I primi decenni della vita di Castellammare, rispetto a Pescara vecchia, non è che fossero così splendidi; l’economia era basata su un’agricoltura poco produttiva e mancavano totalmente infrastrutture come scuole, reti idriche ed ospedali
Le cose cambiarono il 16 maggio del 1863 quando, alla presenza del re d’Italia Vittorio Emanuele II, fu inaugurata la stazione ferroviaria sulla linea adriatica, che rese appetibile i terreni lungo la costa.
Di conseguenza, i latifondisti teramani si avvidero delle possibilità di sviluppo ed acquistarono a prezzi irrisori le relative aree, facendo tracciare strade (a spese del comune) e cominciando ad urbanizzare la zona. Intorno a questi primi insediamenti, per lo più aziende agricole legate al modello della masseria, in cui producevano essenzialmente olio, vino e liquirizia.
Le cose cambiarono con Leopoldo Muzii, personaggio controverso ma di grande carisma e peso decisionale, il quale da sindaco fece approvare nel 1882 il primo “Piano regolatore di ampliamento”, che prevedeva la divisione della città in tre aree: una a vocazione commerciale in direzione sud, tra la stazione ed il fiume, una amministrativa in direzione opposta, tra la stazione ed il Municipio, ed una residenziale a nord del Municipio.
Da buon politico italiano, Muzii aveva pensato il Piano Regolatore molto pro domo sua: infatti l’asse di sviluppo della cittadina non era diretto verso Pescara Vecchia, ma a Nord, verso Montesilvano, dove sorgeva la sua piantagione e fabbrica di liquirizia, nell’odierna zona di via del Milite ignoto.
Decisione che provocò molte polemiche, all’epoca, ma che ebbe un’inaspettato effetto collaterale: la colonizzazione della fascia costiera, tramite la costruzione di un nuovo acquedotto, di nuove strade alberate, la creazione delle prime linee di illuminazione pubblica e la sistemazione, inizialmente in strutture precarie ed inadeguate, dei primi edifici scolastici.
Colonizzazione che, fin da subito, portò all’inaspettata crescita turistica dell’area. Nel 1883 si creò il primo caffè concerto per dilettare i villeggianti e dare un luogo centrale di ritrovo, nel frattempo si dava avvio alla stagione balneare sulla riviera, con la costruzione dei primi stabilimenti e dei casotti.
Tale boom turistico rese Castellammare molto più prospero e abitato di Pescara vecchia (i dati del censimento del 1921 che riportano 16.031 residenti a Castellammare Adriatico e 9630 a Pescara) e una delle capitali del liberty italiano. Patrimonio edilizio parzialmente distrutto durante la seconda guerra mondiale, che forse meriterebbe d’essere meglio valorizzato, di cui fa parte Villa Urania, costruita nel 1896 per volontà del barone Giandomenico Treccia e della consorte Urania Valentini, originari di Loreto Aprutino, quale villino al mare. Il fabbricato fu progettato dall’ingegnere Francesco Selecchy, il quale concepì un edificio, costruito su due piani, con un blocco con pronao in antis a quattro colonne e terrazza sovrastante collocata al centro della facciata principale.
Orizzontalmente la superficie è percorsa da una fascia modanata all’altezza dei davanzali e una decorata con un motivo di onde e dentelli all’altezza dell’imposta degli archi e delle aperture. L’alta trabeazione è caratterizzata dalla presenza di dentelli nella cornice e di triglifi nel fregio. Si accede al loggiato da piccole gradinate laterali, mentre sulla facciata lo spazio tra i plinti è occupato da balaustre. L’architrave è decorato nel fregio con un motivo a nastri e fiori, mentre il timpano presenta un rosone cieco costituito da un grande fiore e una cornice modanata con perle decorative, ed è sormontato da un acroterio a forma di conchiglia sorretta da spirali e foglie.
Al suo interno, è custodita la Collezione Paparella Treccia Devlet, frutto di 40 anni di ricerca e di studi del Professore Raffaele Paparella Treccia, luminare dell’ortopedia che ha donato la collezione e la villa ad una fondazione intitolata a lui e a sua moglie Margherita Devlet. La raccolta è composta da 151 selezionati capolavori della maiolica artistica di Castelli, ordinati secondo un criterio cronologico, opera dei maggiori maestri castellani attivi tra il XVI e il XIX secolo, i Pompei, che interpretano in maniera autonoma i canoni tardocinquecenteschi dello stile compendiario; i Grue che lasciano invece esplodere le fantasmagorie di forme e racconti del Barocco; il Fuina, che adatta le sue maioliche ai leziosi eccessi della pittura rococò del Settecento.
La decorazione delle ceramiche documenta il passaggio dallo stile “compendiario”, caratterizzato da un’essenzialità di elementi, a quello “istoriato”, in cui ricorrono scene allegoriche, mitologiche, venatorie e belliche. Tra le opere di maggior pregio si segnalano la più completa testimonianza di un servito alle armi di età barocca, costituito da 19 esemplari con lo stemma del committente, eseguito nella bottega di Francesco Grue e famosi lavori di Carlo Antonio Grue, tra i quali il più antico esemplare castellano di zuppiera, e due pregevoli vasi da consolle prodotti per l’Imperatore Leopoldo I d’Austria, successivamente passati ai Savoia, che Paparella Treccia comprò da Umberto II di Savoia.
Il Museo conserva anche prestigiosi dipinti ad olio, tra cui una Natività quattrocentesca, un autoritratto datato 1711 di Pietro Santi Bambocci e un acquerello su carta di Pio Joris, artista romano, del 1800
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