Iscrizioni di Novilara

Molti lo ignorano, ma nelle Marche, nei dintorni dell’attuale città di Pesaro, tra la fine dell’Età del Bronzo e il periodo orientalizzante dell’età del Ferro, per capirci, il periodo in cui a Roma regnavano i Tarquini, si parlava e scriveva una lingua misteriosa, di cui sappiamo ben poco, chiamata convenzionalmente Piceno settentrionale.

La popolazione protostorica che parlava tale lingua, situata nei pressi della nostra Novilara, basava la sua prosperità grazie al controllo di una fitta rete di intensi traffici costieri e transadriatici, come attestano le ambre, i vasi dauni, gli incensieri villanoviani, gli elmi conici e probabilmente, come gli Illirici dei tempi storici, alla pirateria. Questo è testimoniata dalla cosiddetta “Stele di Ancona”, in cui appare la scena di una battaglia navale.

Prosperità testimoniata proprio dalla necropoli di Novilara, i cui primi scavi clandestini, data la presenza all’epoca nel mercato antiquario di Pesaro di fibule con nuclei d’ambra, risalirono almeno a inizio Seicento. I primi scavi documentati, però, furono molto più tardi; il primo fu effettuato nel fondo Servici nel 1873 dal Conte Bonamini.

Un altro saggio di scavo a scopo dimostrativo fu praticato nel 1891 alla presenza di Ciro Antaldi, conservatore presso il Museo Oliveriano, dell’epigrafista tedesco Bormann e dell’archeologo Gamurrini, che pubblicò la scoperta nella rivista “Notizie degli Scavi”.Tra il 1892 e il 1893, furono condotte dal Brizio indagini archeologiche sistematiche nel fondo Servici e nell’adiacente podere Molaroni, dove vennero scoperte quasi duecento tombe con relativi corredi, poi esposti in una sala del Museo Oliveriano.

Le campagne di scavo furono riprese nel 1912 da Dall’Osso, ma i corredi delle trenta sepolture rinvenute, trasferiti al Museo Archeologico Nazionale delle Marche, andarono in gran parte perduti nel 1944, durante il bombardamento aereo che colpì Ancona. Recentemente la Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche ha ripreso lo scavo.

Le necropoli, di cui non sono ancora ben note le dimensioni e la distribuzione delle tombe, è databile tra databile fra la fine del IX e la metà del VI secolo a.C., mentre l’oppidum ad essa collegato, non è ancora stato localizzato e scavato: gli archeologi sono però convinti, da una serie di indizi, come fosse situato nel tratto mediano del colle di Santa Croce, un luogo strategico a cavaliere delle teste vallive del fosso dei Condotti e del fosso Seiore, dove le tracce di insediamento umano risalgono già all’età del Bronzo Recente (XIV-XIII secolo a.C.).

La necropoli di Novilara, da quanto siamo riusciti a capire, dovrebbe articolarsi in due settori topograficamente separati, ma vicini, noti come necropoli Molaroni e necropoli Servici, tra cui esistono differenze cronologiche: infatti mentre i primi corredi funerari del podere Molaroni risalgono alla fine del IX e agli inizi dell’VIII secolo a.C., quelli del podere Servici si datano alla metà dell’VIII secolo a.C.. Entrambe le necropoli terminano, invece, quasi contemporaneamente intorno al 600 a.C.

Complessivamente, sono state scavate 263 tombe, 142 a Molarino, 121 a Serivi, quasi tutte a inumazione, con il defunto rannicchiato all’interno di semplici fosse rettangolari, praticate nel terreno argilloso. L’unica eccezione è costituita da due tombe a incinerazione, in cui i resti del defunto furono posti dentro un’urna collocata in un pozzetto. Sia la tipologia, sia il corredo, fa pensare che non si tratti di un locale, ma di un “immigrato” villanoviano.

Sono state poi individuate anche sepolture di bambini in numero consistente, a riprova che la mortalità infantile era molto alta. Rispetto al Molaroni il sepolcreto Servici presenta comunque caratteri di maggiore complessità: era delimitato a nord-est da un fossato lungo oltre m 40 e in superficie, almeno le sepolture più importanti, erano segnalate da cippi e stele.

Inoltre si è notata una sorta di divisione in settori: infatti un gruppo di 12 tombe era racchiuso, all’interno di un’area rettangolare, da un muricciolo in pietre, il che farebbe pensare come fosse, come nella necropoli esquilina, dedicata ai membri di uno specifico clan. Quasi tutte le sepolture delle due necropoli erano dotate di un corredo, composto da oggetti deposti sul fondo della fossa accanto al defunto.

I materiali rinvenuti appartengono a due diverse fasi cronologiche: la più antica di VIII secolo a.C. corrisponde alla seconda fase della prima età del Ferro italiana e della Civiltà Picena; i corredi più recenti sono databili al VII secolo a.C., quando si avvertono ormai in tutta l’area medioadriatica le innovazioni tipiche delle facies orientalizzanti tirreniche, legate alla presenza di coloni greci in Sicilia e nell’Italia meridionale.

Durante la prima età del Ferro le tombe erano caratterizzate da corredi piuttosto poveri, composti da due o tre oggetti, che appartengono all’abbigliamento del defunto o si riferiscono alle attività praticate in vita, mentre i recipienti in ceramica sono scarsamente utilizzati.

Le tombe maschili sono contraddistinte dalla presenza di punte di lancia a lama fogliata, spade, pugnali e coltellacci a dorso ricurvo, armi in bronzo, ma per lo più in ferro, che attestano l’importanza dell’attività guerriera all’interno della comunità di Novilara. In alcune sepolture erano stati riposti elmi, prerogativa dei capi militari: i più diffusi erano quelli a calotta conica in bronzo con cimiero applicato, simile a quelli presenti nella vicina Verucchio, nell’entroterra riminese, e in Istria.

I corredi delle tombe femminili erano costituiti da oggetti di abbigliamento e ornamento personale: pendenti e placchette in osso o ambra romboidali o trapezoidali, perle di pasta vitrea blu, gialla bianca, che, infilate, andavano a formare collane composte da parecchi giri, orecchini, costituiti da anelli d’ambra, che pendevano da cerchietti a spirale di filo bronzeo.

Le dita delle defunte erano ornate da anelli di fili di bronzo a uno o più avvolgimenti, mentre le vesti erano trattenute da spilloni bronzei, simili a quelli maschili, ma per lo più da fibule, spille tipiche dell’abbigliamento femminile. Le forme documentate a Novilara sono molteplici e le più diffuse sono le fibule ad occhiali, a sanguisuga o ad arco ribassato, a volte in filo di bronzo con inseriti grossi nuclei d’ambra.

Dato che le donne si occupavano della cura della casa, dell’allevamento dei bambini, ma praticavano anche l’attività della filatura e della tessitura, i cui prodotti erano anche destinati all’esportazione verso altre comunità, all’interno delle sepolture femminili abbondano anche fusaiole, rocchetti, pesi da telaio e aghi.

All’interno delle tombe venivano deposti anche vasi in ceramica, perché il morto potesse servirsi di tali oggetti nell’Aldilà. I recipienti tipici di questa fase sono realizzati in ceramica d’impasto e sono il kantharos (vaso con doppia ansa) a bocca ovale, il kothon, una tipica tazza a corpo lenticolare con ansa a maniglia rialzata e bottone terminale, decorata da motivi geometrici incisi, e scodellini troncoconici con decorazione a cordone applicati.

I corredi del periodo orientalizzante, databili fra la seconda metà dell’VIII e gli inizi del VI secolo a.C., sono composti da un numero maggiore di oggetti, anche di un certo pregio e segnalano la presenza di differenze sociali all’interno della comunità, in cui si distingue un ceto egemone.

Questi personaggi di rango, ispirandosi alle coeve aristocrazie dell’Italia meridionale e tirrenica, inseriscono nelle loro sepolture oggetti di importazione, come gli amuleti egittizzanti in pasta vitrea, ma soprattutto arredi, utensili e vasellame per il banchetto, che seguono le nuove mode orientalizzanti, diffuse fra i coloni greci d’Occidente.

Nelle tombe maschili compaiono vari servizi in ceramica d’impasto, che, oltre al kantharos e al kothon, comprendono olle, scodelle a orlo rientrante e coppe su alto piede e a largo labbro. Sempre al rito del banchetto si collega la presenza di spiedi, di grossi uncini a più punte per prendere la carne e di coltelli per tagliare i cibi, utensili ormai tutti in ferro.

Tra le armi di offesa, anch’esse in ferro, alle punte di lancia e di giavellotto si associano spesso spade con fodero di legno rivestito in lamina di bronzo e pugnali più corti con elsa a stami e fodero in ferro. Fra le armi da difesa, meno comuni e riservate ai capi, solo la presenza di un umbone ovale in bronzo della tomba Servici 60, può far ipotizzare la presenza in quel corredo di uno scudo in legno o in altro materiale deperibile, mentre i pochi elmi documentati sono sempre più del tipo a calotta composta da lamine bronzee.

Nell’abbigliamento personale le fibule sostituiscono ormai gli spilloni: i tipi più frequenti sono le fibule a drago e quelle a navicella, con staffa lunga. Gli oggetti ornamentali sono sempre più numerosi e assumono fogge complesse. Oltre alle fibule più semplici a sanguisuga di piccole dimensioni o a corpo d’ambra, sono documentate fibule a drago o a grande navicella romboidale con lunga staffa.

Fra i monili, accanto alle perline in pasta vitrea e ai ciondoli d’ambra, compaiono pettorali in lamina di bronzo, che alle estremità presentano teste di uccelli acquatici, secondo lo schema della “barca solare”, a cui sono appese lunghe catenelle bronzee. Le braccia erano ornate da bracciali a spirale o a capi sovrapposti in verga di ferro o di bronzo. Sono documentate anche cinture in bronzo, formate da una fitta maglia di anellini con pendaglietti a goccia appesi al bordo inferiore.

Fra gli utensili in bronzo sono attestati nettaunghie e curaorecchie, decorati da figure umane di gusto geometrico. Anche in questa fase più recente le fusaiole e i pesi da telaio d’impasto e le conocchie in bronzo documentano una fervida attività della filatura svolta dalle donne di Novilara.

In base alle analisi effettuate sugli scheletri conservati al Museo Oliveriano di Pesaro, che costituiscono quindi solo una piccola percentuale delle sepolture scavate, si è determinato che l’altezza media per gli uomini era di m 1,66, mentre le donne raggiungevano m 1,55. In genere l’età media della morte si aggira sui 36 anni; in particolare si segnalano molti decessi fra i 20 e i 29, in prevalenza fra soggetti femminili, mentre coloro che superano i 55 anni sono uomini.

Lo studio ha consentito anche di individuare alcune patologie della cavità orale (atrofia alveolare, tartaro, ascessi, carie e usura dei denti), alcune lesioni di tipo traumatico, dovute a ferite provocate da armi da taglio, fenomeni di artrosi e di periostite, un’alterazione provocata da infiammazione degli arti inferiori.

Ora, osservando solo il corredo funebre, non apparirebbe nessuna differenza tra Novilara e gli altri siti della civiltà picena: ma ciò che fa la differenza, sono le cosiddette “iscrizioni di Novilara”, la cui lingua, come detto in precedenza. non corrisponde ad alcuna delle lingue in uso in quest’area e in quelle vicine.

La denominazione “iscrizioni di Novilara”, tra l’altro, è puramente convenzionale in quanto soltanto una delle 4 iscrizioni rinvenute in territorio pesarese proviene con certezza dalla necropoli di Novilara mentre delle altre non è stato individuato il contesto di provenienza.

Nella silloge del Whatmough in cui le epigrafi venivano convenzionalmente denominate “nord-picene” esse erano in numero di sei, ma in seguito tre di queste sono state espunte: la prima, detta “bilingue di Pesaro” è scritta in latino ed in etrusco; la seconda è un’iscrizione su tessera d’osso, anch’essa in etrusco; la terza, l’iscrizione sul bronzetto di Osimo (o di Staffolo o di S. Vittore) è redatta in lingua italica, forse umbra, con infiltrazioni etrusche. Alle tre iscrizioni rimaste se n’è aggiunta una quarta, conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona.

Vediamole un attimo in dettaglio. La prima iscrizione è incisa in un frammento di stele conservata al Museo Oliveriano di Pesaro. E’ l’unica che proviene da uno scavo archeologico; fu rinvenuta nella necropoli Servici di Novilara nel 1860 (o 1863) in località Selve di S. Nicola in Valmanente. In realtà, secondo la testimonianza del Brizio (43), sembra che la stele non sia stata trovata in situ ma “in mezzo al terriccio” fra tre tombe, sebbene la funzione originaria era quella di segnacolo di una sepoltura.

Del testo si conserva la metà sinistra di due righe, con quella superiore con caratteri grandi quasi il doppio rispetto alla linea inferiore, scritte in un alfabeto, che richiama un modello etrusco settentrionale di fine VII- inizi VI sec. a.C. ben differente da quello piceno standard, una lingua del gruppo osco sabellico, che era assai peculiare, comprendendo in particolare l’uso di sette vocali (a, e, í, i, o, ú, u)

La seconda è incisa su una stele in arenaria tenera conservata nel Museo Preistorico e Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Databile tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. E’ l’unica che conserva il testo per intero (anche se con qualche abrasione che non influisce comunque sulla lettura del testo). Rinvenuta nel 1889 nel Pesarese, Brizio ne ipotizza la provenienza da S. Nicola in Valmanente. In un lato poco levigato, presenta una decorazione incisa figurata: in alto al centro una ruota a quattro raggi, al centro della scena due scene, una di combattimento e una di caccia. Il bordo della stele, piatto su tre lati è decorato con un’incisione a doppia spirale. Sull’altro lato, levigato in maniera uniforme, è incisa l’iscrizione chiusa su tre lati da una cornice a zig zag e da una fascia di doppie spirali. In alto al centro c’è una ruota a cinque raggi con ai lati un triangolo ed una croce. In basso l’iscrizione è chiusa da una fascia incisa con un motivo a spina di pesce e due linee orizzontali che delimitano uno zoccolo. Il testo, successivo alla cornice, ne segue l’andamento sinuoso e riempie l’intero spazio a disposizione come per una sorta di horror vacui, ha andamento sinistrorso e si sviluppa in dodici righe.

La terza appartiene a un frammento di stele conservato nel Museo Preistorico e Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Databile tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. Non è certa la provenienza della stele, secondo alcuni Fano, secondo altri S. Nicola in Valmanente. In un lato c’è una scena figurata, nell’altro l’iscrizione. Si conservano le prime tre righe, quasi complete, e resti di una quarta riga in corrispondenza della frattura in basso. L’iscrizione è sinistrorsa e come la precedente è racchiusa da una cornice a volute

L’ultima è presente su un frammento di stele in arenaria conservato nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche di Ancona. In passato si riteneva provenisse da Belmonte mentre più probabilmente proviene anch’essa da S. Nicola in Valmanente. Solo l’angolo a destra in basso risulta arrotondato e lisciato, per il resto, sia il bordo, sia la superficie superiore è lasciata grezza. La superficie figurata ed iscritta è invece abbastanza piana anche se leggermente abrasa a sinistra. Con ogni probabilità è stato utilizzato lo stesso strumento sia per la raffigurazione che per l’incisione. Quasi al centro della lastra c’è l’incisione figurata di una scena di caccia a cavallo. L’animale sulla sinistra, non del tutto visibile perché danneggiato dall’abrasione della lastra, che sembrerebbe un cane o un lupo sta di fronte ad un cavaliere armato di lancia. In basso l’iscrizione, sinistrorsa, di cui si conserva la prima riga incompleta e tracce della seconda riga.

Che lingua era quella Nord Picena ? E’ assai complicato dirlo, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che le iscrizioni fossero un falso ottocentesco. Ipotesi, allo stato attuale, però difficile da sostenere: per prima cosa, i falsari dell’epoca, concentrati soprattutto a Roma, si dedicavano alla creazioni di reperti di pregio, statue, ceramiche, bronzi, gioielli, facilmente piazzabili nel mercato antiquario, piuttosto che a steli di difficili collocazioni.

La valutazione dell’entropia di Shannon ha mostrato come le iscrizioni siano compatibili con un messaggio di senso compiuto, piuttosto che con un aggregato casuale di simboli. Infine, l’analisi della fonetica e della morfologia delle frasi ha mostrato la loro appartenenza a un sistema linguistico compiuto.

Se non sono un falso costruito a tavolino, le iscrizioni testimoniano quindi l’esistenza di una lingua, probabilmente di matrice indoeuropea, ricca di prestiti sia greci, sia etruschi…

 

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