La chiesa di San Nereo e Achilleo è un luogo tanto affascinante, quanto poco noto a noi romani: la sua storia comincia ai tempi di Traiano, quando, in quell’area vi era un’insula altoborghese, con al piano terra delle botteghe di beni di lusso e in quelli superiori degli appartamenti di lusso.
Le cose mutarono ai tempi di Caracalla, in seguito alla costruzione delle sue terme: per facilitarne l’accesso, realizzò la cosiddetta Via Nova, un’ampia strada, probabilmente alberata che correva parallela alla Via Appia ed era in asse con l’ingresso principale del Circo Massimo. Dopo le terme, di cui costeggiava la facciata, la Via Nova si riuniva alla Via Appia nel punto in cui dipartiva la Via Latina.
La strada compare sulla lastra Stanford # 1abcde della forma Urbis Severiana, da dove si desume che aveva un’ampiezza di circa 30 metri: per dare un termine di paragone, la Via Appia era ampia solo un terzo della Via Nova.
Questa sistemazione urbanistica impattò notevolmente sull’insula: per i lavori di terrazzamento della Via Nova, il suo piano terra si ritrovò trasformato in un sotterraneo e abbandonato, mentre il primo piano divenne il nuovo piano terra: di conseguenza, i relativi appartamenti divennero locali commerciali.
Ai tempi di Costantino, il contesto cambiò ulteriormente: i sotterranei furono recuperati e trasformati in magazzini, parte dell’insula cambiò il suo uso da abitativo a manifatturiero, ospitando un’ampia vetreria.
Ciò che non fu riconvertito, divenne la sede di una delle più antiche chiese di Roma, il titulus Fasciolae, citato per la prima volta in in’iscrizione del 377 presente in San Paolo fuori le mura celebra un certo Cinammio, suo lector.
Il suo nome, che può apparire alquanto strano, deriva da una leggenda romana, citata in numerosi passio paleocristiane. Ad esempio, nella Passione di Pietro, dello Pseudo-Lino, scritta intorno al Quarto secolo, è descritta la scena del dialogo tra l’Apostolo e i custodi del carcere Mamertino, Processo e Martiniano,che erano stati da lui battezzati proprio durante la detenzione nel carcere ancora oggi visitabile all’interno del Foro Romano.
I due guardiani scongiurarono Pietro, che erano stato liberato, di scapparsene da Roma. E così viene raccontata la scena nella Passione di Pietro:
La notte seguente, compiuta la preghiera liturgica, salutò i fratelli e raccomandatili a Dio con la benedizione, partì solo. Mentre camminava, gli caddero le fasce della gamba, consunte dal ceppo. Stava però per varcare la porta della città, quando si vide venire incontro Cristo. Lo adorò e gli disse: ‘Signore, dove vai ?’. Cristo gli rispose: ‘Vengo a Roma per essere crocefisso di nuovo’. Pietro a lui: ‘Signore, sarai crocefisso di nuovo ?’. Il Signore a lui: ‘ Sì, sarò crocefisso di nuovo!” Pietro replicò: ‘Signore, torno indietro per seguirti.’ Quindi il Signore prese la via per il cielo. Pietro l’accompagnò, fisso con lo sguardo e piangendo di consolazione. Tornando in sé, capì che le parole si riferivano al martirio, come cioè lui avrebbe sofferto. Il Signore, il quale soffre negli eletti mediante la compassione pietosa e la loro celebrazione gloriosa. E così ritornò festante in città, glorificando Dio. Raccontò ai fratelli che il Signore gli era andato incontro e gli aveva detto che sarebbe stato crocefisso nuovamente per mezzo suo.
Nel brano, da cui nacque la storia di Domine Quo Vadis, è citata una fascia, che rivestiva le caviglie dell’Apostolo e che si usava per attenuare la stretta dei ceppi e della catene dei prigionieri, che cadde per strada durante la fuga notturna. Negli Atti di Processo e Martiniano – altro testo apocrifo – l’episodio viene confermato e si parla ancora della fascia, la fasciola, specificando che sarebbe caduta sulla Via Nova (l’Appia Antica). Il brano latino fa così
Ad portam Appiam (SS. Petrus et Paolus) pervenerunt. Beatissimo autem Petro apostolo, cuius pedem attriverant compedes ferrei, cecidit fasciola apud sepem in via Nova.
Lì sarebbe stata raccolta da una matrona romana cristiana, che l’avrebbe conservata nella sua abitazione, che poi sarebbe stato così diventato il Titolo della Fascia, Titolus Fasciolae. Negli atti del sinodo convocato da papa Simmaco nel 499, viene registrato il titulus Fasciolae, servito da cinque presbiteri. Nel 595, invece, viene ricordato il titulus Sanctorum Nerei et Achillei al posto del Fasciolae: la dedica ai due santi deve essere quindi avvenuta nel corso del VI secolo, probabilmente ai tempi di Gregorio Magno, il quale ribadì la denominazione il 5 ottobre dell’anno 600 in una sua lettera e rammentata alla fine dell’VIII secolo nell’ltinerarium Einsidlens.
Per chi non lo sapesse, L’itinerario di Einsiedlen, redatto verso la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX, è una delle più importanti compilazioni medievali ad uso dei pellegrini in visita a Roma. Fu scritto da un anonimo monaco che visse all’epoca di Carlo Magno e che certamente visitò l’Urbe dove ebbe modo di osservare attentamente i monumenti pagani e cristiani e di copiare molte iscrizioni oggi perdute. L’autore annotò su alcuni fogli, in modo ordinato e sistematico, i nomi dei principali luoghi da visitare posizionati ai due lati delle strade cittadine che si irradiavano alle porte urbane.
Tornando alla nostra chiesa Nereo e Achilleo, secondo la tradizione, erano servi della nobile Flavia Domitilla e con lei martirizzati per la loro fede cristiana all’epoca di Diocleziano. Più verosimilmente, ma anche secondo una testimonianza storica di papa Damaso, entrambi erano soldati, uccisi nell’ambito della crudele persecuzione dioclezianea che colpì inizialmente proprio i “fratelli dell’esercito”.
Il luogo in cui fu costruita la chiesa era paludoso e malsano tanto che, sotto il pontificato di Leone III, nell’814, l’antico edificio sacro era ormai completamente diroccato e affondato nel terreno. Papa Leone III decise così di abbatterlo e di costruirne, nelle vicinanze, uno nuova chiesa di maggior decoro e bellezza, arricchendola con decorazioni e donazioni (tessuti preziosi e varie suppellettili, tra cui un grande ciborio d’argento), in modo che potesse custodire con decoro le reliquie di Nereo e Achilleo, che il pontefice aveva fatto trasferire dalle catacombe di Domitilla.
Della decorazione dell’VIII secolo non resta che il mosaico dell’arco absidale, abbondantemente restaurato nel secolo scorso, che raffigura la Trasfigurazione (con la figura di Cristo tra Mosè ed Elia e con Pietro, Giovanni e Giacomo prostrati ai suoi piedi), l’Annunciazione, e una Madonna con il Bambino e un angelo.
Nel corso dei secoli la chiesa subì la decadenza, tanto che le reliquie di Nereo e Achilleo furono trasferite furono trasferite nella chiesa di Sant’Adriano al Foro Romano, l’ex curia senatoriale. Inoltre, nel catalogo di Torino del 1320 venne registrata come un titolo presbiteriale senza sacerdoti assegnati. In occasione del giubileo del 1475, nell’ambito del programma di edificazione portato avanti da papa Sisto IV, San Nereo e Achilleo fu finalmente restaurata. In tale occasione, la chiesa fu ridotta di dimensioni con l’eliminazione delle prime due campate e, all’interno, sostituendo le colonne di divisione delle campate con pilastri ottagonali in muratura; inoltre, fu elevata a titolo cardinalizio.
Nel concistoro del 5 giugno 1596, Clemente VIII nominò cardinale della piccola chiesa Cesare Baronio, allievo di San Filippo Neri, che decise di trasformare Nereo e Achilleo in una celebrazione della chiesa delle origini.
Nel 1597, recuperò le loro reliquie da Sant’Adriano: le loro teste sono deposte alla chiesa della Navicella, più accessibile al romano medio dell’epoca, pigro come l’attuale, mentre il resto fu depositato sotto l’altare di Nereo e Achilleo.
Poi, si dedicò alla ristrutturazione dell’edificio, a cominciare dalla piazzetta antistante: enfatizzò questo “atrio aperto” collocando al suo centro una colonna (composta da vari elementi di reimpiego), stabilendo così un asse visivo che attraversava l’intera chiesa. Con l’intenzione di emulare i primi cristiani nel modo più fedele possibile, eresse una croce sulla sommità della colonna, proprio vicino al luogo in cui stava restaurando l’edificio dedicato a Dio. Il capitello, che si pensava provenisse dal Tempio di Salomone a Gerusalemme, era decorato con due cherubini in forma di teste di leoni alati, fu rubato nel 1984.
Baronio sistemò poi la facciata: tamponò le finestre quattrocentesche, fece erigere il protiro marmoreo, sorretto da due colonne corinzie e costituito da un timpano triangolare, anch’esso in marmo e commissionò al lucchese Girolamo Massei gli affreschi geometrici che la decoravano.
Poi, sfruttando i lavori di ristrutturazione di San Paolo fuori Mura, ne recuperò il vecchio apparato scultoreo, risistemandolo in San Nereo e Achilleo. Il recinto del coro è ricomposto con pezzi cosmateschi del sec. XII; l’altare maggiore è costituito da un pluteo cosmatesco, da un cancello paleocristiano e da un frammento romano, provenienti dalla basilica di S. Paolo fuori le mura. La cattedra episcopale con due leoni stilofori è della bottega dei Vassalletto (nella nicchia del dossale è inciso un brano della XXVII Omelia che Gregorio I Magno pronunciò sulla tomba dei Ss. Nereo e Achilleo) ma contiene anche rammenti di sculture cosmatesche. Ugualmente proveniente dalla basilica di S. Paolo fuori le mura è il grande candelabro (sec. XV) appoggiato all’ultimo pilastro della navata destra.
In più, organizzò il pavimento in grandi aree di mattonelle in terracotta, divise da pietre
quadrate di colore chiaro. Un asse attraversa longitudinalmente la navata: l’unificazione degli assi centrali era, infatti, una caratteristica comune al contemporaneo progetto nel transetto di San Giovanni in Laterano. Questo percorso centrale è scandito da quattro medaglioni, o rotae, riprendendo una tradizione costantiniana (e poi orientale) secondo la quale l’imperatore poteva poggiare i piedi solamente su rotae di porfido; tale citazione dell’antico intendeva dare prestigio trionfale al procedere in direzione dell’altare.
Infine, commissionò al Pomarancio la decorazione ad affresco della chiesa: la navata centrale è dedicata alla vita e al martirio dei santi titolari e di santa Domitilla. Le navate laterali contengono un ampio ciclo raffigurante, con vivida enfasi, scene di martirio tratte dal Martirologio Romano. Si tratta di un esempio assai eloquente dello spirito (e della funzione) controriformista che caratterizza la pittura romana della seconda metà del Cinquecento, in cui l’artista diede fondo al suo gusto per l’orrido nei raccapriccianti dettagli con cui illustrò le torture alle quali furono sottoposti gli apostoli.
Mioddio che tristezza noiosa le storie cristiane, solo sacrifici… Meno male che c’è ancora Pan 😉
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