San Domenico a Palermo (Parte IV)

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La visita alla Chiesa di San Domenico a Palermo sarebbe gravemente incompleta se non ammirassero anche le sue pertinenze, relative al suo antico convento, a cominciare dal Chiostro, che risale con ogni probabilità all’ultimo scorcio del secolo XIII, nello stesso periodo veniva costruito quello del convento dei Cappuccini a Baida, di cui probabilmente condivide le maestranze, sia come muratori, sia come lapicidi.

In entrambi i casi, fu concepita una struttura ispirata ai grandi chiostri normanni di Cefalù e soprattutto di Monreale: quattro corsie, scandite da eleganti colonnine binate tortili e lisce, ricavate da elementi di spoglio, che reggono pulvini decorati, sui quali s’impostano gli acuti archi della ghiera.

Il vigore fitomorfo della decorazione, sebbene creato attraverso una stilizzazione alquanto grossolana, si ritrova in altri elementi decorativi del Trecento palermitano, come alcune finestre dello Steri. Alla costruzione del chiostro contribuirono importanti famiglie del tempo, come i Chiaramonte, il cui stemma è inserito nel fogliame di due capitelli della corsia nord.

Per una proposta cronologica del chiostro e della sua decorazione scultorea appare interessante quanto suppone il Marchese di Villabianca nel ‘700, che attribuisce la costruzione del chiostro a Manfredi Chiaramonte il Vecchio, con una datazione quindi entro il secondo decennio del Trecento.

Nei secoli a venire, contestualmente con le evoluzioni e gli ampliamenti della Chiesa, il chiostro subì notevoli rimaneggiamenti. Nel 1526 le pareti furono affrescate dal pittore domenicano Nicolò Spalletta da Caccamo con scene dell’Apocalisse e vita di alcuni Santi domenicani, poi picconati, raschiati e ricoperti di intonaco intorno al sec. XIX.

A partire dal 1640 furono iniziati i lavori per l’ampliamento della nuova ed attuale chiesa. Secondo il progetto iniziale, il chiostro monumentale non doveva essere intaccato, invece durante lo scavo di fondazione del nuovo impianto, a causa della scarsa qualità del terreno, la struttura venne letteralmente traslata verso il Chiostro, andando a sacrificare l’originale corsia meridionale e la geometria quadrata del chiostro.

Attualmente il chiostro presenta una pianta rettangolare ed è disposto a ridosso del lato nord della chiesa. Le tre corsie originarie sono coperte da una volta a botte (realizzata nel XVI secolo al posto di un probabile tetto a falda con struttura lignea) la cui lunette si interrompo proprio sulla parte di corsia seicentesca modificata.

Il giardino interno, in origine semplice orto medievale, ha assunto dal secolo scorso l’attuale aspetto esotico con palme e banani.

A seguito della soppressione degli Ordini Religiosi del 1860 anche il Chiostro del Complesso di San Domenico è stato acquisito dallo Stato Italiano. Ad oggi, in una parte della struttura edilizia un tempo facente parte del complesso domenicano, ha sede la Società di Storia Patria qui trasferitasi a partire dal 1890 mentre lungo la corsia settentrionale vi è l’ingresso al Museo del Risorgimento.

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Sul chiostro insiste la cappella di Santa Barbara, probabilmente l’antico capitolo del convento, dove i frati si riunivano per pianificare la loro vita e la loro missioni. Data la caratteristiche della copertura e le sue dimensioni, è ipotizzabile come inizialmente la cappella fosse ricoperta da una volta a crociera in stile gotico catalano, per cui la sua prima fase costruttiva dovrebbe risalire a fine Quattrocento, probabilmente su disegno di Juan de Casada.

Da un documento dell’epoca sappiamo nel maggio 1574, il famoso medico Giovanni Filippo Ingrassia ottenne dai Padri Domenicani la concessione di tale cappella, con la possibilità di realizzare sia nuove aperture verso il chiostro, sia una nuova decorazione.

Per cui, dopo avere commissionato a Giuseppe Gagini il proprio monumento sepolcrale, Ingrassia chiamò un artista di formazione romana, di cui ignoriamo il nome, per ristrutturare la volta della cappella, in modo che rispondesse al nuovo stile manierista: furono così eliminati i costoloni e la superficie muraria fu ricoperta da una decorazione in gesso, probabilmente policroma.

Nel 1687, l’architetto barocco 1687 Giacomo Amato ricevette l’incarico realizzare la nuova abside della cappella. Nella soluzione proposta la struttura, dalla sezione circolare anziché rettangolare come la precedente, era anticipata da due pilastri collegati da arcate a sesto ribassato.

Giacomo aveva inoltre previsto due passaggi laterali (oggi murati), che collegavano la nuova abside ai locali del convento. In questo spazio ulteriori pilastri, ravvicinati ed emergenti dalle pareti curvilinee, posti in continuità con le nervature (tre per lato) della semicalotta ribassata e culminanti al centro con un ovale, disegnavano lo scheletro dell’organismo architettonico.

La percezione finale era pertanto quella di un ambiente profondo, dotato di una forte componente plastica e chiaroscurale, ulteriormente articolato dal contrasto generato dalla differente giacitura dei pilastri, degli archi e delle nervature, rispettivamente del vano di ingresso e del catino absidale.

Risulta immediato collegare questo progetto al patrimonio di conoscenze accumulato da Giacomo Amato durante il periodo di formazione compiuto a Roma, riconoscendo in questa occasione un’applicazione semplificata di un lessico assimilabile ad alcune soluzioni di Borromini.

La cappella nel XVI secolo fu sede dell’Accademia degli Accesi, circolo di cultura che radunava gli intellettuali dell’epoca, fondato dal viceré Francesco Ferdinando D’Avalos, da cui, dopo una serie di complesse e avventurose vicende, nacque l’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Palermo.

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Merita una visita anche la maestosa sagrestia i cui lavori di realizzazione iniziarono nel 1721 ad opera dell’architetto domenicano padre Ondars, per terminare due anni dopo.

Questa ha la forma di un’ampia cappella con in fondo un altare incorniciato da un grande arco sulla cui parete fondale campeggia un Crocifisso ligneo quattrocentesco di scuola pisana. Tutto l’arredo ligneo fu sovvenzionato da monsignor Vincenzo di Francisco, vescovo di Lipari, ed eseguita su disegno di padre Lorenzo Olivier.

La raffinata scaffalatura in noce riveste l’intero spazio e sui quattro sopraporta, campeggiano le quattro statue di Pontefici domenicani: Innocenzo V, Benedetto XI, Pio V e Benedetto XIII. Da quest’ambiente si accede alla piccola cappella detta dell’Ecce Homo nella quale domina un esuberante lavabo marmoreo settecentesco.

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Infine, nel convento di San Domenico è presente la curiosa sala del Calendario, utilizzato un tempo come vano di passaggio e di accesso al successivo salone detto del Cinquecento e ora adibito a piccola biblioteca dei confrati. In questa sala si conserva ancor oggi il magnifico affresco a parete di un calendario liturgico realizzato nel 1723 dal Padre domenicano Benedetto Maria Castrone, contraddistinto dal motto “IANI PORTA” ovvero Porta del Tempo. L’affresco si ricollega ad uno studio cartaceo già illustrato nella pubblicazione Horographia Universalis dello stesso Castrone, poi diventato per suo espresso desiderio anche raffigurazione muraria.

Il calendario perpetuo rappresentato, copre un arco temporale che va dal 1700 fino al 2192 e permette di stabilire attraverso calcoli matematici misti a fondamenti astronomici, le date delle più importanti festività mobili tra cui la Pasqua e altre legate ricorrenze legate all’anno liturgico. Nel contempo, introduce a concetti di astronomia e geofisica, che sono anche strettamente legati ai principi generali di agronomia.

Iscrizioni di Novilara

Molti lo ignorano, ma nelle Marche, nei dintorni dell’attuale città di Pesaro, tra la fine dell’Età del Bronzo e il periodo orientalizzante dell’età del Ferro, per capirci, il periodo in cui a Roma regnavano i Tarquini, si parlava e scriveva una lingua misteriosa, di cui sappiamo ben poco, chiamata convenzionalmente Piceno settentrionale.

La popolazione protostorica che parlava tale lingua, situata nei pressi della nostra Novilara, basava la sua prosperità grazie al controllo di una fitta rete di intensi traffici costieri e transadriatici, come attestano le ambre, i vasi dauni, gli incensieri villanoviani, gli elmi conici e probabilmente, come gli Illirici dei tempi storici, alla pirateria. Questo è testimoniata dalla cosiddetta “Stele di Ancona”, in cui appare la scena di una battaglia navale.

Prosperità testimoniata proprio dalla necropoli di Novilara, i cui primi scavi clandestini, data la presenza all’epoca nel mercato antiquario di Pesaro di fibule con nuclei d’ambra, risalirono almeno a inizio Seicento. I primi scavi documentati, però, furono molto più tardi; il primo fu effettuato nel fondo Servici nel 1873 dal Conte Bonamini.

Un altro saggio di scavo a scopo dimostrativo fu praticato nel 1891 alla presenza di Ciro Antaldi, conservatore presso il Museo Oliveriano, dell’epigrafista tedesco Bormann e dell’archeologo Gamurrini, che pubblicò la scoperta nella rivista “Notizie degli Scavi”.Tra il 1892 e il 1893, furono condotte dal Brizio indagini archeologiche sistematiche nel fondo Servici e nell’adiacente podere Molaroni, dove vennero scoperte quasi duecento tombe con relativi corredi, poi esposti in una sala del Museo Oliveriano.

Le campagne di scavo furono riprese nel 1912 da Dall’Osso, ma i corredi delle trenta sepolture rinvenute, trasferiti al Museo Archeologico Nazionale delle Marche, andarono in gran parte perduti nel 1944, durante il bombardamento aereo che colpì Ancona. Recentemente la Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche ha ripreso lo scavo.

Le necropoli, di cui non sono ancora ben note le dimensioni e la distribuzione delle tombe, è databile tra databile fra la fine del IX e la metà del VI secolo a.C., mentre l’oppidum ad essa collegato, non è ancora stato localizzato e scavato: gli archeologi sono però convinti, da una serie di indizi, come fosse situato nel tratto mediano del colle di Santa Croce, un luogo strategico a cavaliere delle teste vallive del fosso dei Condotti e del fosso Seiore, dove le tracce di insediamento umano risalgono già all’età del Bronzo Recente (XIV-XIII secolo a.C.).

La necropoli di Novilara, da quanto siamo riusciti a capire, dovrebbe articolarsi in due settori topograficamente separati, ma vicini, noti come necropoli Molaroni e necropoli Servici, tra cui esistono differenze cronologiche: infatti mentre i primi corredi funerari del podere Molaroni risalgono alla fine del IX e agli inizi dell’VIII secolo a.C., quelli del podere Servici si datano alla metà dell’VIII secolo a.C.. Entrambe le necropoli terminano, invece, quasi contemporaneamente intorno al 600 a.C.

Complessivamente, sono state scavate 263 tombe, 142 a Molarino, 121 a Serivi, quasi tutte a inumazione, con il defunto rannicchiato all’interno di semplici fosse rettangolari, praticate nel terreno argilloso. L’unica eccezione è costituita da due tombe a incinerazione, in cui i resti del defunto furono posti dentro un’urna collocata in un pozzetto. Sia la tipologia, sia il corredo, fa pensare che non si tratti di un locale, ma di un “immigrato” villanoviano.

Sono state poi individuate anche sepolture di bambini in numero consistente, a riprova che la mortalità infantile era molto alta. Rispetto al Molaroni il sepolcreto Servici presenta comunque caratteri di maggiore complessità: era delimitato a nord-est da un fossato lungo oltre m 40 e in superficie, almeno le sepolture più importanti, erano segnalate da cippi e stele.

Inoltre si è notata una sorta di divisione in settori: infatti un gruppo di 12 tombe era racchiuso, all’interno di un’area rettangolare, da un muricciolo in pietre, il che farebbe pensare come fosse, come nella necropoli esquilina, dedicata ai membri di uno specifico clan. Quasi tutte le sepolture delle due necropoli erano dotate di un corredo, composto da oggetti deposti sul fondo della fossa accanto al defunto.

I materiali rinvenuti appartengono a due diverse fasi cronologiche: la più antica di VIII secolo a.C. corrisponde alla seconda fase della prima età del Ferro italiana e della Civiltà Picena; i corredi più recenti sono databili al VII secolo a.C., quando si avvertono ormai in tutta l’area medioadriatica le innovazioni tipiche delle facies orientalizzanti tirreniche, legate alla presenza di coloni greci in Sicilia e nell’Italia meridionale.

Durante la prima età del Ferro le tombe erano caratterizzate da corredi piuttosto poveri, composti da due o tre oggetti, che appartengono all’abbigliamento del defunto o si riferiscono alle attività praticate in vita, mentre i recipienti in ceramica sono scarsamente utilizzati.

Le tombe maschili sono contraddistinte dalla presenza di punte di lancia a lama fogliata, spade, pugnali e coltellacci a dorso ricurvo, armi in bronzo, ma per lo più in ferro, che attestano l’importanza dell’attività guerriera all’interno della comunità di Novilara. In alcune sepolture erano stati riposti elmi, prerogativa dei capi militari: i più diffusi erano quelli a calotta conica in bronzo con cimiero applicato, simile a quelli presenti nella vicina Verucchio, nell’entroterra riminese, e in Istria.

I corredi delle tombe femminili erano costituiti da oggetti di abbigliamento e ornamento personale: pendenti e placchette in osso o ambra romboidali o trapezoidali, perle di pasta vitrea blu, gialla bianca, che, infilate, andavano a formare collane composte da parecchi giri, orecchini, costituiti da anelli d’ambra, che pendevano da cerchietti a spirale di filo bronzeo.

Le dita delle defunte erano ornate da anelli di fili di bronzo a uno o più avvolgimenti, mentre le vesti erano trattenute da spilloni bronzei, simili a quelli maschili, ma per lo più da fibule, spille tipiche dell’abbigliamento femminile. Le forme documentate a Novilara sono molteplici e le più diffuse sono le fibule ad occhiali, a sanguisuga o ad arco ribassato, a volte in filo di bronzo con inseriti grossi nuclei d’ambra.

Dato che le donne si occupavano della cura della casa, dell’allevamento dei bambini, ma praticavano anche l’attività della filatura e della tessitura, i cui prodotti erano anche destinati all’esportazione verso altre comunità, all’interno delle sepolture femminili abbondano anche fusaiole, rocchetti, pesi da telaio e aghi.

All’interno delle tombe venivano deposti anche vasi in ceramica, perché il morto potesse servirsi di tali oggetti nell’Aldilà. I recipienti tipici di questa fase sono realizzati in ceramica d’impasto e sono il kantharos (vaso con doppia ansa) a bocca ovale, il kothon, una tipica tazza a corpo lenticolare con ansa a maniglia rialzata e bottone terminale, decorata da motivi geometrici incisi, e scodellini troncoconici con decorazione a cordone applicati.

I corredi del periodo orientalizzante, databili fra la seconda metà dell’VIII e gli inizi del VI secolo a.C., sono composti da un numero maggiore di oggetti, anche di un certo pregio e segnalano la presenza di differenze sociali all’interno della comunità, in cui si distingue un ceto egemone.

Questi personaggi di rango, ispirandosi alle coeve aristocrazie dell’Italia meridionale e tirrenica, inseriscono nelle loro sepolture oggetti di importazione, come gli amuleti egittizzanti in pasta vitrea, ma soprattutto arredi, utensili e vasellame per il banchetto, che seguono le nuove mode orientalizzanti, diffuse fra i coloni greci d’Occidente.

Nelle tombe maschili compaiono vari servizi in ceramica d’impasto, che, oltre al kantharos e al kothon, comprendono olle, scodelle a orlo rientrante e coppe su alto piede e a largo labbro. Sempre al rito del banchetto si collega la presenza di spiedi, di grossi uncini a più punte per prendere la carne e di coltelli per tagliare i cibi, utensili ormai tutti in ferro.

Tra le armi di offesa, anch’esse in ferro, alle punte di lancia e di giavellotto si associano spesso spade con fodero di legno rivestito in lamina di bronzo e pugnali più corti con elsa a stami e fodero in ferro. Fra le armi da difesa, meno comuni e riservate ai capi, solo la presenza di un umbone ovale in bronzo della tomba Servici 60, può far ipotizzare la presenza in quel corredo di uno scudo in legno o in altro materiale deperibile, mentre i pochi elmi documentati sono sempre più del tipo a calotta composta da lamine bronzee.

Nell’abbigliamento personale le fibule sostituiscono ormai gli spilloni: i tipi più frequenti sono le fibule a drago e quelle a navicella, con staffa lunga. Gli oggetti ornamentali sono sempre più numerosi e assumono fogge complesse. Oltre alle fibule più semplici a sanguisuga di piccole dimensioni o a corpo d’ambra, sono documentate fibule a drago o a grande navicella romboidale con lunga staffa.

Fra i monili, accanto alle perline in pasta vitrea e ai ciondoli d’ambra, compaiono pettorali in lamina di bronzo, che alle estremità presentano teste di uccelli acquatici, secondo lo schema della “barca solare”, a cui sono appese lunghe catenelle bronzee. Le braccia erano ornate da bracciali a spirale o a capi sovrapposti in verga di ferro o di bronzo. Sono documentate anche cinture in bronzo, formate da una fitta maglia di anellini con pendaglietti a goccia appesi al bordo inferiore.

Fra gli utensili in bronzo sono attestati nettaunghie e curaorecchie, decorati da figure umane di gusto geometrico. Anche in questa fase più recente le fusaiole e i pesi da telaio d’impasto e le conocchie in bronzo documentano una fervida attività della filatura svolta dalle donne di Novilara.

In base alle analisi effettuate sugli scheletri conservati al Museo Oliveriano di Pesaro, che costituiscono quindi solo una piccola percentuale delle sepolture scavate, si è determinato che l’altezza media per gli uomini era di m 1,66, mentre le donne raggiungevano m 1,55. In genere l’età media della morte si aggira sui 36 anni; in particolare si segnalano molti decessi fra i 20 e i 29, in prevalenza fra soggetti femminili, mentre coloro che superano i 55 anni sono uomini.

Lo studio ha consentito anche di individuare alcune patologie della cavità orale (atrofia alveolare, tartaro, ascessi, carie e usura dei denti), alcune lesioni di tipo traumatico, dovute a ferite provocate da armi da taglio, fenomeni di artrosi e di periostite, un’alterazione provocata da infiammazione degli arti inferiori.

Ora, osservando solo il corredo funebre, non apparirebbe nessuna differenza tra Novilara e gli altri siti della civiltà picena: ma ciò che fa la differenza, sono le cosiddette “iscrizioni di Novilara”, la cui lingua, come detto in precedenza. non corrisponde ad alcuna delle lingue in uso in quest’area e in quelle vicine.

La denominazione “iscrizioni di Novilara”, tra l’altro, è puramente convenzionale in quanto soltanto una delle 4 iscrizioni rinvenute in territorio pesarese proviene con certezza dalla necropoli di Novilara mentre delle altre non è stato individuato il contesto di provenienza.

Nella silloge del Whatmough in cui le epigrafi venivano convenzionalmente denominate “nord-picene” esse erano in numero di sei, ma in seguito tre di queste sono state espunte: la prima, detta “bilingue di Pesaro” è scritta in latino ed in etrusco; la seconda è un’iscrizione su tessera d’osso, anch’essa in etrusco; la terza, l’iscrizione sul bronzetto di Osimo (o di Staffolo o di S. Vittore) è redatta in lingua italica, forse umbra, con infiltrazioni etrusche. Alle tre iscrizioni rimaste se n’è aggiunta una quarta, conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona.

Vediamole un attimo in dettaglio. La prima iscrizione è incisa in un frammento di stele conservata al Museo Oliveriano di Pesaro. E’ l’unica che proviene da uno scavo archeologico; fu rinvenuta nella necropoli Servici di Novilara nel 1860 (o 1863) in località Selve di S. Nicola in Valmanente. In realtà, secondo la testimonianza del Brizio (43), sembra che la stele non sia stata trovata in situ ma “in mezzo al terriccio” fra tre tombe, sebbene la funzione originaria era quella di segnacolo di una sepoltura.

Del testo si conserva la metà sinistra di due righe, con quella superiore con caratteri grandi quasi il doppio rispetto alla linea inferiore, scritte in un alfabeto, che richiama un modello etrusco settentrionale di fine VII- inizi VI sec. a.C. ben differente da quello piceno standard, una lingua del gruppo osco sabellico, che era assai peculiare, comprendendo in particolare l’uso di sette vocali (a, e, í, i, o, ú, u)

La seconda è incisa su una stele in arenaria tenera conservata nel Museo Preistorico e Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Databile tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. E’ l’unica che conserva il testo per intero (anche se con qualche abrasione che non influisce comunque sulla lettura del testo). Rinvenuta nel 1889 nel Pesarese, Brizio ne ipotizza la provenienza da S. Nicola in Valmanente. In un lato poco levigato, presenta una decorazione incisa figurata: in alto al centro una ruota a quattro raggi, al centro della scena due scene, una di combattimento e una di caccia. Il bordo della stele, piatto su tre lati è decorato con un’incisione a doppia spirale. Sull’altro lato, levigato in maniera uniforme, è incisa l’iscrizione chiusa su tre lati da una cornice a zig zag e da una fascia di doppie spirali. In alto al centro c’è una ruota a cinque raggi con ai lati un triangolo ed una croce. In basso l’iscrizione è chiusa da una fascia incisa con un motivo a spina di pesce e due linee orizzontali che delimitano uno zoccolo. Il testo, successivo alla cornice, ne segue l’andamento sinuoso e riempie l’intero spazio a disposizione come per una sorta di horror vacui, ha andamento sinistrorso e si sviluppa in dodici righe.

La terza appartiene a un frammento di stele conservato nel Museo Preistorico e Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Databile tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. Non è certa la provenienza della stele, secondo alcuni Fano, secondo altri S. Nicola in Valmanente. In un lato c’è una scena figurata, nell’altro l’iscrizione. Si conservano le prime tre righe, quasi complete, e resti di una quarta riga in corrispondenza della frattura in basso. L’iscrizione è sinistrorsa e come la precedente è racchiusa da una cornice a volute

L’ultima è presente su un frammento di stele in arenaria conservato nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche di Ancona. In passato si riteneva provenisse da Belmonte mentre più probabilmente proviene anch’essa da S. Nicola in Valmanente. Solo l’angolo a destra in basso risulta arrotondato e lisciato, per il resto, sia il bordo, sia la superficie superiore è lasciata grezza. La superficie figurata ed iscritta è invece abbastanza piana anche se leggermente abrasa a sinistra. Con ogni probabilità è stato utilizzato lo stesso strumento sia per la raffigurazione che per l’incisione. Quasi al centro della lastra c’è l’incisione figurata di una scena di caccia a cavallo. L’animale sulla sinistra, non del tutto visibile perché danneggiato dall’abrasione della lastra, che sembrerebbe un cane o un lupo sta di fronte ad un cavaliere armato di lancia. In basso l’iscrizione, sinistrorsa, di cui si conserva la prima riga incompleta e tracce della seconda riga.

Che lingua era quella Nord Picena ? E’ assai complicato dirlo, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che le iscrizioni fossero un falso ottocentesco. Ipotesi, allo stato attuale, però difficile da sostenere: per prima cosa, i falsari dell’epoca, concentrati soprattutto a Roma, si dedicavano alla creazioni di reperti di pregio, statue, ceramiche, bronzi, gioielli, facilmente piazzabili nel mercato antiquario, piuttosto che a steli di difficili collocazioni.

La valutazione dell’entropia di Shannon ha mostrato come le iscrizioni siano compatibili con un messaggio di senso compiuto, piuttosto che con un aggregato casuale di simboli. Infine, l’analisi della fonetica e della morfologia delle frasi ha mostrato la loro appartenenza a un sistema linguistico compiuto.

Se non sono un falso costruito a tavolino, le iscrizioni testimoniano quindi l’esistenza di una lingua, probabilmente di matrice indoeuropea, ricca di prestiti sia greci, sia etruschi…

 

Il Teatro Romano di Milano

L’importanza di Mediolanum, nell’antica Roma, cominciò progressivamente a crescere ai tempi di Cesare: il divo Giulio, infatti utilizzò la città come base logistica per organizzare la sua spedizione in Gallia e per arruolare i soldati della fedelissima Legio X, tanto che nel 49 a.C., nell’ambito della La Lex Roscia, presentata dal pretore Lucio Roscio Fabato, che concedeva il Plenum ius ai cittadini della provincia della Gallia Cisalpina, ossia la cittadinanza romana, venne elevata allo status di municipium civium romanorum.

Il processo continuò ai tempi di Augusto, accentuato dalla conquista di Rezia e Norico, di cui Mediolanum costituiva il punto di riferimento politico ed economico: di conseguenza, la città fu oggetto di una ristruttuazione urbanistica, che portò alla costruzione di nuove infrastrutture e di edifici pubblici, a testimonianza dello status raggiunto.

Il primo grande edificio pubblico di Mediolanum, quasi a essere un presagio del futuro, fu un teatro, eretto nella zona occidentale della nei pressi di Porta Vercellina e delle mura, non lontano dal decumano massimo, le nostre via Santa Maria alla Porta e via Santa Maria Fulcorina, che portava al Foro cittadina.

Scelta che dipese da due fattori: da una parte, la presenza di importanti strade facilitava l’accesso al teatro da parte del pubblico, sia proveniente dalla città sia che venisse dalle zone limitrofe. Dall’altra, l’area coincideva, come testimoniano i resti di lussuose domus, con la “Milano Bene”, in cui dimoravano le élite della città, pronte a finanziare, per motivi di prestigio, gli spettacoli teatrali.

Il teatro, nella Gallia Cisalpina dell’epoca, faceva la sua porca figura… Dalla forma semicircolare, come prescriveva il buon Vitruvio, era alto 20 metri, con un diametro di 95 metri e una capienza di 8 000 spettatori, in un’epoca in cui Mediolanum contava all’incirca 18 000 abitanti. Grazie alla sua altezza, superava le mura cittadine che sorgevano poco lontano e quindi poteva fungere da punto di riferimento per i viaggiatori e i mercanti che provenivano dalla via delle Gallie, che conduceva verso Augusta Prætoria (Aosta) passando da Novaria (Novara) e che portava poi in Gallia Transalpina, e la via Gallica, arteria stradale che collegava Mediolanum a Augusta Taurinorum (Torino) passando da Vercellae (Vercelli).

Il teatro aveva, ovviamente una facciata esterna curva, a due piani, con oltre quindici arcate per ciascun livello, che ospitava, sul suo lato interno, la cavea, le gradinate degli spettatori, che poggiavano su camere inferiori con soffitto a volta, disposte a raggiera intorno al palco per gli attori , il pulpitum. Un corridoio centrale divideva le gradinate in due settori, permettendo al pubblico di accedere al posto assegnato.

Nel palco destinato agli attori la parete di fondo (frons scaenae) aveva colonne di marmo bianco e in calcare disposte su due o tre piani, tra le quali erano collocate nicchie con statue. Esternamente al teatro, adiacente al palco degli attori, era presente un grande porticato coperto rettangolare (porticus post scaenam) con colonne di ordine ionico, chiuso all’esterno, e provvisto di giardino centrale destinato alla sosta degli spettatori durante le pause delle rappresentazioni oppure in caso di pioggia.

I muri del teatro romano di Milano erano costituiti da file di ciottoli alternate, superiormente e inferiormente, da file di mattoni. Le mura del teatro erano rivestite da pietra oppure da un intonaco.

L’edificio seguì tutte le traversie della Milano romana: da una parte, quando divenne capitale imperiale, fu arricchito di marmi e di opere d’arte. Ausonio, il gran ruffiano, lo cita nella sua guida turistica poetica della città

A Mediolanum ogni cosa è degna di ammirazione, vi sono grandi ricchezze e numerose sono le case nobili. La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura. Vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, la rocca del palazzo imperiale, la zecca, il quartiere che prende il nome dalle terme Erculee. I cortili colonnati sono adornati di statue di marmo, le mura sono circondate da una cinta di argini fortificati. Le sue costruzioni sono una più imponente dell’altra, come se fossero tra loro rivali, e non ne diminuisce la loro grandezza neppure la vicinanza a Roma.

Dall’altra, come dire, rese più popolari i suoi spettacoli, rendendoli più adatti a un pubblico di bocca buona. Alla fine del IV secolo, secondo quanto riferisce il poeta Claudiano, la sua orchestra fu trasformata in una specie di piscina dove mime seminude si esibivano in danze.

Il teatro mantenne la sua funzione originaria fino al IV o al V secolo, quando gli editti di Teodosio e la progressiva conquista di potere da parte della Chiesa iniziarono ad ostacolare le rappresentazioni teatrali e i giochi negli anfiteatri.

L’ultimo spettacolo di cui ci è giunta notizia è la proclamazione a console, all’interno del teatro, di Manlio Teodoro, uno scrittore e grammatico romano, amico di Sant’Agostino e autore di un trattato di metrica latina assai noto nel Medioevo. In tale occasione si svolse anche una naumachia. Dopo questa ultima rappresentazione teatrale, l’edificio iniziò a essere spogliato degli arredi e dei materiali più preziosi.

Chiesa_di_San_Vittore_al_teatro

Tuttavia, l’edificio non fu abbandonato, diventando progressivamente sede delle riunione dell’assemblea cittadina: come gran parte della città, il teatro venne distrutto da Federico Barbarossa nell’assedio di Milano del 1162. Di conseguenza, l’edificio divenne una sorta di cava a cielo aperto, per fornire materiale per la ricostruzione, e sulle sue rovine cominciarono a costruire chiese, tra cui la chiesa di San Vittore al Teatro, fondata nel 1170, da San Galdino, tanto brontolone, quanto generoso nell’assistere i poveri e gli afflitti, nel luogo dove si era nascosto per sfuggire alle soldataglie tedesche.

Secondo un disegno della chiesa al 1605, la chiesa, in mattoni e in stile tardo gotico, la pianta aveva forma rettangolare suddivisa in tre navate. Il presbiterio era rialzato dal resto dell’aula e protetto da una balaustra che riprendeva la forma semicircolare dell’abside: vi erano due cappelle laterali sul lato sinistro della chiesa dando le spalle all’altare.

Nel 1622 la chiesa fu ricostruita su progetto di Francesco Maria Richini, architetto barocco tanto geniale, quanto sottovalutato, nelle forme che l’edificio ebbe fino alla sua demolizione: la nuova struttura si presentava ad un’unica navata con cinque cappelle, con una splendida facciata, simile a quella del Santuario di Sant’Invenzio a Gaggiano. Peccato che fu demolita nel 1911.

I resti del teatro vennero rapidamente ricoperti da altre costruzioni e dell’antica struttura romana si perse memoria venendo riscoperta solo verso la fine del XIX secolo, nel 1880, durante la costruzione di Palazzo Turati, in stile neorinascimentale, che prende il nome dai committenti, due ricchissimi commercianti di cotone dell’epoca. I mezzi dell’epoca non permisero però il riconoscimento del tipo di edificio a cui appartenevano i ruderi, benché il progettista del palazzo, Enrico Combi, si espresse più volte a favore di tale interpretazione

Nel 1929 sorse sui suoi resti anche Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa di Milano; la camera di Commercio meneghina, che trovava inadeguata la vecchia sede a Piazza Cordusio, aveva comprato palazzo Turati, con l’intenzione di ristrutturarlo e trasferirvi le sue attività.

Ma l’architetto Paolo Mezzanotte, all’epoca assai quotato, li convinse a finanziare un nuovo palazzo, più moderno e adeguato alle esigenze di Piazza Affari. E mantenne le promesse, dato che realizzò una struttura all’avanguardia per l’epoca in Italia: fu il primo a prevedere l’esecuzione automatica delle chiamate simultanee degli ascensori, aveva un sistema di condizionamento dell’aria funzionante con acqua e vapore ed ospitava il più grande quadro luminoso elettrico d’Italia che permetteva la visione della quotazione in tempo reale dei 78 titoli ammessi alla Borsa di Milano.

Durante i lavori, Paolo Mezzanotte si accorse delle rovine romane: invece di demolire e interrare tutto, come successo spesso, anche in tempi recenti, a Milano, contattò l’archeologa Alda Levi, all’epoca responsabile della Regia Soprintendenza ai Monumenti di Milano, che finalmente riuscì a riconoscerli pertinenti al Teatro Romano.

Ulteriori studi vennero effettuati verso la fine degli anni quaranta e da alcune indagini archeologiche nel 1988 e nel 2005.

I resti del teatro sono visitabili, almeno quando vivevo e lavoravo su, gratuitamente e previa prenotazione, nei sotterranei di Palazzo Turati in via San Vittore al Teatro 14. Oltre a una presentazione dell’antica Mediolanum, sono visibili anche alcuni capitelli, probabilmente appartenenti al palco degli attori, una porzione di una colonna del muro che faceva da sfondo al palco, lo scavo di un pozzo medioevale, un piccolo forno, pali di fondazione originali in legno di rovere, alcune parti delle fondamenta dell’edificio e alcuni resti del porticato colonnato esterno che era adiacente al palco. Tra i resti si riconosce anche un corridoio pedonale semicircolare che divideva la gradinate più elevate (summa cavea) dalle gradinate più basse (ima cavea).

Altri resti del teatro sono stati rinvenuti in piazza Affari 5 e in piazza Affari 6, con il primo sito che non è visitabile da parte del pubblico e il secondo che lo è solo su richiesta. In piazza Affari 5 sono situati due pilastri in pietra facenti parte della parete curvilinea del teatro, quella delle gradinate degli spettatori, mentre in piazza Affari 6, nei sotterranei di Palazzo Mezzanotte, sono conservate parte delle fondamenta del palco degli attori.

L’oratorio dei Sette Dormienti

Su via di Porta San Sebastiano, al numero civico 7, vi è un oratorio dedicato ai Sette Dormienti, i protagonisti di una leggende cristiana tanto diffusa nell’alto Medioevo, da essere persino citata, o meglio parafrasata, dalla Sura XVIII del Corano.

Questa narra come, durante la persecuzione dell’Imperatore Decio, alcuni giovani cristiani di Efeso decidessero di fuggire dalla città e di nascondersi in una grotta sulle pendici del monte Pion. Ogni sera, uno di loro, di nome Malco, travestito da mendicante, scendeva in città, sia per capire che aria tirasse, sia per rimediare acqua e cibo.

Per loro sfortuna, un oste di Efeso, allettato dalla promessa di una ricompensa, fece la spia all’Imperatore, il quale, visto che i giovani non volevano uscire dalla grotta, decise di murarne l’ingresso, convinto che così morissero di fame.

Ma i giovani tanto pregarono, da cadere rapidamente preda di un sonno miracoloso: i loro confratelli, non avendo più notizie, li considerarono morti e cominciarono a venerarli come martiri. Quasi 200 anni dopo a Costantinopoli regnò l’Imperatore Teodosio II, di fede cristiana, ma attraversato da atroci dubbi: non riusciva a credere nella resurrezione dei corpi. Proprio allora un umile pastore di Efeso, per divina ispirazione, condusse il suo Vescovo davanti alla grotta e fece abbattere, col suo permesso, il muro che la chiudeva; i dormienti si risvegliarono, credendo di aver dormito una sola notte. Il prelato allora avverti Teodosio e come racconta la Leggende Aurea

sì tosto come i sette ebbero veduto lo Imperatore, risplendettero le facce come sole, ed entrato lo Imperatore, gittossi dinanzi ai piedi loro, glorificando Iddio… Allora disse uno de’ Santi:

“Credi a noi che a le tue cagioni ci ha risuscitato il Signore, innanzi al gran dì de la resurrezione, acciò che tu creda senza verun dubbio”

E dette queste cose, veggendo tutti quanti, inchinarono i capi in terra e dormirono in pace, e renderono gli spiriti loro secondo il comandamento di Dio

L’oratorio, in verità, come tanti luoghi sull’Appia Antica, ha una lunga storia di ristrutturazione e cambi di destinazione d’uso. Alla prima fase, l’epoca tardo repubblicana, risalgono due tombe monumentali, costruite in blocchi squadrati di peperino, poggianti su un basamento in travertino. Tombe che appartengono alla tipologia “sepolcri a dado”, il cui aspetto poteva essere simile a un mausoleo presente proprio all’Esquilino, a Piazza di Porta Maggiore, simile per dimensioni e materiali.

E possiamo ipotizzare come fosse simile anche la decorazione, consistente in un fregio dorico con teste bovine, rosette e margherite a bassorilievo, sormontato forse da un altro coronamento. In entrambi i casi, doveva essere presente un’iscrizione che lodava le virtù del defunto e forse anche una statua, per eternarne l’aspetto.

Ora, il rapporto tra le tombe e il paesaggio circostante va inquadrato nell’ambito della ricostruzione del tracciato originario dell’Appia repubblicana, tuttora sconosciuto. Nel tratto occupato dalle sepolture la via probabilmente correva più ad est dell’attuale via di Porta San Sebastiano, coerentemente con altre testimonianze coeve, come il complesso degli Scipioni o il sepolcro repubblicano di Vigna Codini.

In epoca giulio – claudia davanti alle due tombe fu costruito un piccolo colombario, che nascose le tombe più antiche e al quale si accedeva probabilmente da un diverticolo del nuovo tracciato dell’Appia, voluto da Tiberio.

Piccola divagazione, prima di continuare: per chi non lo sapesse, il colombario era un tipo di costruzione funeraria molto diffusa fra i romani come forma di tumulazione collettiva, l’equivalente antico della nostra tomba a fornetti.

Il colombario è costruito in mattoni lasciati a vista all’esterno e intonacati all’interno; è andata distrutta la copertura a volta, in conglomerato cementizio, di cui rimangono alcune tracce dell’attacco sulle pareti, e la parte di muratura sovrastante la porta.

Al colombario si accedeva da una apertura piuttosto stretta con una soglia in marmo ancora in situ; all’interno l’edificio era diviso in due ambienti da un muro trasversale, che oggi si conserva fino all’altezza di cm 65 dal piano di calpestio, ma che originariamente doveva arrivare fino al soffitto, come indica l’assenza di intonaco sulla parete di appoggio per tutta l’altezza dell’ambiente.

Lungo le pareti maggiori e per un tratto della parete di ingresso corrono dei banconi in muratura di laterizi intonacati, mentre al centro della parete di fondo è addossato un podio a due ripiani. Il pavimento è realizzato in mosaico a tessere bianche e nere con una decorazione a tappeti geometrici.

Nella parete di fondo, in posizione centrale, si apre una grande nicchia contenente un’olla e fiancheggiata da due lesene leggermente strombate; questa edicola costituisce il fulcro dell’organizzazione architettonico – decorativa del piccolo ambiente ed è infatti sottolineata da una decorazione dipinta di colore rosso.

La decorazione è completata anche dalla presenza di un un riquadro con un paesaggio sacrale, in stucco in cui spiccano un recinto disposto su due livelli, una colonna, un albero e probabilmente una fiaccola: si tratta di un motivo ispirato alla pittura di paesaggi miniaturistici tipica del secondo, ma soprattutto del terzo stile e che si rifà a sua volta ai ben noti paesaggi di grandi dimensioni rappresentati nella casa di Augusto o nel triclinio della casa di Livia.

In ambito funerario le attestazioni più significative si riscontrano nelle pitture e negli stucchi del colombario di Villa Doria Pamphili o nei ben noti stucchi della basilica funeraria ipogea sotto Porta Maggiore. Ora il colombario dei Sette Dormienti per le sue caratteristiche architettoniche e le sue ridotte dimensioni sembra configurarsi come un colombario di una famiglia alto borghese dell’epoca.

Ad un periodo successivo, da collocarsi nella media età imperiale, sembrano potersi ricondurre un insieme di tracce, che vediamo sparse all’interno del complesso: due soglie in pietra molto vicine tra loro prospicienti il basolato della strada, lacerti di alcune pavimentazioni musive non in situ ed una vasca, ancora in posto, pavimentata a mosaico, nonché un piccolo e variegato gruppo di iscrizioni funerarie.

Il mosaico citato rappresenta, con tessere bianche e nere, atleti che lottano tra di loro, contraddistinti da nomi ancora in parte leggibili. E’ ben distinguibile, nella parte alta, un personaggio nell’atto di consegnare il premio al vincitore,

Il tutto farebbe pensare un insieme di ambienti probabilmente a carattere residenziale e/o termale in stretta connessione con il tracciato della strada, cosa che potrebbe anche testimoniata anche dalle fonti: la Notitia attesta nella Regio I un balneum Bolani, ossia delle terme private fatte costruire da un membro della famiglia dei Vettii Bolani, ascesa agli onori del consolato una prima volta in età neroniana (66 d.C.),con il console M. Vettius Bolanus, e una seconda volta durante il regno di Traiano (111 d.C.), con il figlio omonimo.

Intorno al VI secolo, parti dei resti del presunto balneum Bolani furono trasformate nell’oratorio, che fu decorato da affreschi. La più antica fonte scritta che ne attesta l’esistenza è il Catalogo di Torino del 1313, nel quale è indicato come ecclesia Sancti Archangeli ed è elencato in ordine topografico tra le chiese di S. Cesareo in Turri e S. Giovanni a porta Latina, poste rispettivamente a nord e a sud.  La dedica dell’edificio ai Santi orientali è attestata invece per la prima volta nel 1757, quando Alberto Cassio attribuisce al pontefice Clemente XI nel 1710 la decisione di restaurarlo.

In una fase successiva, l’oratorio fu sconsacrato e trasformato in un deposito di formaggi per un vicino casale della vigna Pallavicini; nel 1875, Mariano Armellini, il grande studioso di archeologia cristiana, autore de Le Chiese di Roma, lo riscoprì per pura cosa. Così Mariano commentò il ritrovamento

È un oratorio che fu dedicato all’Arcangelo s. Gabriele, del quale rimane nella nicchia di fondo l’imagine in figura d’orante colle braccia aperte, e sotto alla imagine v’è il suo nome: Gabriel. È veramente deplorevole che un monumento così insigne per la storia del culto e per le pitture che ne adornano tuttora le pareti, giaccia abbandonato e ridotto ad uso di cellaio campestre e deposito d’immondizie

Della decorazione originaria dell’oratorio è ancora leggibile quella dell’abside, in cui è rappresentato un Cristo Pantocrator, all’interno della lunetta superiore, nell’atto di benedire; alla sua sinistra e alla sua destra vi sono due schiere di Angeli con le ali distese e in atto di ossequio; al lato degli angeli vi sono due figure, a sinistra un uomo con barba e un nome scritto, quello di Beno, a destra una figura femminile, quasi sicuramente i committenti dell’opera. Più in basso, sulla sinistra compaiono le figure di tre Santi mentre sulla destra s’intravedono quelle di tre Sante. L’arcangelo Gabriele è invece rappresentato al centro di una nicchia semisferica, con le braccia aperte in posizione orante. Infine sulla parete di destra, rispetto all’ingresso s’intravedono varie figure tra cui: un monaco, due Angeli e vari Santi non ben distinguibili.

Le paturnie di Giulio II

sistina

Michelangelo, dopo avere avuto l’approvazione papale per il Mausoleo e abbastanza convinto del progetto dell’edificio di Sangallo, partì pieno di entusiasmo, alla volta delle cave di Carrara, dove desiderava scegliere personalmente ogni singolo blocco di marmo da impiegare, lavoro che richiese otto mesi, dal maggio al dicembre del 1505.

Secondo il fedele biografo Ascanio Condivi, in quel periodo Michelangelo pensò a un grandioso progetto, di scolpire un colosso nella montagna stessa, che potesse guidare i naviganti: i sogni di tale irraggiungibile grandezza facevano parte dopotutto della personalità dell’artista e non sono ritenuti frutto della fantasia del biografo, anche per l’esistenza di un’edizione del manoscritto con note appuntate su dettature di Michelangelo stesso (in cui l’opera è definita “una pazzia”, ma che l’artista avrebbe realizzato se avesse potuto vivere di più). Nella sua fantasia Michelangelo sognava di emulare gli antichi con progetti che avrebbero richiamato meraviglie come il colosso di Rodi o la statua gigantesca di Alessandro Magno che Dinocrates, citato in Vitruvio, avrebbe voluto modellare nel Monte Athos.

Tornato però a Roma, Michelangelo si trovò davanti una pessima sorpresa: Giulio II aveva cambiato idea sul progetto suo e di Sangallo, rimandato alle calende greche. Condivi e Vasari, per una volta sono concordi su una cosa: dare la colpa di tutti a Bramante.

Accusa, assai probabilmente infondate: per dirla tutta, a Donato, la storia del Mausoleo faceva solo che comodo, dato che lo liberava dalla necessità di dovere tenere conto, nella costruzione della sua San Pietro, di quell’incubo che era diventato il coro del Rossellino.

Poi, diciamola tutta, Bramante, che non aveva mai strozzato i colleghi dal pessimo carattere, come Solari e lo stesso Giuliano da Sangallo, con cui era costretto a collaborare dalle paturnie dei committenti, non era il genere di persona che gode nel metterei bastoni tra le ruote all’altro. Lo stesso Vasari, nella biografia che gli aveva dedicato, così descrive il suo carattere

Fu Bramante persona molto allegra e piacevole, e si dilettò sempre di giovare a’ prossimi suoi. Fu amicissimo delle persone ingegnose e favorevole a quelle in ciò che e’ poteva; come si vede che egli fece al grazioso Raffaello Sanzio da Urbino, pittor celebratissimo, che da lui fu condotto a Roma. Sempre splendidissimamente si onorò e visse, et al grado, dove i meriti della sua vita l’avevano posto, era niente quel che aveva a petto a quello che egli avrebbe speso. Dilettavasi de la poesia, e volentieri udiva e diceva in proviso in su la lira, e componeva qualche sonetto, se non così delicato come si usa ora, grave almeno e senza difetti. Fu grandemente stimato dai prelati e presentato da infiniti signori che lo conobbero

Papa-Innocenzo-VIII-tomba-San-Pietro

Ma allora, cosa diavolo era successo? Per prima cosa, si era fatto i conti in tasca. L’edificio concepito da Giuliano da Sangallo, pur essendo bello, nobile e maestoso, aveva i suoi costi. In più Michelangelo, il quale aveva un rapporto patologico con il denaro, a Carrara stava caricando senza ritengo e dignità le sue note spese, facendone abbondantemente la cresta.

A fronte di questo esborso, c’era il famigerato coro del Rossellino, completato sino a una decina di metri d’altezza: per cui, piuttosto che impegnarsi in cantiere parallelo, Giulio II si cominciò a interrogare sul fatto se fosse stato più conveniente concludere l’opera quattrocentesca, ovviamente modernizzata, trasformandola nella cosiddetta Cappella Giulia, e piazzarsi un tradizionale sepolcro a parete, simile a quello realizzato da Antonio del Pollaiolo per Innocenzo VIII, magari scolpito dallo stesso Michelangelo.

Poi, il Papa doveva affrontare la pressione del suo parentado, che lo accusava, con il progetto del Mausoleo, di avere violato la tradizione di famiglia e deluso le aspettative: essendo stato il coro della Basilica dei Santi Apostoli era stato riempito di tombe a pareti di Della Rovere e dei Riario, si aspettavano la stessa cosa anche nella nuova San Pietro…

Infine, c’era un problema architettonico, che nessuno dei tre protagonisti, Bramante, Sangallo e Michelangelo, si era posto. Però prima di introdurlo, una piccola premessa, da tenere in mente anche nei post successivi sul cantiere di San Pietro.

Secondo Vasari, Bramante, dovendo stare dietro alle paturnie di Giulio II, produsse una quantità industriale di disegni e progetti architettonici. Purtroppo, ne sono rimasti solo quattro: si tratta dei numeri 1A, 8Av, 20A e 7945A della collezione degli Uffizi. Per cui, molti degli aspetti del processo progettuale ci sono rimasti ignoti e possono essere ricostruiti solo per via induttiva o per testimonianza indiretta.

Questo vale anche per il cosiddetto Progetto 0, la prima soluzione che Bramante presentò per San Pietro. Secondo un passo della Historia viginti saeculorum di Egidio da Viterbo, Donato propose in un primo momento un edificio a pianta centrale, probabilmente molto simile alla chiesa paleocristiana di San Lorenzo, con l’ingresso rivolto verso meridione, in asse con l’obelisco vaticano e con il probabile luogo destinato al Mausoleo di Michelangelo e Sangallo, la cui superficie copriva quella della vecchia navata costantiniana.

In questo modo, non si sarebbe dovuto tenere conto del coro del Rossellino il sacrario della basilica sarebbe rimasto intatto durante i lavori di costruzione; dopodiché, si sarebbe potuto trasferire l’altare principale nel tempio nuovo.

Idea a prima vista sensata e razionale, ma che non teneva conto di una questione: la necessità di spostare la tomba di San Pietro, per porla sotto all’altare della nuova chiesa. Appena Giulio II se ne rese conto, rischiò un coccolone e mise il veto al Progetto 0, intimando a Bramante di elaborare un progetto adatto all’area del sacrario vecchio, impicciandosi nella topografia tanto intricata del luogo, riprendendo le dimensioni dell’edificio costantiniano e integrato con il suddetto coro quattrocentesco, che dato che c’era, in qualche modo doveva essere utilizzato.

Per cui, Donato fu costretto a impegnarsi nell’effettuare. il rilievo della pianta della basilica e delle fondamenta di Nicolò V, prima di elaborare una nuova proposta. Ora, Giulio II dovette anche impegnarsi a trovare una nuova collocazione ai due disoccupati, Sangallo e Michelangelo.

Il primo fu collocato, con un ricco stipendio, come secondo architetto di San Pietro, dando così il via a una complessa e a volte tempestosa collaborazione con Bramante. Ben più complessa, dato il suo caratteraccio, fu la questione con Michelangelo.

Appena saputo della sola ricevuta, il fiorentino chiese invano un’udienza chiarificatrice a Giulio II per avere la conferma della commissione ma, essendo il Papa in tutt’altre faccende affaccendato, l’artista non riuscendo a farsi ricevere nonché sentendosi minacciato, era anche un poco paranoico, scrisse

s’i’ stava a Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa

fuggì da Roma sdegnato e in tutta fretta, il 18 aprile 1506. A niente servirono i cinque corrieri papali mandati per dissuaderlo e tornare indietro, che lo inseguirono raggiungendolo a Poggibonsi. Michelangelo Rintanato nell’amata e protettiva Firenze, riprese alcuni lavori interrotti, come il San Matteo e la Battaglia di Cascina. Ci vollero ben tre brevi del papa inviate alla Signoria di Firenze e le continue insistenze del gonfaloniere Pier Soderini

Noi non vogliamo per te far guerra col papa e metter lo Stato nostro a risico

Per non sentire Soderini, Michelangelo, racconta sempre Condivi

pensò d’andarsene in Levante, massimamente essendo stato dal Turco ricercato, con grandissime promesse, per mezzo di certi frati di San Francesco, per volersene servire in far un ponte da Costantinopoli a Pera, et in altri affari. Ma cio sentendo il Gonfaloniere, mandò per lui, et lo distolse da tal pensiero, dicendo che piuttosto eleggerebbe di morire andando al Papa, che vivere andando al Turco: non dimeno che di cio non dovesse temere, percioche il Papa era benigno et lo richiamava, per che gli voleva bene, non per fargli dispaicere. Et se pur temeva, che la Signoria lo mandarebbe con titolo d’Ambasciatore, per cioche à le persone publiche non si suol far violenza, che non si faccia à che gli manda

Dinanzi a tali parole, Michelangelo si decise a prendere in considerazione l’ipotesi della riconciliazione con Giulio II. L’occasione venne data dalla presenza del papa a Bologna, dove aveva sconfitto i Bentivoglio: qui l’artista raggiunse il pontefice il 21 novembre 1506 in un incontro così raccontato da Condivi

Giunto a’dunque una mattina in Bologna, et andando a San Petronio per udir messa, eccoti i Palafrenieri del Papa, iquali riconoscendolo lo condussero inanzi à sua Santità, che era à tavola, nel palazzo de’sedici.

Il quale poi che in sua presenza lo vidde, con volto sdegnato gli disse. Tu havevi a venire a trovar noi, et hai aspettato che noi vegniamo a trovar te. Volendo intendere, che essendo sua Santità venuta a Bologna, luogo molto piu vicino a Fiorenza che non è Roma, era come venuto a trovar lui. Michelagnolo inginocchiato, ad alta voce gli domandò perdono, scusandosi di non havere errato per malignità, ma per isdegno, non havendo potuto sopportare d’essere cosi cacciato: come fu. Stavasene il Papa a capo basso, senza risponder nulla, tutto nel sembiante turbato, quando un Monsignore, mandato dal Cardinal Soderini per iscusare et racommandar Michelagnolo, si volse interporre, et disse, vostra Santità non guardi al error suo, percioche ha errato per ignoranza. I dipintori, dal arte loro in fuore, son tutti cosi. A cui il Papa sdegnato rispose. Tu gli di villania, che non diciamo noi. Lo’gnorante sei tu e lo sciagurato non egli. Lievamiti dinanzi in tua mal’hora. Et non andando, fu da servitori del Papa, con matti frugoni (come suol dir Michelagnolo) spinto furore. Cosi il Papa havendo il più della sua collera sborrata sopra il vescovo, chiamato più a costo Michelagnolo, gli perdonò, et gli commesse che di Bologna non partissse, fin ch’altra commesssione da lui non gli fusse data.

Così Michelangelo ottenne l’incarico di fondere una scultura in bronzo che rappresentasse Giulio II a figura intera, seduto e in grande dimensione, da collocare al di sopra della Porta Magna di Jacopo della Quercia, nella facciata della basilica civica di San Petronio.

L’artista si fermò quindi a Bologna per il tempo necessario all’impresa, circa due anni. A luglio 1507 avvenne la fusione e il 21 febbraio 1508 l’opera venne scoperta e installata, ma non ebbe vita lunga. Poco amata per l’espressione del papa-conquistatore, più minacciosa che benevolente, fu abbattuta in una notte del 1511, durante il rovesciamento dalla città e il rientro temporaneo dei Bentivoglio. I rottami, quasi cinque tonnellate di metallo, vennero inviati al duca di Ferrara Alfonso d’Este, rivale del papa, che li fuse in una bombarda, battezzata per dileggio la Giulia, mentre la testa bronzea era conservata in un armadio. Una parvenza di come doveva apparire questo bronzo michelangiolesco possiamo averla osservando la scultura di Gregorio XIII, ancora oggi conservata sul portale del vicino Palazzo Comunale, forgiata da Alessandro Menganti nel 1580.

I rapporti con Giulio II rimasero comunque sempre tempestosi, per il caratteraccio di entrambi. A marzo del 1508 l’artista si sentiva sciolto dagli obblighi col pontefice, prendendo in affitto una casa a Firenze e dedicandosi ai progetti sospesi, in particolare quello degli Apostoli per la cattedrale. Nell’aprile Pier Soderini gli manifestò la volontà di affidargli una scultura di Ercole e Caco. Il 10 maggio però una breve papale lo raggiunge ingiungendogli di presentarsi di corsa Roma

Subito Giulio II decise di occupare l’artista con una nuova, prestigiosa impresa, la ridecorazione della volta della Cappella Sistina A causa del processo di assestamento dei muri, si era infatti aperta, nel maggio del 1504, una crepa nel soffitto della cappella rendendola inutilizzabile per molti mesi; rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la volta aveva bisogno però di essere ridipinta. Ma questa è un’altra storia…

 

Mastarna, i Vibenna e i Tarquini

TombeFrancoisRuspi

Questa estate, mi pare, parlando del mio nuovo romanzo, con protagonista Claudio, accennai al discorso pronunciato da quell’imperatore a favore dell’annessione nell’ordine senatorio dei maggiorenti della Gallia Comata e alla sua trascrizione in una tavola di bronzo, ritrovata a Lione nel 1528, lievemente diversa da quella riportata dal buon Tacito negli Annales.

In particolare, per convincere quelle teste dure dei senatori romani, l’imperatore, da sommo erudito che era, accennò a diversi episodi della storia passata dell’Urbe. In particolare, in un brano, parlò di alcune vicende su cui avevano sorvolato diversi annalisti e storici latini

Un tempo i re ressero questa città, e tuttavia non capitò mai che la trasmettessero ad un successore appartenente alla stessa casata. Sopraggiunsero estranei ed alcuni perfino stranieri. Di modo che a Romolo successe Numa che veniva dalla Sabina, un vicino, mi direte: certamente, ma all’epoca uno straniero; e così ad Anco Marcio successe Prisco Tarquinio.

Questi era ostacolato dal suo sangue impuro, poiché era nato da un padre proveniente da Corinto, Demarato, e da una madre di Tarquinia, sì, ed anche di nobili natali, ma ridotta in povertà al punto da avere la necessità di soggiacere a un tale marito: perciò in patria era tenuto lontano da qualsiasi carica pubblica; ma quando emigrò a Roma, ottenne il regno.

Fra lui ed il figlio o il nipote – infatti su questo punto v’è divergenza fra gli storici – si inserì Servio Tullio. Questi,se seguiamo i nostri autori sarebbe nato da una prigioniera di guerra, Ocresia, se seguiamo quelli etruschi sarebbe stato un tempo sodale fedelissimo di Celio Vivenna, e compagno d’ogni sua avventura. Egli, dopo aver incontrato varia fortuna ed essere uscito dall’Etruria coi resti dell’esercito di Celio, occupò il monte Celio, che dal suo comandante chiamò Celio, e mutato il proprio  nome – infatti in etrusco il suo nome era Mastarna – ottenne il regno con grande utilità dello Stato.

Il primo dato che emerge e di come la successione regale, nei primi due secoli della storia di Roma, non passasse da padre in figlio, ma seguisse vie alquanto più complicati. Alcuni studiosi hanno ipotizzato come la regalità fosse ereditata in via femminile, passando dal suocero al genero e che quindi la necessità di segregare le figlie minori, evitando la moltiplicazione dei pretendenti, avesse portato a segregarle in un ordine sacerdotale, dando origine alle vestali.

In maniera più cinica, sospetto che la successione regale si decidesse a mazzate tra le varie gentes dei pagi, sia latine, sia sabine e si affermasse il capopopolo, il magister, con più sodales, clienti armati sino ai denti al suo seguito. A riprova di tale approccio alquanto brutale alla politica potrebbe essere nel ricordo annalistico delle brutte fini avute dai primi re, quasi tutti finiscono squartati dai senatori e gli strani riti del regifugio, in cui il rex sacrorum, il magistrato che svolgeva il ruolo di re, tabù compresi, nelle cerimonie sacre, scappava dalla curia inseguito dai senatori e del poplifugio, con l’uscita in massa l’uscita in massa (fuga) del popolo dalle porte della città.

Il secondo dato, invece conferma un sospetto che hanno parecchi storici, ossia che gli annalisti latini, nei loro racconti, si siano persi almeno un re della dinastia del Tarquini.

Il terzo, che non era mai stato approfondito dagli altri storici, era la questione dell’origine di Servio Tullio, magister populi, comandante militare, al servizio dei fratelli Aulo e Celio Vibenna. Questi due erano considerati personaggi semi leggendari, dato che gli annalisti raccontavano come avessero combattuto al fianco di Romolo contro il re Sabino Tito Tazio. Sempre per il solito Varrone, i due fratelli avrebbe posto sul mons Querquetulanus il proprio accampamento militare, dandone così nome al Celio. Arnobio fa poi riferimento a Fabio Pittore, il quale accenna all’omicidio di Aulo (la cui testa fu trovata sul Campidoglio, la cui etimologia sarebbe caput Oli, dove Oil sta per Aul), da parte di uno “schiavo di suo fratello”.

Gli eruditi, preso atto della citazione di Claudio, se ne fregarono altamente, finché nel 1857, nella necropoli etrusca di Vulci, venne alla luce, per citare lo scopritore, Alessandro François

un grande ipogeo che si comprese da subito doveva essere della massima importanza, né bisognava lasciare inosservata nessuna parte di esso

Alessandro, esplorandolo, lo scoprì

ricoperto di esimie pitture munite ciascuna figura di ben chiara iscrizione etrusca, senza della quale circostanza si sarebbe creduto che questo sepolcro avesse appartenuto ad altra epoca, tanta è la bellezza delle medesime pitture da far rammentare i bei tempi del Botticelli e del Perugino.

E scartabellando le pitture, saltarono fuori i nomi di Caile Vipinas, Celio Vibenna, Avle Vipinas, Aulo Vibenna e Macstrna, Mastarna, il che provava una tradizione annalistica etrusca, parallela a quella romana, a cui si era ispirato Claudio, autore di Tirrenikà, una storia del popolo dei Lucumoni. Tradizione confermata in seguito dal ritrovamento di uno specchio etrusco da Bolsena e quattro urne da Chiusi, rappresentanti sempre i fratelli Vibenna.

Però, il fatto che esistessero presso gli etruschi delle storie relativo ai Vibenna e Mastarna, non vuol dire però che questi personaggi fossero vissuti veramente… Ma nel 1939, negli scavi del santuario di Portanaccio di Veio, fu ritrovata la base di un calice di bucchero, risalente al VI secolo a.C. che che reca l’iscrizione

mini muluva[an]ece avile vipiienas

ovvero

donatomi da Aulo Vibenna

Un altro vaso più recente, sempre di fattura etrusca a figure rosse, oggi conservato presso il Musée Rodin di Parigi, probabilmente scoperto a Vulci, risalente al V secolo a.C., contiene l’iscrizione etrusca “coppa di Aulo Vibenna”, in memoria di questo personaggio, un secolo dopo.

Per cui, i fratello Vibenna erano esistiti, non avevano nulla a che vedere con Romolo, ma si inserivano a forza nelle complessi e poco chiare vicende della Roma dei Tarquini… E come probabilmente avesse ragione il buon Claudio.

Ossia che il figlio di Tarquinio Prisco, lo Gneo Tarquinio rappresentato nella tomba François, fosse stato defenestrato dai Vibenna, l’equivalente dell’epoca dei nostri capitani di ventura, a sua volta fatti fuori dal loro braccio destro, Servio Tullio, che per legittimarsi e mantenersi saldo sul trono, dovette concedere delle riforme, che associavano nella gestione del potere i capi delle varie gens e i ceti economici emergenti.

A sua volta, Servio Tullio fu eliminato da una congiura capeggiata da Lucio Tarquinio, Livio ci racconta che Tarquinio un giorno si presentò in Senato e si sedette sul trono del suocero rivendicandolo per sé e per citare lo storico patavini

Servio, avvertito da un trafelato messo, sopraggiunse durante il discorso, e improvvisamente dal vestibolo della Curia gridò a gran voce: “Che vuol dire cotesto, o Tarquinio? E con quale audacia osasti, me vivo, adunare i Padri e sederti sul mio seggio?

Ne nacque un’accesa discussione tra i due, che presto degenerò in scontri tra le opposte fazioni; alla fine il più giovane Tarquinio, dopo averlo spintonato fuori dalla Curia, scagliò il re giù dalle scale. Servio, ferito ma non ancora morto, fu finito dalla figlia Tullia Minore che ne fece scempio travolgendolo con il cocchio che guidava.Il luogo del misfatto ricevette in seguito l’appropriato nome di Vicus Sceleratus.

Dopo il ritorno al potere dei Tarquini, la dinastia regnante fu sconquassata da faide familiari: Giuno Bruto, Lucio Tarquinio e Tarquinio Collatino, cosa sorvolata nei libri di scuola, era tra loro cugini. Di questo, ne approfittò Porsenna, il lucumone di Chiusi, che conquistò Roma. I Tarquini, per riprendere il loro dominio, chiesero aiuto ad Aristodemo, tiranno greco di Cuma, il quale si mise a capo di una coalizione di città latine, che sconfisse Porsenna nella battaglia della Selva Aricia…

Se Lucio Tarquinio rimase a Cuma, i Tarquini cadetti presero il potere da Roma, per essere poi cacciati da un altro capitano di ventura e avventuriero, Valerio Publicola…

Il Museo dei Fossili e delle Ambre a San Valentino in Abruzzo Citeriore

San Valentino in Abruzzo Citeriore è un paesino in provincia di Pescara, che ha una storia antichissima, dato che nel suo territorio hanno trovato sia insediamenti preistorici, sia necropoli protostoriche.

Intorno all’anno 1000, fu fondato il primo stanziamento conosciuto, “Castel della Pietra”; in seguito prese il nome di “S. Valentino” quando furono traslati in situ i corpi di S. Valentino, vescovo e martire di Terracina, e di S. Damiano, durante la disputa tra i conti normanni di Manoppello e l’abbazia di San Clemente a Casauria.

Nel 1233 fu inserita nel Giustizierato d’Abruzzo creato da Federico II di Svevia, nel successivo troncone dell’Abruzzo Citeriore del territorio sud di Chieti, da cui il nome.

Nel XIV secolo subì la dominazione degli Orsini e degli Acquaviva di Atri, fino alla distruzione nel 1423 da Braccio da Montone in marcia verso L’Aquila. Nel 1487 San Valentino divenne possesso di Ferdinando d’Aragona, che lo cedette a Organtino Orsini, che nel 1507 vendette il castello alla famiglia De Tolfa. Nel 1583 passò alla famiglia Farnese, venduto a Margherita d’Austria, che restaurò il castello. Nel 1860 con l’Unità d’Italia, anche San Valentino fu interessata dal brigantaggio, e nella ruelle di Pesciuvalle si rifugiarono i fuorilegge Colafella da Sant’Eufemia e Colamarino da Roccamorice.

Ora, a San Valentino è presente un museo, più unico che raro in Italia, uno simile è quello dedicato ad Ardito Desio a Rocca di Cave, dedicato ai fossili e alle ambre, situato nella settecentesca Villa Olivieri de Cambacérès, dal nome di una proprietaria, un’aristocratica chietina morta a ventitre anni.

Villa che era stata un monastero agostiniano, costruito nel 1595 dal frate Vincenzo da Cantalice ed era dedicato a Santa Maria delle Grazie e comprende all’interno del cortile la chiesa di San Nicola da Tolentino.

Il Museo dei Fossili e delle Ambre nacque nel 2004, grazie anche all’interesse dell’allora sindaco Giannino Ammirati, per conservare un vasto repertorio di fossili risalenti agli ultimi 500 milioni di anni e una preziosa raccolta di ambre, studiate sia dal punto di vista paleontologico sia per l’utilizzo da parte dell’uomo. Il materiale proviene da due collezioni private, Santoli-Tanfi e Coccato-Antonucci, che furono donate tempo addietro al Comune di San Valentino.

Nel museo sono presenti tre sale: la Sala Paleontologica con le sezioni “Fossili” e “Uomo”, la Sala delle Ambre e la Sala dedicata alla Majella.

Nella prima sala, i fossili sono esibiti nella loro natura e con i vari processi di fossilizzazione. Diverse centinaia i reperti, tutti originali e appartenenti ai principali gruppi animali e vegetali, provenienti da importanti giacimenti italiani ed esteri. Essi sono collocati all’interno di teche appositamente progettate, corredate da materiale esplicativo. Grandi pannelli illustrano gli eventi epocali come la nascita degli oceani moderni, le variazioni climatiche e le forme di vita. Vengono esposti anche reperti di organismi vissuti in passato come insetti, piante, rettili. La sezione “Uomo” espone invece in sintesi l’evoluzione dell’Uomo sapiens.

L’esposizione della Sala delle Ambre propone oltre 200 esemplari di resina fossile prodotta da alberi e presenta numerosi reperti con inclusioni animali e vegetali, come ragni, insetti, foglie e fiori, perfettamente conservati per milioni di anni e quindi di grande importanza paleontologica e fascino. Tra le vetrine di maggiore interesse quella dedicata all’ambra dominicana, celebre per le sue sfumature di giallo, verde, azzurro, marrone e nero, o all’ambra baltica dal colore bianco opaco per la presenza all’interno, di milioni di micro bollicine d’aria e vapore. Altra importante presenza è quella della rara ambra blu, con vari esemplari grezzi e lavorati; all’ambra cinese è dedicato poi un espositore con pezzi grezzi e levigati, sculture, monili e alcune preziosissime borchie per abiti, risalenti al XVIII secolo. La collezione prosegue con collane, bracciali e riproduzioni di statuette precolombiane di provenienza messicana. A concludere il percorso la simetite, preziosa e rarissima ambra siciliana, proveniente dalla Piana di Catania.

La terza sala racconta invece i 165 milioni di anni di storia naturale della Majella, quando tutto era mare e atolli corallini, come nelle Bahamas, acque calde e squali che nuotavano indisturbati. Sono quindi presenti denti di squalo da Lettomanoppello, ammoniti dal Gran Sasso, riccio marino da San Valentino, coralli da Cima Murelle, pesci fossili da Abbateggio e da Capo Fiume di Palena, lumache di mare da Scontrone e da Vasto, spugne, stelle marine.

I fossili della Majella sono stati allestiti dall’Associazione Amici del Museo, classificati e catalogati in collaborazione con i paleontologi Alberto Tanfi, curatore della collezione, Giorgio Carnevale e Erminio Di Carlo, scomparso alcuni anni fa, paleontologo autodidatta, riconosciuto e apprezzato dal mondo scientifico.

La Chiesa di San Domenico a Palermo (Parte III)

Ovviamente, a causa della sua lunga e complessa storia e per il fatto che dal 1840, per iniziativa di Agostino Gallo, collezionista e letterato, San Domenico svolge il ruolo di Pantheon dei siciliani illustri, la chiesa è ricchissima d’opere d’arte.

La nostra visita comincia dalla controfacciata, due magnifiche acquasantiere decorate con due rilievi marmorei che rappresentano “l’ingresso dei domenicani a Palermo” e “la benedizione della chiesa”, vicende che, date tutte le traversie passate, meritavano senza dubbio di essere celebrate, e sormontate da due tele attribuite a Vito D’Anna, “l’Elemosina del Beato Geremia”, che dovrebbe essere seppellito sotto l’altare maggiore, e “l’Angelo Custode”.

Nella prima cappella della navata destra, intitolata al Santo Rosario troviamo un gruppo scultoreo ligneo policromo raffigurante la Madonna col bambino in braccio e San Domenico, oggetto di forte devozione popolare: lo splendido simulacro fu realizzato agli inizi del XVIII Sec. da Girolamo Bagnasco, scultore e intagliatore esponente del tardo barocco e classicismo, noto in Sicilia per le immagini sacre, di fatto protagoniste delle principali processioni di Palermo, e per i suoi presepi. Invece la decorazione pittorica dovrebbe essere stata eseguita da Giuseppe Velasco, il decoratore della Palazzina Cinese e della scuola del Giardino Botanico Reale di Palermo.

Segue poi una cappella dedicata alla alla Madonna di Lourdes, custodisce il monumento sepolcrale di Francesco Maria Emanuele e Gaetani marchese di Villabianca, storico ed erudito palermitano realizzato dallo scultore Leonardo Pennino nel 1802.

La terza cappella è dedicata a San Tommaso d’Aquino e custodisce un Crocifisso dipinto da Giovanni Paolo Fondulli, detto il Cremonese, data la sua origine; allievo di Antonio Campi, non trovando molto lavoro nella Lombardia dei Borromeo, accettò nel 1568 l’invito a Palermo del Viceré di Sicilia Francisco Fernandez d’Avalos, marchese di Pescara, dove ebbe, un discreto successo, specie nell’ambito delle commissioni delle ricche confraternite locali. Nella cappella vi è il monumento funebre di Giuseppina Turrisi Colonna, poetessa e traduttrice locale, realizzato da Valerio Villareale, scultore locale che, a un certo punto della sua carriera, divenne un ottimo “copista” dello stile di Canova… Come risultato, in alcune guide, le sue opere in San Domenico sono attribuite al suo più famoso contemporaneo.

Di seguito, uno dei gioielli del Barocco siciliano, ricca di marmi mischi, la Cappella di San Giuseppe, patrocinata da don Giovanni Stefano Oneto, duca di Sperlinga e progettata da Gaspare Guercio, uno degli autori della facciata di San Matteo dei Miserrimi, della ricostruzione della chiesa della Gancia e del Teatro Marmoreo, in collaborazione con Gaspare Serpotta, il papà di Giacomo. Entrambi, diciamola tutta, diedero fondo alla loro fantasia e al loro amore per lo sfarzo.

La statua raffigurante San Giuseppe sull’altare è cinquecentesca opera di Antonello Gagini e proviene proveniente dall’oratorio del chiostro patrocinato dalla famiglia Marini, patrocinio in seguito assunto dalla famiglia dei Duchi di Terranova. Può sembrare strano, ma la cappella rimase incompleta sino a fine Ottocento, quando la decorazione fu conclusa in pieno stile liberty: i i due medaglioni alle pareti sono opera dello scultore Antonio Ugo, uno dei designer per i mobili per la ditta Ducrot di Palermo, mentre la volta è stata eseguita nel 1898 da Ernesto Basile.

Nel bellissimo altare della cappella successiva, dedicata a Sant’Anna, troviamo una pregevole tela seicentesca di Rosalia Novelli, figlia di Pietro, che rappresenta Sant’Anna con Maria bambina e i Santi Gioacchino e Agnese di Montepulciano; a sinistra il monumento funebre della nobile siciliana Caterina Perdicaro.

Subito dopo, vi è l’ingresso murato da via Meli. L’ambiente ospita il monumento commemorativo dedicato al giurista Emerico Amari ritratto sulla sua cattedra di diritto penale. Di fronte, nel 2015 vi è stata inumata la bara con il corpo del giudice Giovanni Falcone, proveniente dalla tomba di famiglia nel cimitero di Sant’Orsola. Anche ai parenti del giudice Paolo Borsellino è stata proposta la traslazione in questo luogo dell’illustre congiunto, ma hanno rifiutato. Tra l’altro, la data di nascita sulla lapide di Falcone è diversa da quella che si trova di solito sulle altre fonti.

L’ultima cappella della navata destra è dedicata a San Vincenzo Ferrer, con il quadro rappresentante il santo dipinto da Giuseppe Velasco; nella parete sinistra si trova il monumento funebre in marmi mischi di Troiano Parisi, Barone di Milocco, grande studioso di lingue orientali, eseguito nel 1637 dai marmorari della famiglia Scuto, mentre, a destra, troviamo il monumento a Paolo Anzalone, tesoriere del regno. Addossato ai pilastri il bassorilievo commemorativo del beato Giuliano Majali, benedettino, morto nel 1470, fondatore dell’Ospedale Civico o Ospedale Grande e Nuovo.

Nella navata di Sinistra, superata la cappella di San Giuseppe, si trova quella dedicata Santa Rosalia con una pala d’altare dedicata della Santuzza del trapanese Andrea Carreca e il monumento funebre realizzato da Valerio Villareale che ricorda il poeta dialettale Giovanni Meli primo, nel 1853, fra i personaggi illustri ad essere tumulato nella chiesa. A sinistra il monumento di Gabriele Lancellotti scolpito dal neoclassico Leonardo Pennino nel 1813.

Segue poi la cappella dedicata a Cappella di Santa Caterina da Siena, in cui è presente bella statua della vergine senese, rara terracotta di scuola siciliana della metà del XVI secolo d’autore ignoto.

La quarta cappella, ora ingresso del chiosco, di cui parlerò nella prossima puntata, è dedicato Beato Giacomo Salomoni, domenicano di origine veneziana, noto per la sua carità e per la scarsa propensione a bruciare gli eretici. Nelle parete destra è conservata la statua di Santa Caterina d’Alessandria, scolpita nel 1527 da Antonello Gagini con storie della martire sul basamento. La scultura è proveniente dalla Cappella Maddalena, monumento funebre commissionato da Giacomo Maddalena, segretario regio, opera documentata nel primitivo edificio come altare addossato alle colonne. La nicchia a sinistra ospita la statua di fattura gaginesca raffigurante Santa Barbara prima collocata nella cappella eponima.

La cappella successiva è intitolata a San Raimondo da Penafort custodisce la tela che raffigura un episodio miracoloso del Santo (il Santo attraversa il mare usando il suo mantello come vela) di Gaspare Vazzano, lo Zoppo di Gangi, pittore manierista; a destra è collocato il monumento funebre di Rosolino Pilo, uno degli organizzatori della rivolta siciliana che diede il via all’impresa dei Mille, opera di Valerio Villareale, e a sinistra il monumento a Giovanni Denti di Piraino.

Dopo il vestibolo si giunge alla Cappella di Santa Rosa da Lima. Ambiente dedicato alla prima donna dell’Ordine domenicano canonizzata in Sud America, la tela raffigurante Santa Rosa da Lima è opera di Girolamo di Fiandra pittore del XVII secolo. Segue la sepoltura dei fratelli palermitani Salvatore, Pasquale e Raffaele De Benedetto, patrioti risorgimentali.

Passando al transetto destro, Cappellone di San Domenico di Guzmán, con lo scenografico altare barocco, in cui spicca il dipinto raffigurante l’estasi del santo eponimo, opera dello Zoppo di Gangi. L’altare è quasi gemello a quello della Madonna del Rosario posto nel transetto sinistro, da cui differisce per pochi dettagli, come lo stemma, per le pose delle figure per il pregevole tabernacolo e ovviamente, per la pala, che in questo caso rappresenta il Mistero della Madonna del Rosario ed è dipinta da Vincenzo degli Azani, un pavese allievo di Raffaello

Il transetto destro custodisce poi il monumento funebre di Guglielmo Ramondetta del 1691 disegnato da Paolo Amato, con figure ideate dal buon Giacomo Serpotta e realizzate dagli scultori palermitani appartenenti alla famiglia di Francesco Scuto, opera del XV secolo sull’altare conosciuta come Madonna di Monserrato. E’ poi presente un monumento scolpito nel 1904 da Giovanni Nicolini in memoria di Francesco Crispi. Accanto, vi è la cappellina dedicata a San Giacinto di Polonia, con accanto il sarcofago di Ruggero Settimo capo del governo rivoluzionario palermitano del 1848.

Invece nel transetto sinistro sono presenti il monumento di monsignor Michele Schiavo, vescovo di Mazara, morto nel 1771, e quello canonico della cattedrale e giurista Domenico Schiavo morto nel 1773 con opere di Ignazio Marabitti provenienti dalla distrutta chiesa di San Giuliano edificata ove sorge il teatro Massimo.

Nell’absidiola di destra, è presente la cappella del Santissimo Crocefisso, con sculture di Antonello Gagini e il il cenotafio di Annetta Turrisi Colonna, poetessa come la sorella, sempre opera di Valerio Villareale e sempre scambiato per scultura del Canova. Appena fuori la medesima cappella si apre sul pavimento l’ingresso all’ampia cripta chiusa da griglie, dedicata a Francesco Crispi, uomo politico e statista italiano, qui tumulato nel gennaio del 1905.

Nell’absidiola di sinistra, tra le decorazioni del Gagini, vi sono le tombe di tre grandi intellettuali. Si comincia il sarcofago di Michele Amari, il grane studioso della cultura araba in Sicilia, per poi passare monumento del domenicano Luigi Di Maggio istitutore in San Domenico della sede Società Siciliana per la Storia Patria, per finire con la tomba Giuseppe Pitrè, il fondatore della scienza folkloristica in Italia.

L’altare maggiore è in marmi mischi con modanature in rame. nel transetto della chiesa è stato posto il nuovo altare di bronzo rivolto al popolo realizzato nel 1987 dallo scultore Sebastiano Milluzzo, con smalti colorati su argento, pregevole opera del frate domenicano Leonardo Gristina, raffiguranti scene evangeliche e santi domenicani.

Preziosi e pregevoli i due organi posti ai lati dell’abside e del raffinato pulpito dello stesso periodo. Collocati su due identiche cantorie, racchiusi in casse lignee con prospetto a tre campate, ricchi di sculture e dorature in oro zecchino. L’organo in «cornu Evangelii» (a sinistra) fu costruito nel 1768-1774 da Domenico Del Piano, quello in «cornu Epistulae» nel 1781 dal palermitano Giacomo Andronico e completamente rifatto da Pacifico Inzoli nel 1898.

Dietro l’altare, nell’area del coro, è collocato un grande coro in noce del 1700 eseguito su disegno del domenicano Giovanni Battista Ondars, dello stesso autore il pulpito in noce realizzato da intagliatori ignoti nel 1732 con raffinata finezza di intagli e con le figure di cinque santi e beati domenicani: beato Giovanni Liccio, san Vincenzo Ferreri, san Tommaso d’Aquino, san Antonino Pierozzi, beato Giacomo Salomoni.

Prima di terminare il post, è interessante ricordare il rito de la calata ‘a tila, che si svolge a San Domenico, come in tante altre chiese siciliana, tra la Quaresima e la Settimana Santa. In particolare, nella chiesa è montata durante la Quaresima a tila, un tessuto esteso alto 30 metri e largo quanto l’arco absidale in tessuto di canapa, riproducente pitture molto intense sulla morte e deposizione di Cristo su fondo azzurrognolo. Durante la celebrazione della notte di Pasqua “a tila” al Gloria, cade liberamente svelando l’altare maggiore, annunciando visivamente “il Cristo risorto”.

Può sembrare strano, ma questa consuetudine è presente anche in Germania: è probabile che fu introdotta a Palermo dai cavalieri dell’ordine Teutonico, che avevano la loro casa generalizia nella chiesa della Magione…

Tornando a parlare dell’heroon di Romolo

Dopo qualche giorno, stanno emergendo ulteriori dettagli sul cosiddetto sepolcro di Romolo. Per prima cosa, come segnalato su Facebook dal direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Valentino Nizzo, la scoperta non è una novità assoluta, dato che fu ritrovato nel 1900 dal buon Giacomo Boni, che in un articolo pubblicato sulla rivista Notizie degli scavi di antichità, così raccontava

“Sotto a questo ossario, a m. 3.60 dal nucleo della gradinata, trovasi una cassa o vasca rettangolare in tufo, lunga m. 1.40, larga m 0.70, alta m. 0.77, di fronte alla quale sorge un tronco di cilindro del diametro di m. 0,75.La cassa di tufo conteneva ciottoli, cocci di vasi grossolani, frammenti di vasellame campano (n.d.r.: databile non prima del IV sec. a.C.) una certa quantità di valve di pectunculus e un pezzetto di intonaco colorito di rosso.”

Ora, non mi scandalizzo né mi strappo le vesti per una notizia del genere: anche se non si vorrebbe, nell’archeologia capita spesso di dimenticarsi o perdersi reperti e informazioni e molte scoperte non si verificano sul campo, ma negli archivi dei giornali di scavo e nei depositi dei musei. In più, la grandezza di tale disciplina è nell’essere sia falsificabile, in senso popperiano, sia oggetto di una continua revisione e reinterpretazione, in funzione degli elementi nuovi che emergono ogni volta dalle ricerche concrete.

Tra il 1899 e 1900, ci fu una grandissima polemica, sui giornali e sulle riviste specializzate sulle ricerche di Boni, che si concentrarono sul Lapis Niger, il quale, vuoi o non vuoi, metteva la crisi la tesi, sostenuta all’epoca dai filologi tedeschi, di una fondazione tarda di Roma. In un clima così infuocato era facile che all’archeologo sfuggisse l’importanza del sarcofago

Poi, è confermato ciò che, sospettavamo in tanti, che fosse un cenotafio, legato al fondatore divinizzato dell’Urbe, fatto costruire dai re etruschi, come strumento di propaganda e di riscrittura della storia locale. Che poi, il luogo prescelto per il cenotafio fosse connesso a qualche tradizione orale oppure fosse scelto a tavolino, per motivi religiosi e simbolici, da Servio Tullio, il quale, qualunque sia stato il suo rapporto con i fratelli Vibenna, era un homus novus, il macstarna, il magister populi, un funzionario e comandante militare bisogno di una qualche forma di legittimazione politica, è difficile dirlo.

In ogni caso, ho sempre avuto l’impressione che la storia di Romolo ucciso a pugnalate dai senatori, citata nel brano

Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque sed perobscura fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit

fosse un’invenzione di Livio, che proiettò nel passato le vicende contemporanee, per proporre in maniera sottile al lettore il parallelismo tra il fondatore di Roma e Cesare, accomunati dalla stessa fine, e tra Numa Pompilio e Augusto, i restauratori della pax deorum.

In ogni caso, Servio Tullio, ribadendo con l’heroon il suo legame simbolico con l’eroe eponimo della città, si presentava come nuovo fondatore dell’Urbe. Fenomeno, che tra l’altro, è comune in tutto il Lazio.

Fig3_ricostruzione_heroon

Pensiamo all’heroon più famoso dell’area, quello di Lavinio. In una zona extraurbana, dove sorgeva un piccolo villaggio e,nei pressi, una necropoli, fu costruito nel VII secolo a.C., poco dopo il sinecismo di Roma, a testimonianza di come il processo di urbanizzazione dei pagi fosse comune presso tutti i Prisci Latini, un tumulo di circa 18 metri di diametro destinato a contenere una tomba principesca, appartenente ad un personaggio non solo ricco ma evidentemente degno di ricevere l’ammirazione e il
ricordo dell’intera comunità, il cui ricordo, nella storia sacra dei latini, può aver originato la figura di Latino.

Questo tipo di tomba si inserisce perfettamente, con altre simili, nel periodo orientalizzante. Il tumulo era costituito da una collina artificiale contenuta da un basso muro di piccoli massi, ancora oggi parzialmente conservato. Al centro del tumulo, coperta dalla terra, la tomba vera e propria: un cassone rettangolare (metri 2.50×1.60), formato e coperto da lastre di cappellaccio in parte ancora in situ, chiuse da un lastrone semicircolare che oggi si trova all’interno della cassa. Il corredo scoperto all’interno della tomba era piuttosto eterogeneo, in parte precedente la sepoltura, in parte successivo (VII sec. a.C.).

Il personaggio, sicuramente il capo di una comunità, venne sepolto con il suo carro, con le armi e con un ricco corredo di vasi, serviti per il banchetto funebre che ritualmente si celebrava in onore di questi eroi. Un secolo dopo, cioè nel VI secolo a.C., la sepoltura divenne un heroon.

Gli abitanti di Lavinio aprirono la tomba, compiendo un rito di consacrazione e delle libagioni sacre; a ricordo della cerimonia vennero collocati due vasi all’interno della tomba: un’anfora vinaria etrusca, forse quella stessa che conteneva il vino impiegato per il rito e, ai piedi della tomba, una brocca in bucchero.

Il che non farebbe escludere a priori come la cerimonia potesse essere ispirata a quanto avvenuto nella Roma dei Tarquini e di Servio Tullio. In più, a circa duecento metri dal tumulo, furono innalzate le prime are del complesso dei Tredici Altari, il che farebbe pensare come risalga all’epoca la prima identificazione tra il defunto ed Enea.

Due secoli più tardi, nel IV secolo a.C., il tumulo fu nuovamente interessato da una grande ristrutturazione in blocchi di tufo dell’heroon, che fu così formato da una cella, resa inaccessibile da due porte modanate sempre di tufo destinate a rimanere chiuse, e da uno spazio antistante, probabilmente scoperto, una sorta di spazio (pronao) dove collocare le offerte votive. La fronte del monumento era posta verso la città, probabilmente lungo una strada oggi non più esistente; il complesso fu probabilmente dedicato, come il santuario sulla foce del Numico, al Sol Indigenes.

La Cascina Pozzobenelli

A due passi dalla stazione di Milano centrale, attraversata piazza Luigi di Savoia, dove una volta si fermavano i bus per Orio al Serio, non so se le cose siano cambiate, in più di un decennio, a Viale Andrea Doria, tra l’Hotel Bristol e lo Starhotels Anderson, vi è, abbandonata a se stessa, una delle meno note opere milanesi di Bramante, la cosiddetta Cascina Pozzobenelli, l’equivalente meneghino della Casina Bessarione, una villa suburbana dedicata al riposo, alle feste e alla meditazione, commissionata dal nobile Gian Giacomo Pozzobenelli, marchese di Arluno, uomo di fiducia e tesoriere di Ludovico il Moro.

Come le villa romana, la Cascina Pozzobenelli, posta al centro di un’immensa tenuta che si estendeva tra Melchiorre Gioia e Settembrini, nasceva dalla ristrutturazione di un ex convento, che fu acquistato dal padre di Gian Giacomo assieme ai terreni che si trovavano nei pressi della Roggia Gerenzana al confine col Comune di Greco, intorno al 1460.

Gian Giacomo, a differenza del nobile milanese medio dell’epoca, poco convinto delle novità rinascimentali e ancore legato al gotico internazionale, per i suoi interessi commerciali con la Toscana e la Romagna, era affascinato dall’architettura di Brunelleschi, dell’Alberti e di Francesco di Giorgio Martini e desiderava costruire un palazzo simile a quello del Banco Mediceo, che Cosimo il Vecchio aveva commissionato un paio di generazioni prima a Michelozzo e Filarete e, nonostante gli anni passati, in Lombardia sembrava ancora un’opera d’avanguardia.

Però, la sua ambizione continuava a essere frustrata dalla mancanza di architetti esperti nella “maniera toscana”. Le cose cambiarono nel 1478, quando Bramante, dopo avere affrescato la facciata del Palazzo del Podestà di Bergamo con finte architetture e figure di filosofi, fu spedito a Milano da da Federico da Montefeltro per seguire i lavori nel suo palazzo a Porta Ticinese.

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In quell’occasione, Gian Giacomo conobbe Bramante e ne divenne uno dei principali committenti e sponsor alla corte sforzesca. All’architetto commissionò per prima cosa il palazzo milanese, nella nostra via Piatti, danneggiato dai bombardamenti del 1943; della fase rinascimentale non rimane che lo straordinario cortile centrale, costituito da un portico di tre arcate per lato, sorretto da colonne con capitelli compositi, a loro volta sormontati singolari mensole rovesciate.

Al piano superiore le lineari cornici delle finestre poggiano su un davanzale continuo. Completano la decorazione una serie di medaglioni in pietra con profili di imperatori romani, collocati fra gli archi. Di fatto, in tale cortile, Bramante sperimentò le soluzioni che avrebbe replicato in grande nei chiostri di Sant’Ambrogio, che ora ospitano l’Università Cattolica.

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Poi Bramante fu incaricato della ristrutturazione Castello di Vermezzo: pur mantenendo le bifore gotiche incastonate da eleganti cornici in cotto di una paio di generazioni prima, Donato, ispirato dalla tradizione fiorentina, alleggerì la massa muraria con un straordinario loggiato, sormontato da una fascia di fregi e decorazioni. In più, si dedicò a decorare con affreschi le stanze del castello, concependo invenzioni prospettive simili a quelle che aveva realizzato nella casa del poeta Gaspare Ambrogio Visconti, con monumentali figure scorciate e inquadrate in una finta architettura classica.

Infine, nel 1498, fu il turno della villa suburbana, che, in origine, consisteva in un palazzo a pianta rettangolare con due ampi cortili, l’uno con colonne doriche, l’altro con ioniche, e vasti saloni. Dato che fonti dell’epoca, parlando dei suddetti cortili, paragonano gli ingressi ad archi onorari romani, ricchi di statue e bassorilievi, viene il sospetto che, oltre a citare la descrizione vitruviana dei fori romani, Bramante abbia voluto rileggere, in chiave laica, anche quanto stava realizzando a Sant’Ambrogio. Infine, dal corpo centrale della cascina si dipartiva un portico a dieci arcate, terminante con una cappella ottagonale.

Il declino della proprietà cominciò con la morte del cardinale Giuseppe Pozzobonelli, arcivescovo di Milano, famoso per la sua pazienza nel mediare le dispute tra Santa Sede e Impero austriaco, avvenuta nel 1783, un anno dopo la nascita del comune dei Corpi Santi di Milano, che includeva cascine e borghi agricoli in prossimità della città e di cui la Cascina Pozzobonelli faceva parte.

Dopo che Corpi Santi, nel 1873, fu aggregato a Milano, si parlò, su istigazione degli equivalenti della nostra Roma fa Schifo, in ottica di espansione e rinnovo urbanistico della città, della demolizione di tale palazzo: il proposito cominciò a realizzarsi a partire dal 1898, con l’apertura del Viale Caiazzo, poi Andrea Doria, ed il 1907, anno di inizio della costruzione dell’attuale Stazione Centrale.

Infatti già nel 1906, in occasione dell’inaugurazione dell’esposizione universale, il Re Vittorio Emanuele III pose la prima pietra della nuova stazione, prevista dove si trovava il trotter, a pochi metri dalla cascina. Stazione che comunque verrà inaugurata solo nel 1931.

Nel 1943 durante i bombardamenti bellici della Seconda Guerra Mondiale fecero crollare la prima campata del portico verso la cappella che venne, per fortuna, prontamente messa in sicurezza e restaurata al termine del conflitto mondiale. Da quel momento in poi, sulla Cascina Pozzobonelli cadde l’oblio.

Cosa è rimasto degli splendori rinascimentali ? Il portico, che presenta colonne in pietra con capitelli a motivi vegetali che sorreggono arcate a tutto sesto in cotto e soprattutto la cappella, in cui Bramante sperimenta per la prima volta due idee architettoniche, che ritroveremo in dimensioni colossali nel suo progetto di San Pietro.

Da una parte, ispirato dall’architettura paleocristiana lombarda, concepisce una pianta centrale a quiconce, con tre absidi a simulare la croce greca, che a Santa Maria presso San Satiro aveva dovuto solo simulare con un’illusione ottica. Dall’altra, partendo sempre dalle riflessioni sulla sagrestia ottagonale di Santa Maria presso San Satiro e ispirato dalla chiesa paleocristiana meneghina di San Lorenzo, coprì la cappella con una cupola sorretta da un ottagono irregolare, lo stessa soluzione che ipotizzò per la su versione della cupola vaticana.

Nella cappella e nel portico sono poi presenti affreschi a monocromo, assai rovinati. Alcuni di questi raffiguravano proprio il Castello Sforzesco nella sua configurazione originale, quindi dotato anche della Torre del Filarete, torre che fu edificata inizialmente nel 1452 circa da Filarete (architetto toscano) e che crollò a seguito di un’esplosione nel 1521. Ad essi si ispirò appunto Luca Beltrami per la ricostruzione del castello e soprattutto per la ricostruzione della Torre del Filarete che venne inaugurata nel 1905.

Insomma un gioiello che dovrebbe essere più valorizzato e che meriterebbe assai più rispetto, come la memoria dei Pozzobonelli, a cui era dedicata una piazza, ora scomparsa dalla toponomastica milanese, ubicata alla congiunzione dell’asse formato dalle vie Galvani e Pola, all’intersezione con il viale Francesco Restelli, dove una volta vi era l’eliporto…