec.). Si tratterebbe di un ciclo musivo o pittorico voluto da Lorenzo I, forse costituito da imagines clipeatae sui modelli romani di San Pietro e San Paolo fuori le mura e dell’episcopio di Ravenna.

Il piccolo Aventino

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Il buon Tito Livio racconta come nel 215 a.C. i due pretori urbani trasferissero i loro tribunali nei pressi del luogo dove il Senato si incontrava con i generali per discutere gli sviluppi della seconda guerra punica: Piscina Pubblica, che come è facile intuire dal nome, era un bacino artificiale, alimentato da una delle numerose sorgenti presenti nelle immediate vicinanze o tramite l’aqua Appia, il primo acquedotto fatto edificare da Appio Claudio Cieco.

Lo scopo della Piscina Publica non era solo ludico, dare la possibilità agli antichi romani di imparare a nuotare, ma anche industriale, dato che riforniva d’acqua le numerose manifatture tessili del piccolo Aventino, la cui esistenza è testimoniata dal Campus Lanatarium, la piazza sede del mercato dei panni e delle lane, gemello

Un riferimento di Festo indica che già nel II secolo d.C. la Piscina Publica non esistesse più, tuttavia, il luogo rimase a lungo nell’immaginario dell’Urbe.

Diede il nome al Vicus Piscinae Publicae era una strada dell’antica Roma che collegava l’angolo sudorientale del Circo Massimo alla Porta Raudusculana delle Mura Serviane, nell’avvallamento tra piccolo e grande Aventino.

Insomma, per capirci era l’equivalente antico del tratto iniziale del nostro viale Aventino, dato che la porta Raduscolana, oggi scomparsa, si ergeva all’altezza dell’incrocio con via San Saba. Porta, quella Raduscolana, il cui nome deriva dal latino arcaico raudus,rame o bronzo a dare retta a Varrone, che in De Lingua Latina scrissi

Deinde Rauduscula, quod aerata fuit. Aes raudus dictum; ex eo veteribus in mancipiis scriptum: Raudusculo libram ferito

Secondo Valerio Massimo, tale nome deriva un episodio leggendario che riporta alla gens Genucia, una delle più importanti e illustri famiglie plebee dell’Aventino, un ramo dei quali aveva anche il “cognomen” Aventiniensis, i cui rappresentanti hanno anche ricoperto, nel tempo, cariche pubbliche di un certo rilievo, almeno fino all’epoca delle guerre puniche, dopo le quali sembra non ci sia più alcuna traccia negli annali.

Livio cita dei Genucii tribuni nel 476 a.C., nel 474 a.C. e nel 473 a.C., un tribunus militum consulari protestate nel 399 a.C., dei consoli nel 365 a.C., 363 a.C. e 362 a.C. (il primo console plebeo fu eletto nel 366 a.C.) e un àugure nel 300 a.C.

Tornando al mito, Valerio Massimo racconto come che ad un certo Genucio Cipo, pretore, appena varcata la porta per uscire dalla città, capitasse uno di quei prodigi di cui si narra con una certa frequenza negli avvenimenti antichi: gli spuntarono un paio di corna sulla fronte. L’àugure prontamente intervenuto vaticinò che, non appena fosse rientrato in città, ne sarebbe divenuto re, e così fu che Genucio, convinto sostenitore dei principi repubblicani, preferì autoesiliarsi per il resto della vita, piuttosto che contravvenire alle sue convinzioni. Per questa fermezza e serietà nei confronti dello Stato gli fu tributato, tra l’altro, l’onore di un’effigie bronzea sulla porta, che assunse quindi quell’appellativo.

Meno romanzesca è la versione fornita da Varrone, che si limita a citare la presenza di una porta bronzea. Se devo dire la mia, è probabile come, ai tempi della ricostruzione delle mura Serviane in epoca repubblicana, che secondo il solito Livio furono costruite nel 378 a.C. dai censori Spurio Servilio Prisco e Quinto Clelio Siculo, utilizzando maestranze, o almeno gli architetti, provenienti in buona parte dall’alleata Siracusa di Dionisio il Vecchio, un esponente della gens Genucia probabilmente fu responsabile della direzione dei lavori in quella porzione dell’agger e magari pagò di tasca propria la porta bronzea. Il Senato per ringraziarlo, gli concesse l’onore di decorare il tutto con suo ritratto e con il tempo, questo fatto abbastanza banale fu assai romanzato.

Ora il Vicus Piscinae Publicae diede il noma alla dodicesima delle regioni amministrative con cui Augusto suddivise Roma. Dai Cataloghi Regionari del IV secolo, una sorta di Tuttocittà dell’epoca di Costantino, sappiamo come l’ampiezza della Regio Piscina Publica avesse un’ampiezza di 12.000 piedi romani, pari a circa 3.550 metri e di come vi fossero presenti 17 vici (l’equivalente), 17 aediculae (edicole), 2.487 insulae (definiamole condomini), 113 domus (case patrizie), 27 horrea (magazzini), 63 balnea (bagni), 81 laci (fontane)e 20 pistrina (panetterie).

L’area, sorvegliata da 2 curatores e da 48 vicomagistri, ebbe prima un carattere popolare, poi – a seguito dell’allontanamento del porto, trasferito ai nuovi impianti imperiali oltre Ostia – e servito da un ramo dell’acquedotto, fu ricercato per residenze di lusso.

Vi abitarono infatti il poeta Ennio, Cassio Longino, uno dei promotori della congiura contro Giulio Cesare, Cornificia, sorella dell’imperatore Marco Aurelio, lo storico Asinio Pollone, Celonia Fabia, sorella di Lucio Vero e Adriano.

Nella regio, oltre alle terme di Caracalla, spiccavano come monumenti le sette case dei Parti, un padiglione fatto costruire sempre da Caracalla, per mostrare al romano medio i trofei conquistati nelle campagne in Mesopotamia, il tempio di Bona Dea, la Grande Madre dei Latini, moglie e sorella del loro dio tribale Fauno, il santuario di Fortuna Mammosa, la dispensatrice di abbondanza, e quello di Iside Athenodoria, presso la chiesa dei SS. Nereo e Achilleo, tra le Terme di Caracalla ed il primo tratto dell’Appia. L’epiteto “Athenodoria” è un riferimento alla statua di culto, scolpita da Athenorodos di Rodi, l’autore del Laocoonte.

Statua, che a titolo di curiosità, fa capolino anche nel mio romanzo “Io, Druso”, un omaggio/seguito a De Bello Alieno di Davide del Popolo Riolo, che spero si di prossima pubblicazione.

Completamente abbandonata nel Medioevo, la regio XII divenne l’estrema periferia dell’Urbe, coltivata a vigne, dove erano presenti soltanto i conventi di Santa Balbina e di San Saba, del quale parlerò in un prossimo post.

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Ancora all’inizio del Novecento la chiesa e il monastero di San Saba erano ancora in aperta campagna, ma con il primo piano regolatore approvato dalla giunta Nathan nel 1909 la zona divenne una sorta di quartiere operaio satellite di Testaccio e vi venne edificata, tra il 1907 e il 1914, una città – giardino.

Il progetto era di Quadrio Pirani, architetto di Jesi poco noto ai più, che contribuì alla pianificazione Monte Sacro e concepì la Piccola Londra al Quartiere Flaminio , fautore di quei villini che Roma fa Schifo vorrebbe demolire e fare sostituire con casermoni di cemento, tanto amati dai palazzinari romani…

Il progetto del quartiere, poi Rione, denominato San Saba in onore di quel monastero, prevedeva la realizzazione su dieci lotti di villini bifamiliari con e palazzine alte quattro piani. Quadrio scelse di coprire le facciate esterne dei villini e delle palazzine con piccoli mattoni rossi per poter armonizzare le nuove architetture con quelle delle antiche chiese e delle Mura Aureliane, espressione nel concreto di una visione dell’architettura, che in vecchiaia, sintetizzò nella seguente frase

Ho sempre avuto a cuore i problemi sociali; e ho voluto costruire per il popolo, partendo però da basi solide. Ho edificato case economiche inquadrando questo aggettivo nel suo giusto significato; economia non significa risparmio sulla qualità. Economia significa rendimento, durata

La San Pietro di Fra Giocondo

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La commissione guidata da Giuliano da Sangallo fu alquanto rapida e drastica, nel decidere il destino della San Pietro costantiniana: le vecchie pareti erano irrecuperabili e il progetto di Rossellino che, in mancanza di alternative, a spizzichi e bocconi continuava a essere messo in pratica, nel 1505 le fondazioni e le murature del coro absidale erano alzate fino a un’altezza di 1,75 m circa, avrebbe forse peggiorato la situazione, scaricando sulle strutture del IV secolo il peso di un imponente massa muraria.

Per cui, per risolvere il problema alla radice, bisognava buttare tutto giù e ricostruire una nuova San Pietro. Giulio II, vedendo in questo la possibilità di soddisfare la sua smisurata ambizione, accettò la proposta e contattò per avere un primo progetto, un suo vecchio amico, Fra Giocondo, nome che a molti dice ben poco, ma che all’epoca era considerato un luminare dell’architettura.

Francescano, nato a Verona nel 1433, all’inizio della sua carriera, a tutto si dedicava, tranne che all’edilizia: era infatti un docente di lettere classiche, anche molto quotato, a sentire il suo allievo più famoso Giulio Cesare Scaligero, soldato di ventura, poeta, medico e naturalista, che a suo modo, sintetizzò nella vita tutte le contraddizioni del Rinascimento.

In quel periodo, Fra Giocondo si dedicò a due passatempi, che di fatto condizionarono il suo futuro. Il primo, fu la ricerca delle epigrafi latine, che lo portò progressivamente a interessarsi agli edifici che decoravano. Il secondo, la traduzione del De architectura di Vitruvio, cosa che lo rese grande conoscitore dell’architettura latina.

Attività che lo fece apprezzare dal cardinale Raffaele Riario, il quale, lo infilò nella commissione di espertoni a supporto di Andrea Bregno, assieme a Bramante. La sua conoscenza del De architectura e degli aspetti costruttivi degli edifici antichi doveva essere considerata preziosa per l’edificazione di un palazzo in cui si voleva dichiaratamente ricreare la più ammirata opera muraria romana, l’opus isodomum descritta da Vitruvio. In più, come epigrafista attivo da un ventennio, Fra Giocondo doveva avere già quelle capacità, nate con l’osservazione acuta di molte particolarità delle iscrizioni antiche e della loro collocazione nelle architetture.

Questo lo rendeva particolarmente qualificato nel progettare l’iscrizione con grandi caratteri che nel Palazzo della Cancelleria attraversa da un cantone all’altro tutta la facciata al di sopra del piano nobile.

In più, assai probabilmente, data la sua conoscenza di Vitruvio, suggerì l’introduzione degli ordini sovrapposti di paraste corinzie (M.Vitruvius per Iocundum…, c. 4v), dei colonnati dei portici sempre conclusi da pilastri angolari e soprattutto, delle finestre del piano nobile, le prime nell’architettura rinascimentale che riproducano un tipo antico pertinente, in quanto sono desunte dalle “finestre” dell’ordine superiore di porta Borsari a Verona, che solo un locale poteva conoscere.

Dal 1489 al 1493 fu a Napoli, al servizio di Alfonso Duca di Calabria e di Ferrante d’Aragona, come progettista di fortificazioni, in particolare quelle di Mola e a Gaeta, e in tale veste fu in contatto con Francesco di Giorgio Martini, per il quale eseguì i centoventi disegni che illustrano il suo trattato di architettura.

In più, doveva catalogare la collezione di statue antiche del Duca e improvvisarsi urbanista, concependo un grandioso piano di espansione e di riassetto di Napoli ispirato dagli ideali albertiani della città come luogo di elevata vita civile degli individui e della comunità che avrebbe rappresentato una prima applicazione pratica delle loro ricerche su Vitruvio.

Arrivato Carlo VIII, per non essere usato come bersaglio per le bombarde, Giocondo entrò al servizio del re francese. Per la sua fama di teorico dell’architettura, la Comunità di Parigi gli aveva assegnato una “provisione” di 160 lire annue per la sua collaborazione alla ricostruzione del ponte di Notre-Dame.

Il precedente ponte di legno era andato distrutto il 25 novembre 1499; e il 28 maggio 1500 si era posta la prima pietra di quello nuovo, che si era deciso di ricostruire di pietra. Esperti chiamati a consulto dalla Comunità di Parigi si riunivano, talvolta con frequenza settimanale, per discutere man mano, in assenza di un progetto definitivo e particolareggiato, le decisioni da prendere sul numero dei piloni e degli archi, sulle dimensioni e le forme di questi, degli speroni e delle rampe.

Fra Giocondo partecipò per la prima volta a una riunione il 6 luglio 1500 per decidere le dimensioni dei piloni e il profilo a tutto sesto degli archi, e fino al 6 novembre di quell’anno intervenne a diverse riunioni importanti, tra le tra le quali alcune sulle fondazioni dei piloni e una sull’altezza degli archi. Ricomparve il 25 novembre 1502, dopo due anni nei quali nulla era stato deliberato. Dopo un altro anno di assenza, nella riunione del 9 marzo 1504 presentò una relazione in latino esaminata il 28 dello stesso mese. Si decise allora di tendere funi al di sopra dei piloni per verificare le quote previste per i piani carrabili. Il 7 aprile dell’anno seguente si stipulò il contratto per la costruzione delle arcate, completate nel luglio 1507.

Nel frattempo, Fra Giocondo progettò un acquedotto munito di un doppio sifone costruito per fornire l’acqua, prelevata da uno stagno a quota inferiore, ai giardini del castello di Blois, posti in posizione elevata.

L’intensa attività non impedì a Fra Giocondo anche durante il soggiorno francese di dedicare parte del tempo agli studi, alla ricerca di iscrizioni e codici e ai dialoghi con altri letterati, tanto che scoprì alcune lettere mancanti dell’epistolario di Plinio il giovane a Traiano e il De prodigiis di Giulio Ossequente.

Negli ultimi mesi trascorsi in Francia, Fra Giocondo elaborò due progetti per architetture italiane: il veneziano Fondaco dei Tedeschi e la consulenza per San Pietro richiesta da Giulio II.

Giocondo_Fondaco

Per il Fondaco dei Tedeschi, che poi fu affrescato da Giorgione e da Tiziano, Fra Giocondo, ispirato dall’antico, concepì un cortile quadrato al modo di un vitruviano foro greco cinto da un quadruplice ordine di arcate su pilastri di altezza decrescente. Nell’impianto e nella struttura di portici e logge traspare una razionalità pari a quella dell’architettura gotica di cui Fra Giocondo, vivendo per un decennio al di là delle Alpi, doveva aver colto a pieno e apprezzato lo spirito. I pilastri a pianta quadrata ricordano invece molte architetture di Francesco di Giorgio, con cui il francescano aveva stretto una profonda amicizia.

Le basi dei pilastri, semplificate man mano che si sale da un ordine all’altro, appaiono affini a quelle ridotte al minimo, un plinto o una modanatura a quarto di cerchio, di alcune immagini del dorico presenti nella sua traduzione del De architectura.

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Per San Pietro, Fra Giocondo, che aveva conosciuto Giulio II ai tempi di Palazzo della Cancelleria, concepì un progetto alla basilica veneziana di San Marco, o meglio al suo archetipo, i Santi Apostoli, la basilica dove erano custodite le tombe dei basileus, rielaborando il motivo suo motivo spaziale fondamentale, ossia una cupola contornata da volte a botte di profondità ridotta, replicata cinque volte sull’asse longitudinale e tre su quello trasversale.

Il motivo di tale scelta era anche politico: a Roma dimoravano gli ultimi Paleologhi e un’architettura di questo era anche un richiamo alla necessità di scacciare i turchi da Bisanzio, aspirazione che era nata a Fra Giocondo dalla frequentazione del circolo del cardinal Bessarione.

Questo tema bizantino si combina con un altro motivo veneto, quello del coro con deambulatorio e cappelle radiali ad esempio presente nella basilica di Sant’Antonio da Padova. Questo elemento architettonico era assai noto a Fra Giocondo per varie ragioni: come francescano ne aveva apprezzato l’uso nelle chiese del suo Ordine nell’Italia settentrionale (le chiese di San Francesco a Bologna e a Piacenza), di certo aveva ritrovato questa soluzione a Napoli in chiese angioine come San Lorenzo Maggiore, e naturalmente ne aveva visto e apprezzato gli innumerevoli esempi francesi, a partire da Notre-Dame.

Nella proposta per San Pietro, la mentalità di ingegnere di Fra Giocondo si concentra per incrementare gli aspetti distributivi e funzionali della basilica, in modo da facilitare al massimo l’esecuzione delle cerimonie religiose; mentre l’esperienza del gotico traspare nella logica concatenazione delle strutture e nella proiezione sui fianchi e sulla fronte dell’articolazione dell’interno.

Tuttavia, Giulio II ne fu poco impressionato, per tre motivi: il primo, perché diciamola tutta, a differenza dei suoi predecessori, a tutto pensava, tranne che alla liberazione di Costantinopoli. Il secondo riguardava l’oggettiva difficoltà di riutilizzare quanto eretto, seguendo il progetto originale del Rossellino, mantenendo al contempo in piedi parte delle mura costantiniane, prossime al crollo. Infine, con il deambulatorio, per il Papa era difficile posizionare da qualche parte la nuova splendida ossessione, il suo mausoleo monumentale.

Nonostante questa mediocre accoglienza, il progetto di Fra Giocondo influenzò anche quelli successivi. Di certo influì sull’introduzione del deambulatorio in successive piante di Bramante; Antonio da Sangallo riprese un paio di volte l’alternanza di cupole e volte a botte sulla navata principale e questo motivo ispirò anche l’architettura dipinta da Raffaello nella Cacciata di Eliodoro.

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Terme di Caracalla

Avendo finito di visitare il Foro, siamo andati a vedere stamattina le rovine delle Terme di Caracalla che si trovano in città, cioè dentro la cinta delle mura. Abbiamo percorso tre quarti di lega, e durante l’ultima mezz’ora abbiamo camminato in oltrepassato il Campidoglio e il Colosseo, abbiamo seguito le rovine delle mura di Romolo, quindi abbiamo visto le rovine del Circo Massimo e siamo risaliti lungo le il rigagnolo dell’Acqua Crabra; infine siamo arrivati alle enormi mura di mattoni, meta del nostro viaggio.

Questi resti informi, notevoli soltanto per la grandiosità delle mura che restano in piedi, furono un tempo uno dei luoghi più lussuosi di Roma. C’erano in queste terme milleseicento sedili di marmo, simili a quello di porfido che si conserva al Louvre, e che fa venire in mente un aneddoto sull’elezione del papa.

Qui duemilatrecento persone potevano farsi il bagno contemporaneamente, e senza vedersi l’un l’altro; ogni cameretta era rivestita di marmi preziosi e ornata di bronzi dorati. Al nostro arrivo un povero disgraziato, un contadino consumato dalla febbre, ha messo un mozzicone di torcia in cima a una canna di dieci o dodici piedi, e ci ha condotti in un luogo oscuro, dove ci ha mostrato i ruderi della prima cinta di queste terme.

Sono cose utili a vedersi, perché possono servire come segno di un ricordo, ma non sono interessanti. Le mura immense di cui parlo formano quattro sale; la barbarie via; si distinguono soltanto le nicchie in cui erano le statue. Alcuni di noi si sono arrischiati a salire per una scala a chiocciola, su cui si vedono resti di mosaico; giunti in cima al muro, sono rimasti colpiti dall’estensione delle terme, in cui si trovava riunito insieme tutto ciò che può servire ai diversi esercizi ginnici, così necessari anche alle persone ricche prima dell’invenzione della polvere da sparo.

Non ci sono colonne in queste terme, e secondo me ciò toglie loro ogni espressione; per me sono come rovine orientali. Ma avevano qualcosa che gli antichi ammiravano molto: una grande volta poggiata su una griglia di bronzo, almeno per quel che si può comprendere leggendo il testo di Elio Spaziano.

Stendhal

La Collezione Paparella Treccia Devlet

I primi decenni della vita di Castellammare, rispetto a Pescara vecchia, non è che fossero così splendidi; l’economia era basata su un’agricoltura poco produttiva e mancavano totalmente infrastrutture come scuole, reti idriche ed ospedali

Le cose cambiarono il 16 maggio del 1863 quando, alla presenza del re d’Italia Vittorio Emanuele II, fu inaugurata la stazione ferroviaria sulla linea adriatica, che rese appetibile i terreni lungo la costa.

Di conseguenza, i latifondisti teramani si avvidero delle possibilità di sviluppo ed acquistarono a prezzi irrisori le relative aree, facendo tracciare strade (a spese del comune) e cominciando ad urbanizzare la zona. Intorno a questi primi insediamenti, per lo più aziende agricole legate al modello della masseria, in cui producevano essenzialmente olio, vino e liquirizia.

Le cose cambiarono con Leopoldo Muzii, personaggio controverso ma di grande carisma e peso decisionale, il quale da sindaco fece approvare nel 1882 il primo “Piano regolatore di ampliamento”, che prevedeva la divisione della città in tre aree: una a vocazione commerciale in direzione sud, tra la stazione ed il fiume, una amministrativa in direzione opposta, tra la stazione ed il Municipio, ed una residenziale a nord del Municipio.

Da buon politico italiano, Muzii aveva pensato il Piano Regolatore molto pro domo sua: infatti l’asse di sviluppo della cittadina non era diretto verso Pescara Vecchia, ma a Nord, verso Montesilvano, dove sorgeva la sua piantagione e fabbrica di liquirizia, nell’odierna zona di via del Milite ignoto.

Decisione che provocò molte polemiche, all’epoca, ma che ebbe un’inaspettato effetto collaterale: la colonizzazione della fascia costiera, tramite la costruzione di un nuovo acquedotto, di nuove strade alberate, la creazione delle prime linee di illuminazione pubblica e la sistemazione, inizialmente in strutture precarie ed inadeguate, dei primi edifici scolastici.

Colonizzazione che, fin da subito, portò all’inaspettata crescita turistica dell’area. Nel 1883 si creò il primo caffè concerto per dilettare i villeggianti e dare un luogo centrale di ritrovo, nel frattempo si dava avvio alla stagione balneare sulla riviera, con la costruzione dei primi stabilimenti e dei casotti.

Tale boom turistico rese Castellammare molto più prospero e abitato di Pescara vecchia (i dati del censimento del 1921 che riportano 16.031 residenti a Castellammare Adriatico e 9630 a Pescara) e una delle capitali del liberty italiano. Patrimonio edilizio parzialmente distrutto durante la seconda guerra mondiale, che forse meriterebbe d’essere meglio valorizzato, di cui fa parte Villa Urania, costruita nel 1896 per volontà del barone Giandomenico Treccia e della consorte Urania Valentini, originari di Loreto Aprutino, quale villino al mare. Il fabbricato fu progettato dall’ingegnere Francesco Selecchy, il quale concepì un edificio, costruito su due piani, con un blocco con pronao in antis a quattro colonne e terrazza sovrastante collocata al centro della facciata principale.

Orizzontalmente la superficie è percorsa da una fascia modanata all’altezza dei davanzali e una decorata con un motivo di onde e dentelli all’altezza dell’imposta degli archi e delle aperture. L’alta trabeazione è caratterizzata dalla presenza di dentelli nella cornice e di triglifi nel fregio. Si accede al loggiato da piccole gradinate laterali, mentre sulla facciata lo spazio tra i plinti è occupato da balaustre. L’architrave è decorato nel fregio con un motivo a nastri e fiori, mentre il timpano presenta un rosone cieco costituito da un grande fiore e una cornice modanata con perle decorative, ed è sormontato da un acroterio a forma di conchiglia sorretta da spirali e foglie.

Al suo interno, è custodita la Collezione Paparella Treccia Devlet, frutto di 40 anni di ricerca e di studi del Professore Raffaele Paparella Treccia, luminare dell’ortopedia che ha donato la collezione e la villa ad una fondazione intitolata a lui e a sua moglie Margherita Devlet. La raccolta è composta da 151 selezionati capolavori della maiolica artistica di Castelli, ordinati secondo un criterio cronologico, opera dei maggiori maestri castellani attivi tra il XVI e il XIX secolo, i Pompei, che interpretano in maniera autonoma i canoni tardocinquecenteschi dello stile compendiario; i Grue che lasciano invece esplodere le fantasmagorie di forme e racconti del Barocco; il Fuina, che adatta le sue maioliche ai leziosi eccessi della pittura rococò del Settecento.

La decorazione delle ceramiche documenta il passaggio dallo stile “compendiario”, caratterizzato da un’essenzialità di elementi, a quello “istoriato”, in cui ricorrono scene allegoriche, mitologiche, venatorie e belliche. Tra le opere di maggior pregio si segnalano la più completa testimonianza di un servito alle armi di età barocca, costituito da 19 esemplari con lo stemma del committente, eseguito nella bottega di Francesco Grue e famosi lavori di Carlo Antonio Grue, tra i quali il più antico esemplare castellano di zuppiera, e due pregevoli vasi da consolle prodotti per l’Imperatore Leopoldo I d’Austria, successivamente passati ai Savoia, che Paparella Treccia comprò da Umberto II di Savoia.

Il Museo conserva anche prestigiosi dipinti ad olio, tra cui una Natività quattrocentesca, un autoritratto datato 1711 di Pietro Santi Bambocci e un acquerello su carta di Pio Joris, artista romano, del 1800

Il convento dei Teatini a Palermo

Come accennato in passato, la chiesa di San Giuseppe dei Teatini a Palermo era parte di un complesso assai più ampio: il tutto per merito di Padre Tommaso Guevara, primo preposto della Casa sulla “strada nuova”, non solo aveva stipulato l’accordo con la Confraternita dei Falegnami per l’uso della Casa e della Chiesa di San Giuseppe (ex Chiesa di S. Elia a Porta Giudaica, ubicata da Mongitore “nel luogo sopra cui è il corridore e libreria de’ Padri”), ma era riuscito a convincere il Senato cittadino a fornire all’ordine religioso la concessione di quella, che in teoria, sarebbe dovuta essere una pubblica strada, l’attuale via G. D’Alessi.

Da quel momento in poi, grazie alla donazioni dei nobili palermitani, i Teatini cominciarono a comprare tutte le case della zona, le fonti citano quelle di Don Mariano, di Don Paolo Di Bologna e di altri– delle quali rimane un muro medievale ed una bifora trecentesca – e collegandole con due passaggi in quota sulla via (presenti nelle piante di Palermo del 1702, 1726 e del 1760) i Teatini cominciarono ad allargare il loro convento, cosa che provocò le ire dei gesuiti, che non volevano concorrenti nei pressi della loro Casa Professa.

Così, i seguaci di Sant’Ignazio, per moderare la propensione alla speculazione edilizia dei vicini, provarono a far loro causa, in pratica una delle case comprate era per una quota parte dei gesuiti e i teatini, consapevolmente o no, avevano dimenticato di pagarli.

Così, se già il 25 agosto 1603 con una solenne processione i Teatini avevano trasportato dalla Chiesa della Catena il SS. Sacramento dell’Eucaristia nella Chiesa di S. Elia dei Falegnami, che in base all’impegno assunto dai Teatini avrebbe dovuto essere ristrutturata in Oratorio intitolato a S. Giuseppe, in uso al tempo stesso della Confraternita, fu solo dopo la conclusione della vicenda giudiziaria, vinta dai gesuiti, che il progetto dei Teatini della sistemazione del Convento nell’area potè realizzarsi.

A partire dal 1612 erano però iniziati altri lavori relativi ad una nuova possente struttura, la Chiesa di S. Giuseppe ai Quattro Canti, che avrebbe dovuto essere unita al Convento dai due archi in via G. D’Alessi. Nella descrizione del Mongitore della prima metà del Settecento il Chiostro quadrato appariva sostenuto da colonne di marmo bigio con archi. Nel mezzo era stato realizzato un giardinetto con alberi, fontanella al centro e nei muri sotto gli archi figuravano i ritratti dei Padri

“…in santità, dottrina e dignità usciti da questa casa… Nella parte superiore verso il mezzo si ha la Libraria, così vasta e copiosa di vari libri, che non cede a qualsivoglia altra di questa città”.

Il progetto del convento fu affidato al solito Giacomo Besio, impegnato anche nella vicina chiesa, che affidò la direzione dei lavori a Giovanni Macolino; così dal 1619 al 1640, si lavorò al livellamento del piano del Chiostro ponendo in opera colonne, capitelli “dalla perriera di Bellieme” e pilastri “dalla perriera di Montepellegrino”.

Tutto sarebbe proseguito tranquillo, se a Palermo non vi si fosse verificata una vicenda alquanto bislacca, legata alla nascita della sua Università. Infatti già cinque secoli prima, nel 1312, la Universitas civium di Palermo, ossia l’amministrazione civile, aveva “umilmente supplicato” il sovrano del tempo, Federico III d’Aragona, di fondare nella città per grazia speciale uno studio per l’insegnamento del Diritto, della Medicina e delle altre scienze e arti liberali, per porre fine alle “trasferte” dei palermitani costretti a raggiungere le lontane università della penisola per potere conseguire le lauree necessarie all’esercizio delle professioni più prestigiose. Il sovrano, temendo di accentuare sia litigiosità, sia le tendenze separatiste della nobiltà locale.

Nel Quattrocento, però, esistevano a Palermo lo Studio francescano dove si insegnavano Teologia, Sacra Scrittura, Diritto canonico e Filosofia, e quello domenicano che nel 1456 fu elevato a Studio generale: i suoi corsi, frequentati anche dai laici e riconosciuti validi ai fini del conseguimento della laurea all’Università di Catania, nel Cinquecento furono potenziati: a insegnare Filosofia c’era Tommaso Fazello, storico siciliano, che ne fu pure rettore, a insegnare Medicina fu chiamato il celebre Gianfilippo Ingrassia, grande anatomista dell’epoca, con lo stipendio di cento onze l’anno.

Soldi, detto fra noi, ben spesi: grazie ai suoi consigli, la peste del 1576, fu circoscritte ed ebbe un numero relativamente ridotto di vittime. Tra l’altro nella relazione sull’epidemia, Ingrassia fu tra i primi a intuire come il contagio della peste fosse dovuto a qualche essere vivente di infima dimensione, invisibile agli occhi, che non conoscendo il nome di batterio, definì pricipia seminalia.

Ma le due realtà esistenti dei francescani e dei domenicani dovettero fare i conti con i successi del collegio gesuitico che inaugurò il suo primo anno accademico nel 1550, offrendo insegnamenti gratuiti di Grammatica latina, Dialettica, Fisica, Metafisica, Filosofia e Teologia. Ottenuta nel 1552 dall’imperatore Carlo V la badia di Santa Maria La Grotta (attuale Casa Professa), i gesuiti realizzarono in tempi rapidissimi una nuova sede per lo Studio, l’imponente Collegio Massimo, attuale sede della Biblioteca regionale, che alla fine del Cinquecento, quando fu completato, risultò secondo soltanto a quello di Monaco di Baviera. Allo Studio dei gesuiti il Papa concesse di rilasciare la laurea in Filosofia e Teologia.

Nel corso del 1600, l’istituzione di uno Studio generale a Palermo fu più volte vicinissimo, ma questo progetto fu ostacolato dalla netta opposizione delle Università di Messina e Catania, ora da vicende interne. Soppressa subito dopo la rivolta del 1674-1678 l’Università di Messina, Palermo non riuscì a sostituirla come secondo ateneo siciliano: anzi i privilegi dell’Università di Catania furono rafforzati, con l’obbligo di seguire nella città etnea i corsi per il conseguimento della laurea in Medicina. A Palermo, quindi, a parte le materie insegnate nel Collegio gesuitico per il conseguimento delle lauree in Teologia e Filosofia, l’insegnamento universitario continuò a praticarsi in forme alternative a livello privato.

Una nuova pagina si aprì il primo dicembre 1767, quando la Compagnia di Gesù fu espulsa dai regni borbonici di Napoli e di Sicilia e tutti i suoi beni, compresi le biblioteche e le raccolte antiquarie, incamerati. Il 31 luglio 1778, infatti, il re creò una “Deputazione de’ Regi studi di Sicilia”, alla quale affidò il compito di riorganizzare in Palermo l’Accademia degli studi, il convitto dei nobili e la libreria già istituiti dai Gesuiti nell’ex Collegio Massimo. I membri più rappresentativi erano il filogiansenista Salvatore Ventimiglia, arcivescovo di Nicodemia; il massone Alfonso Airoldi, arcivescovo di Eraclea; l’archeologo e numismatico Gabriele Lancellotto Castelli, principe di Torremuzza. Il 14 maggio 1779 il re approvò l’ordinamento dell’Accademia degli studi, articolato su venti cattedre. L’ordinamento si caratterizzò per il fatto che si introdussero accanto agli insegnamenti “di parole”, gli insegnamenti “di cose” quali la geometria, l’economia, l’agricoltura e il commercio. L’Accademia era, in embrione, la futura Università. Il 5 aprile 1781 l’Accademia di Palermo fu autorizzata a rilasciare lauree in Filosofia e Teologia, mentre per quelle in Diritto civile, Canonico e Medicina, gli studenti dovevano recarsi a sostenere l’esame all’Università di Catania.

Il 22 agosto 1805 il re Ferdinando III approvò la proposta della Deputazione degli studi di Sicilia di trasformare l’Accademia in Università. Il 3 settembre 1805 un dispaccio reale comunicò che la regia Maestà si era “degnata di erigere ad Università di Studi” l’Accademia palermitana. Nella decisione del re avrà pesato, probabilmente, l’ospitalità concessagli dalla città di Palermo pochi anni prima, nel 1799, quando tutta la Corte era fuggita da Napoli in rivolta e si era insediata a Palazzo dei Normanni (allora sede del Tribunale), costringendo il Tribunale a trasferirsi nelle ex prigioni dell’Inquisizione abolita pochi anni prima, nel complesso monumentale dello Steri. Il 12 gennaio 1806 Ferdinando firmò la cedola reale (decreto) che conteneva il provvedimento di istituzione dell’Università di Palermo.

Intanto, però, nel 1804 i gesuiti erano ritornati in Sicilia, ottenendo la restituzione del Collegio Massimo: per cui, la nuova e tanto sudata Università aveva bisogno di una nuova e adeguata sede: l’unico spazio altrettanto grande del Collegio Massimo era il convento dei Teatini, che furono così sfrattati e riportati al vecchio convento di Santa Maria della Catena, ora sede dell’Archivio di Stato.

Ovviamente, questo cambio di destinazione d’uso portò a una serie di lavori di ristrutturazione. Agli inizi dell’Ottocento, all’antico ingresso da via Università, forse corrispondente ad una porta e ad una torre delle antiche fortificazioni, era stato sostituito un accesso al centro dell’ampio cortile con colonne ed archi su tutti e quattro i lati. A destra, nei due vani attualmente occupati dalla Segreteria didattica – un tempo Istituto di Diritto Romano – vi erano le stanze dei prefetti che assicuravano l’ordine nell’edificio e, in un primo tempo, del Rettore. A sinistra dell’ingresso centrale nel portico, la prima stanza – originaria sede dell’Istituto di Diritto Romano ed attuale Biblioteca Ottavio Ziino – era quella del Rettore; subito dopo si presentava l’antica portineria con l’originaria scala utilizzata dai religiosi per salire agli appartamenti superiori. Al piano terra erano “numero cinque scuole (aule) dalla parte della Rua delli Formaggi” (oggi via dell’Università).

Nei locali dell’attuale biblioteca della Facoltà e del Circolo Sampolo, venne ubicata la Scuola del Nudo con ingresso autonomo dalla Rua Formaggi, ritrovato in occasione del restauro della pavimentazione del Circolo Giuridico. Al piano superiore, si trovava una stanza di quadri che costituiva il vestibolo del Museo delle statue, delle monete e di altri oggetti di antichità, l’attuale Aula Magna, che, avendo il soffitto ribassato, presentava al piano superiore la Galleria dei Quadri e delle Antichità.

Al primo piano a sinistra, nell’attuale sito del Dipartimento di Storia del Diritto, dovevano trovarsi celle, cucina e refettorio, poi vi fu ubicata la Reale Stamperia, che constava di una stanza per il Direttore, di un vestibolo, di un ripostiglio e di dieci vani. Nel 1816, in seguito al trasferimento della Reale Stamperia, tali ambienti, come quelli del piano superiore, tornarono ad essere occupati dai Teatini fino al 1834. Il corridoio dal lato opposto, l’attuale Dipartimento di Diritto privato fu a lungo deposito di modelli in gesso, disegni e stampe.

Al primo piano a destra fu quindi trasferito dal piano terreno l’appartamento del Rettore (attuale sede della Presidenza della Facoltà di Giurisprudenza), prima di un ulteriore e temporaneo trasloco al piano superiore, nell’attuale corridoio e stanze d’ingresso del Dipartimento di Diritto Pubblico.

Al secondo piano, oltre alla Libreria dei Padri con volta ornata di pitture, era dunque ubicata la Quadreria “ove erano disposti e quadri, e rami lasciati a questa Università dal benemerito Don Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte”, che veniva utilizzata la domenica come Oratorio per la gioventù e sala delle gran funzioni. In questo stesso piano era ubicato il Gabinetto anatomico in cera, il Museo di storia naturale, che conservava anche reperti archeologici ed epigrafici, la sala degli esperimenti ed il laboratorio chimico, il Gabinetto delle macchine di Fisica sperimentale, fatte venire espressamente dall’Inghilterra nell’Ottocento. Un “macchinista inglese” aveva addirittura abitazione ed officina nel secondo cortile, un tempo orto dei Padri con alberi d’arancio, prima delle modifiche per la costruzione dello scalone d’accesso e della definitiva ristrutturazione dell’Aula Magna, iniziata nel 1824 e completata nel 1934 con una loggia a tre arcate su richiesta del Senato Accademico “a maggior decoro” dell’Aula ad opera di Ottavio Zanca, che probabilmente riprendeva un progetto di Venanzio Marvuglia interrotto nel 1811 per la vicenda dell’“arco scemo” e le polemiche conseguenti.

Dagli anni ’50 rettorato e diverse facoltà si trasferirono e il palazzo restò solo sede della facoltà di Giurisprudenza e scienze politiche. Nel 1997, furono effettuati i lavori di restauro del prospetto centrale dell’Università, che hanno portato al recupero dell’antica monumentalità dell’ex convento.

Il Commercio Miceneo nel Mediterraneo (Parte V)

Un fenomeno analogo a quello che si verifica nell’Italia peninsulare della tarda età del Bronzo, si sviluppa in Sicilia: da una parte, il commercio con l’Egeo si incrementa, dall’altra, avviene una progressiva ristrutturazione delle reti commerciali.

In particolare, al modello a rizoma, tanti piccoli e numerosi hub di scambio distribuiti sul territorio, villaggi ciascuno di poche decine di capanne, siti generalmente su alture o su dossi poco elevati, con un’economia basata sull’agricoltura, la pastorizia e l’allevamento del bestiame o sullo sfruttamento di risorse artigianali come l’estrazione della selce e la lavorazione della pietra lavica, che scambiavano le materie prime locali con i mercanti micenei, che caratterizzava la cultura di Pantalica, si sostituisce una rete gerarchica, con pochi siti costieri, che fungono da port of trade, zone di frontiera poliglotte, in cui le élite locali monopolizzano il contatto con i le comunità di mercanti stranieri e rafforzano il loro status imitandone la culturali, a chi fanno riferimento e che monopolizzano la circolazione dei beni di prestigio di importazione e di imitazione.

A questi port of trade, fanno riferimento una serie di nodi secondari, posti lunghi le principali vie di comunicazioni siciliane, che fungono da gateway community, ossia da porte di ingressoverso il mercato interno.

I principali di questi port of trade sono Cannatello, Magnisi fra Siracusa e e Augusta, Ortigia di Siracusa, Ognina e il più noto di tutti, Thapsos, la cui penisola, lunga circa 2 km, larga m. 700, collegata alla terraferma da un sottile istmo sabbioso, è dotata di un’area pianeggiante alla radice dell’istmo, mentre tutto il resto della sua superficie è interessata da estesi affioramenti rocciosi che danno luogo a lievi ondulazioni e aventi la massima elevazione nella zona centrale di tutta la sua area (20 m.s.l.m.).

Thapsos è una “penisola che si protende in mare con uno stretto istmo e dista poco dalla città di Siracusa sia per mare che per terra”: così Tucidide (VI,97,1) ne presenta in maniera sintetica ed efficace i connotati fisici che erano rimasti inalterati fino agli anni ’50 del secolo passato, quando un infelice impianto industriale alterò la zona dell’istmo.

Thapsos è ricordata ancora da Tucidide quando dice che vi si fermarono per sei mesi quei coloni greci ai quali il re Hyblon concesse l’area su cui fondarono Megara Hyblaea. A Thapsos i coloni megaresi persero il loro capo, l’ecista Lamis. Tucidide ricorda ancora come gli Ateniesi, al tempo della guerra contro Siracusa, occuparono la penisola fortificandone l’istmo con una palizzata mentre la flotta sostava nei due piccoli porti prima di manovrare verso Siracusa. Altre menzioni di Thapsos sono in Virgilio, Ovidio, Silio Italico e Stefano di Bisanzio.

Il sito è stato studiato nel 1880 da Saverio Cavallari prima e Paolo Orsi poi, Giuseppe Voza e Luigi Bernabò Brea negli anni Settanta del Novecento; studi che hanno evidenziato come la sua cultura, possa considerarsi come un’evoluzione, con l’economia riorganizzata in funzione del commercio con l’Egeo, della precedente cultura di Castelluccio.

Thapsos non era solo un luogo in cui si esportavano le materie prime della Sicilia, in cui stazionavano, più o meno stabilmente, mercanti micenei e ciprioti, che oltre per l’interscambio con i locali, la usavano come tappa per le rotte commerciali per il Nord Africa, in cui effettuavano il commercio muto con le tribù berbere, ma anche il fulcro di una rete commerciale parallela, in cui convergevano le esportazioni da Malta, dalle comunità tirreniche della Cultura Appennica, che si era trovate spiazzate dal mutamento delle rotte di scambio con l’Ellade, e il vino e l’ossidiana proveniente dalle Eolie, in cui si era sviluppata la cultura del Milazzese.

Cultura, quella delle Eolie, dove, come a Vivara, per rispondere alle esigenze commerciali, si sviluppò una protoscrittura, dove, i suoi caratteri, usati come una sorta di marchio di fabbrica o dell’equivalente del nostro Made in, sembrano essere derivati dalla Lineare A.

Thapsos, oltre al ruolo commerciale, era anche un centro industriale di primaria importanza, per la Sicilia dell’epoca, in cui esisteva un quartiere di ceramisti, che producevano ceramiche di imitazione micenea e uno di bronzisti, dedicati anche alla forgiatura di spade, che sembrerebbero avere svolto, più che un ruolo di militare, quello di status symbol.

In pratica, i capi siciliani dell’epoca, per mostrare la loro ricchezza e i loro legami con il gran re d’oltre mare, indossavano un’imitazione della panoplia micenea, pure non avendo nessuna intenzione di utilizzarla in battaglia.

Questa vocazione commerciale è testimoniata dalla costruzione la costruzione di due complessi, A e B ad impianto rettilineo, struttura pluricellulare e cortile acciottolato, che non hanno confronti nell’ambito ambito siciliano o peninsulare dell’epoca. La complessa planimetria dei due impianti presuppone interventi di maestranze straniere.

Impianti che svolgevano, in piccolo, un ruolo analogo a quello dei megaron micenei: vi erano magazzini, manifatture, aree che possono essere considerate come cucine comuni, spazi sacri e di rappresentanza, in cui si svolgevano riti, accompagnati da libagioni. I complessi A e B di Thapsos manifestano una nuova esigenza nell’ambito della comunità, quella di articolare spazi con funzioni diverse in un unico complesso abitativo

Strutture che si possono leggere secondo due chiavi diverse, non necessariamente autoescludenti: la prima, secondo il modello minoico e miceneo, di un tentativo di accentrare le modalità di produzione, passando dall’ambito domestico a quello specialistico, dove le élite, oltre a celebrare il loro potere con riti ispirati a quelli elladici, forse di ispirazione sciamanica, in cui, tramite l’ebbrezza provocata dal vino, i capi locali entravano in comunione con le divinità. La seconda, una luogo in cui si accentravano i commerci con i mercanti micenei e ciprioti, dove i riti comuni, portavano a testimoni gli dei del buon esito dello scambio.

Classi dominanti, quelle di Thapsos, che testimoniavano il loro potere e la loro influenza anche in altri due modi: l’urbanistica e l’architettura sepolcrale. Alle grandi capanne circolari costruite sulla base da muri a secco e supportate poi da tetti e pareti di legno, paglia e argilla, tipiche della cultura di Pantalica, l’élite di Thapsos, sostituì riproduzioni in piccolo dei complessi A e B, edifici rettangolari spesso raccolti ad ali intorno a cortili, disposti secondo un preciso piano urbanistico, per apparire all’altezza degli interlocutori commerciali, a testimonianza di relazioni di tipo paritario (peer polity interaction). Allo stesso tempo, però la differenza culturale e tecnologica tra le due parti era troppo sbilanciata affinché il modello miceneo non divenisse uno stile da imitare.

Al contempo, nelle necropoli oltre alle sepolture a pozzetto e a camera semplice, di matrice indigena, appartenenti ai gruppi sociali meno ricchi e prestigiose, appare un tipo di sepoltura allogeno, la tholos a pianta circolare e sezione ogivale. Le Tholoi siciliane differiscono da quelle peloponnesiache per vari elementi, manca ad esempio il dromos, sostituito da una semplice sistemazione dell’area antistante. Le unità di misura, la pianta e la geometria, innovative nel panorama siciliano lasciano in ogni caso pensare ad una derivazione dai modelli micenei, dovuta alla presenza di maestranze elladiche.

Ora, dato il corredo presente, è da escludere che i defunti siano immigrati micenei: per cui, sarebbe interessante capire come questo status symbol funerario, a imitazione dei wanax micenei, sia giunto in Sicilia: un esempio di acculturazione indiretta, in parole povere le chiacchiere di mercanti, oppure, il commercio era bidirezionale, ossia i siciliani dell’epoca si recavano a loro volta nell’Ellade ?

Da Thapsos, questo tipo di sepoltura si è diffusa progressivamente nei centri che facevano parte della sua rete commerciale, disposti soprattutto lungo gli assi di penetrazione delle vie fluviali. In tali contesti però le tholoi appaiono quasi sempre isolate o in coppia in necropoli più ampie costituite da tombe di tipo tradizionale. La posizione “dominante” sul territorio è quella tipica di élite che vogliono distinguersi e sottolineare il proprio potere su quell’area.

Cannatello
Sul versante sud-occidentale dell’isola, nell’immediato entroterra, risulta invece molto importante il centro di Cannatello. Nel 1897 Paolo Orsi e Giulio Emanuele Rizzo pubblicavano nel Bollettino di paletnologia italiana la scoperta occasionale di un gruppo di capanne preistoriche, e di otto armi in bronzo contenute in una grande zolla : quattro lance, due spade, un’ascia.

Dieci anni più tardi Angelo Mosso in una ricerca – i cui risultati apparvero tempestivamente in forma monografica -portava alla luce i resti di un villaggio, che oggi diremmo del Medio Bronzo thapsiano. In particolare fu individuata un’area selciata di forma circolare con diam. m 60, all’interno della quale vennero alla luce una capanna quadrangolare con buche per pali e resti di sei capanne circolari, di cui due a pianta abbinata; l’estremità sud-est di quella che a Mosso sembrò una sorta di «piazza» circolare, probabilmente un grande recinto del tipo che si riscontra secondo una tradizione che va dal Bronzo Antico alla prima età del Ferro; conchiglie, corni fittili, astragali e alcune piastre circolari in terracotta suggerivano in quel punto una chiara natura votiva.

Dagli studi successivi, oltre alle fortificazioni, apparvero tracce di strutture a pianta
rettangolare che ricordano, anche nelle tecniche di costruzione, in quanto sono utilizzate due paramenti di pietre irregolari con riempimento di pietrelle e ciottoli, quelle di Thapsos sebbene senza la stessa pianificazione e monumentalità di quest’ultima.

Legami, con il sito siracusano, testimoniati anche dalla presenza della sua ceramica: eppure, rispetto a Thapsos, vi è una grande differenza. La ceramica di importazione ritrovata a Cannatello, non è micenea, ma cipriota: per di più, risultano essere presenti materiali di provenienza nuragica, il che fa pensare come il sito agrigentino potesse appartenere a una diversa rete commerciale, basato sull’interscambio di metalli, che univa Cipro con la Sardegna.

cipro

La basilica di Santa Balbina

Pochi romani hanno la fortuna di conoscere la basilica di Santa Balbina, sul piccolo Aventino, sia per la sua posizione, alquanto nascosta, sia perché, diciamola tutta, è assai difficile trovarla aperta.

Ed è un peccato, perché, nonostante la sua storia tormentata, la basilica merita di essere ammirata. Ma chi era Balbina ? Una martire, la cui vita, assai romanzata, è narrata da due tarde agiografie: la ‘’passio Alexandri’’ (VI secolo), che confonde papa Alessandro I con l’omonimo martire della via Nomentana, il che è tutto dire sull’attendibilità dell’autore, e la ‘’passio ss. Balbinae et Hermetis’’, che della prima è un’appendice.

La leggenda narra che la figlia di Quirino, un tribuno nell’esercito romano, al quale era stato ordinato di tenere in prigione a causa della loro fede cristiana papa Alessandro I e un uomo di nome Hermes. Poi convertitosi, Quirino chiese al Papa di guarire sua figlia Balbina che aveva una grande gozzo. Papa Alessandro gli chiese di portargli la figlia al suo cospetto, così Quirino rapidamente tornò a casa e portò la figlia al carcere dove era rinchiuso il papa; entrambi si inginocchiarono davanti a lui in segno di riverenza. Poiché Balbina baciava gli anelli delle catene con le quali il Papa era legato, quello le disse:

“Non baciare queste catene, ma vai a trovare quelle di san Pietro e, una volta che le hai trovate, baciale con devozione e presto guarirai”.

Quirino sapeva dove Pietro era stato detenuto prima del suo martirio e immediatamente prese Balbina con sé, la portò lì e la fanciulla subito guarì. Quirino rilasciò papa Alessandro e Hermes liberi. Insieme con la moglie e la figlia fu battezzato dal papa. Papa Alessandro stabilì che il miracolo delle catene doveva essere celebrato da quel giorno in avanti e fece costruire la chiesa dedicata all’apostolo Pietro, nel cosiddetto titulus apostolorum, presso le Terme di Tito all’Esquilino, ristrutturato e ampliato nel 442 da Licinia Eudossia, figlia di Teodosio II e moglie di Valentiniano III, che lo trasformò nell’odierna San Pietro in Vincoli.

Quirino fu poi arrestato come cristiano e martirizzato con la decapitazione il 30 marzo 116. Fu sepolto nella Catacombe di Pretestato sulla Via Appia. La sua tomba fu poi considerata con grande venerazione ed è indicato nelle antiche guide per i pellegrini delle catacombe romane. Non è noto cosa è successo a Balbina dopo la morte di suo padre: secondo una versione fu arrestata insieme a suo padre nel 116 e decapitata dopo lunghe torture; ma secondo altri racconti visse come un suora vergine fino alla sua morte: venne chiesta più volte in sposa ma rimase sempre fedele al suo voto di verginità. Poi nel 130 fu riconosciuta colpevole di essere cristiana e condannata a morte dall’imperatore Adriano. Venne annegata o sepolta viva a seconda della fantasia dell’agiografo.

La basilica che le è stata dedicata sorge in un luogo che è antico quanto Roma: era posta infatti lungo il Clivius Delphini, la strada in salita che conduceva dalle Terme di Caracalla all’Aventino, unendo l’Appia all’Ardeatina e alla “via Nova”, la via che permetteva l’accesso alle terme, ornata di portici e larga circa trenta metri.

Secondo la tradizione annalistica, il suo sito coincide con l’arx dell’Aventino su cui si posizionò Remo, in gara col fratello Romolo: chi avesse avvistato più uccelli avrebbe avuto il privilegio di fondare la città.

In età tardo repubblicana, vi fu costruita un’imponente domus, che probabilmente, divenne la casa privata di Adriano prima del suo principato, il quale, salito al trono, la donò al demanio imperiale. Ai tempi di Marco Aurelio, nel parco della villa fu costruita la Mutatorium Caesaris, la stazione dei cavalli e dei cocchi imperiali addetti ai viaggi extra urbani, allo stesso modo che l’area Carruces serviva per i viaggi privati.

La domus fu poi donata da Settimio Severo al suo amico Lucio Fabio Cilone, che era stato due volte console, prefetto di Roma, e tutore di Caracalla. E’ stato ritrovato nel 1859 nelle vicinanze della chiesa un tubo di piombo dell’acqua che riporta il nome di Lucio Fabio Cilone.

Ai tempi di Costantino, il salone di rappresentanza della domus fu trasformato in una chiesa, il titulus Tigridae, che nella seconda metà del VI secolo, a seguito del trasferimento delle reliquie di Balbina, fu dedicato alla martire. La prima citazione della nuova titolatura appare infatti in occasione del sinodo celebrato nel 595 da papa Gregorio Magno.

Ora, con la progressiva diminuzione della popolazione romana, la basilica si ritrovò all’estrema periferia della Roma Medievale e di fatto, fu abbandonata a se stessa. Dall’VIII secolo, i pontefici Gregorio III (731 – 741) e Leone III (795 – 816) disposero i primi restauri al tetto; Gregorio IV (827 – 844) e Benedetto III (855 – 858) sostennero con notevoli donazioni la chiesa e per migliorare la manutenzione della chiesa, costruirono si resti della domus e della Mutatorium Caesaris un cenobio, destinato ai monaci greci in fuga da Costantinopoli per le diatribe relative all’iconoclastia.

Monaci che si impegnarono a fortificare l’edificio con torri e merlature per difendersi da eventuali saccheggi; della fortificazione approntata è oggi ancora visibile, nel giardino della chiesa, un mutila torre in laterizi. Fu tutto inutile: nel XII secolo il catino absidale crollò e il mosaico paleocristiano che lo decorava andò perduto.

Tra il XV ed il XVI secolo, dato lo stato di semi-abbandono in cui versava il complesso resero necessari ulteriori restauri, come quello commissionato nel 1489 dal cardinale Marco Barbo, nipote di Paolo II, che fece ricostruire interamente il tetto, lasciandone memoria in un’iscrizione posta sulla capriata centrale

Marcus Barbus, Venetus, episcopus Praene[stinus], card[inalis] S[ancti] Marci, Patriarcha Aquile[iensis], an[no] D[omini] MCCCCLXXXIX

Ulteriori restauri furono effettuati durante i pontificati di Sisto V (1585 – 1590) e di Clemente VIII (1592 – 1605) che comportarono la sostituzione delle colonne del portico con pilastri e la decorazione ad affresco del catino absidale. In particolare, le colonne furono fatte togliere dal cardinale Pompeio Arrigoni che le riutilizzò nella Villa Muti, la sua villa di Grottaferrata.

La basilica nuovamente abbandonata ai primi del XVII secolo a causa della malaria che imperversava nella zona, fu oggetto di numerosi saccheggi che la privarono di tutti i suoi arredi medioevali, finché nel 1698 venne di nuovo aperta al culto. La chiesa venne affidata alla congregazione dei Pii Operai che la ressero fino al 1798, quando fu messa all’asta. Acquistata dalla confraternita dei Fratelli Poveri, il convento e gli orti furono affidati al Pontificio Istituto Agrario per fanciulli abbandonati, mentre la chiesa restò al Capitolo Vaticano.

Nel 1854, il convento divenne sede di un istituto di correzione per minorenni, diretto dai Fratelli della Misericordia e poi, nel 1885, dedicato a santa Margherita da Cortona, divenne sede di un ospizio per ex-prostitute convertite, gestito dalle Suore Francescane dei Sacri Cuori, che ancora oggi lo curano come casa di riposo per anziani.

La facciata di Santa Balbina, sopraelevata su una modesta gradinata, è in laterizio e presenta nella parte inferiore un portico coperto da un tetto, al quale si accede tramite tre arcate a tutto sesto poggianti su pilastri, tra i quali vi è posta una cancellata in ferro che impedisce l’accesso al portico stesso, dove vi sono raccolti numerosi frammenti antichi tra cui una tabula lusoria, il gioco da tavolo degli antichi romani, antenato del nostro backgammon, epigrafi, anfore ed alcuni elementi appartenenti alla decorazione precedente alla chiesa, come parte dei plutei della “schola cantorum” ed un capitello con lo stemma di papa Sisto V. La parte superiore presenta tre grandi finestre ad arco ed è chiusa da un tetto a doppio spiovente. Sulla parete d’ingresso vi è lo stemma policromo di Innocenzo VIII Cybo, che era stato cardinale presbitero della Basilica di S.Balbina.

L’interno, a navata unica, è illuminato da 19 finestre ad arco che si aprono lungo la parte superiore delle pareti; al centro della navata vi è la ricostruita “schola cantorum” in marmo bianco. Il catino absidale appare oggi decorato con il Redentore in gloria tra i Santi Balbina, Felicissimo e Quirino e con un papa, ed è stata affrescata da Anastasio Fontebuoni nel 1599.

Ben più importanti, però, sono i resti degli affreschi medievali presenti nelle cappelle, che vanno dal IX secolo all’età di Pietro Cavallini, che danno una panoramica dell’evoluzione della pittura romana dell’epoca e alcune sculture provenienti dall’antica San Pietro.

Queste consistono nella cattedra episcopale (XIII secolo), in marmo e mosaico, di ambito cosmatesco, nel rilievo in marmo con Crocifissione tra la Vergine e S.Giovanni del Monumento funebre di Paolo II realizzato nel 1460 da Mino da Fiesole e Giovanni Dalmata, proveniente dall’altare di S.Marco del transetto costantiniano, e la Tomba del prelato Stefano de Surdis, domine pape capellanus (cappellano papale), nipote del cardinale Riccardo Annibaldi, morto nel 1303, scolpita da Giovanni figlio di Cosma.

A questa chiesa è legata una bellissima storia che i “Mirabilia” narrano così:

“Nei tempi antichi, avanti la chiesa sorgeva un prodigioso candelabro asbestos, d’una pietra ardente e inestinguibile. L’intero candelabro fiammava senza rimaner consunto dall’arcano fuoco: l’aria ne alimentava il vigore e lì presso si ergeva una statua di arciere fieramente proteso a scoccare un dardo. Ma una scritta minacciosa in lettere etrusche diceva: “se qualcuno mi tocca io ferirò”. Quanti secoli passarono così mentre il candelabro ardeva non si sa ma un giorno un insensato toccò la freccia fatale, la freccia scoccò né più il fuoco si riaccese”.

 

Uno sguardo sul Libano

Protests in Beirut

Come scritto altre volte, la partita di Trump per portare l’Iran al tavolo delle trattive, si gioca su diversi campi: uno di questi, purtroppo per i suoi abitanti, mi verrebbe da dire, è il Libano.

Per capire cosa sta succendo, torniamo indietro al 2006, all’epoca dell’ultima guerra tra Israele ed Hezbollah. Con il senno di poi, dal punto di vista militare, nonostante la propaganda, per il movimento sciita fu un disastro colossale: perse più di 1000 combattenti, un sesto del totale nei combattimenti contro l’IDF, le sue principali infrastrutture militari furono distrutte e rinunciare a parte del territorio sotto il suo diretto controllo, presidiato alle forze di intermediazione ONU.

Dal punto di vista politico è stato un win-win. Israele ha ottenuto il suo vero obiettivo, che non era liberare i due soldati rapiti, quello era solo un pretesto, ma di bloccare la guerra a bassa intensità che il movimento sciita combatteva contro di lui al suo confine nord.

Hezbollah, grazie a una sapiente gestione dei media, ha ottenuto un successo mediatico, che il suo leader Nasrallah ha sfruttato con intelligenza nella politica interna di Beirut, mettendo sotto la sua tutela il Libano.

Insomma, un risultato che, entrambe le controparti, avrebbero potuto ottenere lo stesso con una trattativa efficace, piuttosto che con una guerra: purtroppo, in Medio Oriente il buonsenso è troppo spesso subordinato ad altri fattori.

A seguito della guerra, Nasrallah ha dovuto però affrontare una serie di problemi di non semplice soluzione: riparare i grossi danni subiti dalle sue infrastrutture, conservare il consenso degli sciiti, mettendo in piedi una sorta di welfare parallelo a quello statale, mantenere un potere di deterrenza credibile nei confronti di Israele, nel tentativo di evitare un’altra guerra rovinosa.

Per fare questo, ha dovuto rafforzare la sua alleanza con l’Iran, che ha riempito di soldi Hezbollah: a differenza di quanto avviene nelle cleptocrazie palestinesi, i fondi di Teheran non sono finiti in fondi esteri di prestanome di Nasrallah, ma sono stati effettivamente impiegati sia in opere pubbliche, per realizzare ospedali,scuole, abitazioni popolari e creare posti di lavoro.

In parallelo, Hezbollah si è armato sino ai denti: a quanto pare, il movimento sciita mantiene un esercito di 40-45mila miliziani equamente divisi tra arruolati e riservisti, dispone di circa 120.000 razzi e missili terra-terra forniti da Teheran e possiede droni.

Tuttavia, la politica di Nasrallah è andata progressivamente in crisi per tre fattori. Il primo è biecamente tecnologico. Di fronte alla minaccia dei missili, Israele ha cominciato una corsa a sviluppare adeguate contromisure, sviluppando un sistema di difesa articolato a tre livelli: il sistema Hetz (“Freccia”), che può intercettare missili a lungo raggio come i missili Scud provenienti dalla Siria o i missili Shihab provenienti dall’Iran; il sistema Kippat barzel (“Cupola di ferro”), che intercetta razzi a corto raggio come Qassam e Katyusha; e il sistema Kala David (“Fionda di David”), progettato per intercettare armi balistiche a medio raggio, soprattutto missili ad alta precisione e grandi razzi come l’M-600 di Hezbollah.

Inoltre, nel nord del paese sono stati costruiti altri rifugi e in caso di attacco dall’aria il Rambam Medical Center di Haifa dispone oggi di 2.000 posti letto nel sotterraneo. Di conseguenza, il potere di deterrenza militare di Hezbollah si è progressivamente offuscato.

Il secondo è economico: la crescita esponenziale dei finanziamenti di Teheran ha progressivamente diminuito i margini di autonomia politica di Nasrallah. Di conseguenza, contro voglia, le milizie di Hezbollah sono dovute intervenire nella guerra civile siriana, perdendo quasi 2000 combattenti e subìto circa 5.500 feriti, mettendo in grande tensione la comunità sciita del Libano meridionale dove recluta il grosso delle sue forze e riducendo il consenso di cui gode il movimento

Terzo è politico: la “normalizzazione” di Hezbollah – il partito controlla un terzo del parlamento di Beirut – lo ha reso assai più responsabile, ma molto più vulnerabile dinanzi alle proteste di massa.

A peggiorare il tutto ci si è aggiunta la crisi economica e la politica di Trump: il Libano vanta una disoccupazione al 37% tra gli under-35 anni e il terzo debito pubblico più vasto al mondo, pari a 150% del Pil. Di conseguenza, il libanese medio è alquanto irritato nei confronti del suo sistema politico, di cui Hezbollah è visto come parte integrante.

Inoltre, le sanzioni di Trump hanno ridotto drasticamente i fondo in arrivo da Teheran, mettendo in crisi i meccanismi di consenso costruiti da Nasrallah. Inoltre, con l’eliminazione di Soleimani, Hezbollah ha perso il principale padrino politico.

Nasrallah sta reagendo alla crisi arroccandosi in difesa: con le dimissioni di Hariri e la nascita del governo di Hassan Diab è crollato miseramente l’accordo siglato un anno fa tra il fronte filo-iraniano, incarnato dall’alleanza tra gli Hezbollah e il presidente della Repubblica cristiano Michel Aoun, e l’asse filo-occidentale, rappresentato dallo stesso Hariri e dai partiti cristiani delle Forze libanesi e delle Falangi e dal partito druso di Walid Jumblat.

Di fatto, la politica libanese si è polarizzata di nuovo ed Hezbollah si trova nella scomoda condizione non di chi contesta, ma di chi è contestato, con le proteste di piazza che non sembrano prossime a terminare.

Per cui o Diab trova una soluzione alla crisi, il che implica adottare una serie di riforme che metterebbe in crisi le basi del potere del movimento sciita, oppure la situazione a Beirut rischia di trasformarsi in una bomba a orologeria politica per Nasrallah e suoi protettori iraniani. In ogni caso, Trump avrebbe segnato il suo punto, nel gioco strategico che si svolge sulla pelle dei libanesi…