Dopo qualche giorno, stanno emergendo ulteriori dettagli sul cosiddetto sepolcro di Romolo. Per prima cosa, come segnalato su Facebook dal direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Valentino Nizzo, la scoperta non è una novità assoluta, dato che fu ritrovato nel 1900 dal buon Giacomo Boni, che in un articolo pubblicato sulla rivista Notizie degli scavi di antichità, così raccontava
“Sotto a questo ossario, a m. 3.60 dal nucleo della gradinata, trovasi una cassa o vasca rettangolare in tufo, lunga m. 1.40, larga m 0.70, alta m. 0.77, di fronte alla quale sorge un tronco di cilindro del diametro di m. 0,75.La cassa di tufo conteneva ciottoli, cocci di vasi grossolani, frammenti di vasellame campano (n.d.r.: databile non prima del IV sec. a.C.) una certa quantità di valve di pectunculus e un pezzetto di intonaco colorito di rosso.”
Ora, non mi scandalizzo né mi strappo le vesti per una notizia del genere: anche se non si vorrebbe, nell’archeologia capita spesso di dimenticarsi o perdersi reperti e informazioni e molte scoperte non si verificano sul campo, ma negli archivi dei giornali di scavo e nei depositi dei musei. In più, la grandezza di tale disciplina è nell’essere sia falsificabile, in senso popperiano, sia oggetto di una continua revisione e reinterpretazione, in funzione degli elementi nuovi che emergono ogni volta dalle ricerche concrete.
Tra il 1899 e 1900, ci fu una grandissima polemica, sui giornali e sulle riviste specializzate sulle ricerche di Boni, che si concentrarono sul Lapis Niger, il quale, vuoi o non vuoi, metteva la crisi la tesi, sostenuta all’epoca dai filologi tedeschi, di una fondazione tarda di Roma. In un clima così infuocato era facile che all’archeologo sfuggisse l’importanza del sarcofago
Poi, è confermato ciò che, sospettavamo in tanti, che fosse un cenotafio, legato al fondatore divinizzato dell’Urbe, fatto costruire dai re etruschi, come strumento di propaganda e di riscrittura della storia locale. Che poi, il luogo prescelto per il cenotafio fosse connesso a qualche tradizione orale oppure fosse scelto a tavolino, per motivi religiosi e simbolici, da Servio Tullio, il quale, qualunque sia stato il suo rapporto con i fratelli Vibenna, era un homus novus, il macstarna, il magister populi, un funzionario e comandante militare bisogno di una qualche forma di legittimazione politica, è difficile dirlo.
In ogni caso, ho sempre avuto l’impressione che la storia di Romolo ucciso a pugnalate dai senatori, citata nel brano
Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque sed perobscura fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit
fosse un’invenzione di Livio, che proiettò nel passato le vicende contemporanee, per proporre in maniera sottile al lettore il parallelismo tra il fondatore di Roma e Cesare, accomunati dalla stessa fine, e tra Numa Pompilio e Augusto, i restauratori della pax deorum.
In ogni caso, Servio Tullio, ribadendo con l’heroon il suo legame simbolico con l’eroe eponimo della città, si presentava come nuovo fondatore dell’Urbe. Fenomeno, che tra l’altro, è comune in tutto il Lazio.
Pensiamo all’heroon più famoso dell’area, quello di Lavinio. In una zona extraurbana, dove sorgeva un piccolo villaggio e,nei pressi, una necropoli, fu costruito nel VII secolo a.C., poco dopo il sinecismo di Roma, a testimonianza di come il processo di urbanizzazione dei pagi fosse comune presso tutti i Prisci Latini, un tumulo di circa 18 metri di diametro destinato a contenere una tomba principesca, appartenente ad un personaggio non solo ricco ma evidentemente degno di ricevere l’ammirazione e il
ricordo dell’intera comunità, il cui ricordo, nella storia sacra dei latini, può aver originato la figura di Latino.
Questo tipo di tomba si inserisce perfettamente, con altre simili, nel periodo orientalizzante. Il tumulo era costituito da una collina artificiale contenuta da un basso muro di piccoli massi, ancora oggi parzialmente conservato. Al centro del tumulo, coperta dalla terra, la tomba vera e propria: un cassone rettangolare (metri 2.50×1.60), formato e coperto da lastre di cappellaccio in parte ancora in situ, chiuse da un lastrone semicircolare che oggi si trova all’interno della cassa. Il corredo scoperto all’interno della tomba era piuttosto eterogeneo, in parte precedente la sepoltura, in parte successivo (VII sec. a.C.).
Il personaggio, sicuramente il capo di una comunità, venne sepolto con il suo carro, con le armi e con un ricco corredo di vasi, serviti per il banchetto funebre che ritualmente si celebrava in onore di questi eroi. Un secolo dopo, cioè nel VI secolo a.C., la sepoltura divenne un heroon.
Gli abitanti di Lavinio aprirono la tomba, compiendo un rito di consacrazione e delle libagioni sacre; a ricordo della cerimonia vennero collocati due vasi all’interno della tomba: un’anfora vinaria etrusca, forse quella stessa che conteneva il vino impiegato per il rito e, ai piedi della tomba, una brocca in bucchero.
Il che non farebbe escludere a priori come la cerimonia potesse essere ispirata a quanto avvenuto nella Roma dei Tarquini e di Servio Tullio. In più, a circa duecento metri dal tumulo, furono innalzate le prime are del complesso dei Tredici Altari, il che farebbe pensare come risalga all’epoca la prima identificazione tra il defunto ed Enea.
Due secoli più tardi, nel IV secolo a.C., il tumulo fu nuovamente interessato da una grande ristrutturazione in blocchi di tufo dell’heroon, che fu così formato da una cella, resa inaccessibile da due porte modanate sempre di tufo destinate a rimanere chiuse, e da uno spazio antistante, probabilmente scoperto, una sorta di spazio (pronao) dove collocare le offerte votive. La fronte del monumento era posta verso la città, probabilmente lungo una strada oggi non più esistente; il complesso fu probabilmente dedicato, come il santuario sulla foce del Numico, al Sol Indigenes.