La Compagnia Bianca, composta da mercenari inglesi guidati dal leggendario John Hawkood (in italiano Giovanni Acuto), iniziò la sua carriera in Francia durante la Guerra dei Cent’anni, arrivando poi in Italia nel 1361. Da quel momento fino alla morte nel 1394, il suo condottiero combatté in tutta la penisola come capitano di eserciti in tempi di guerra, e come comandante di bande di predoni durante i periodi di pace, raggiungendo fama internazionale. In questo breve estratto dalla “Cronica” di Filippo Villani, sono riportate alcune salienti osservazioni dello scrittore fiorentino sul modo di armarsi e di combattere della Compagnia. Da notare il riferimento all’introduzione da parte degli Inglesi di una nuova unità detta “Lancia”; il modo di combattere dei cavalieri, i quali spesso smontavano dai loro cavalli per combattere a piedi; l’uso massiccio degli arcieri armati dei famosi long-bow; e la capacità di combattere anche d’inverno, diversamente dagli usi del…
Accanto a San Cesareo de Appia vi è una villa rinascimentale, poco nota al grande pubblico e quasi mai aperta, che condivide molto della storia della chiesa: si tratta della cosiddetta Casina del Cardinal Bessarione.
La villa sorge in luogo ricco di vestigia romane- due grandi sepolcri quadrangolari e i resti di un grande edificio – venuti alla luce nel corso degli scavi condotti nel 1983. I due sepolcri, databili al I secolo a. C., sono disposti parallelamente a via di Porta S. Sebastiano; all’epoca della loro costruzione essi erano in zona extraurbana, trovandosi all’esterno della Porta Capena, rispettando quando previsto dalla Legge delle XII Tavole.
Solo dopo la costruzione delle Mura di Aureliano, la zona venne a trovarsi all’interno del nucleo urbano. Entrambi i sepolcri (di circa m. 5,40 per lato) presentano un grande nucleo in opera cementizia e parte del rivestimento in blocchi squadrati di peperino.
Alle spalle dei sepolcri sorse nella prima età imperiale un edificio che ebbe almeno tre fasi costruttive. Alla prima spettano i resti di una fondazione in opera a sacco. Alla seconda sono riferibili due ambienti (di cui uno pavimentato in opus spicatum, l’altro comunicante con un cortile in basolato) e due lunghi muri (di cui uno nell’area del giardino): gli ambienti e i due muri sono stati interpretati come i resti di tabernae. Alla terza fase (databile presumibilmente alla prima metà del sec. II d.C.) corrisponde un generale innalzamento del livello di occupazione e la costruzione di due unità abitative (a cui vanno riferiti i mosaici a disegno geometrico in bianco e nero tuttora visibili) secondo una planimetria a specchio, con gli ambienti distribuiti ai due lati di un asse generatore costituito dal muro in opera mista distinguibile nel piano seminterrato della casina.
Su cosa possa essere stato questo edificio, vi sono due ipotesi contrastanti: la prima, è che siano resti di locali di servizio delle Terme Commodiane, la seconda è che sia una sorta di condominio di lusso, analogo alle case a giardino di Ostia Antica. La fase medievale, individuabile nella parte sud-ovest, si riferisce alla destinazione dell’antico edificio quale sede ospedaliera, ai primi del XIV secolo gestita, secondo quanto riportato in una bolla papale riguardante la vicina chiesa di S.Cesareo, dai “fratres cruciferi” e poi dalle monache benedettine di San Sisto Vecchio.
Nel 1439, papa Eugenio IV sfrattò le monache e l’ospedale-convento fu per un paio d’anni abbandonato a se stesso: le cose cambiarono nel 1442… La sede suburbicaria di Tuscolo era stata vacante per un paio d’anni, dato che il Papa l’aveva tolta nel 1440 al cardinale Ugo di Lusignano si era schierato dalla parte dell’antipapa Felice V, ossia il duca di Savoia Amedeo VIII, che aveva organizzato il fidanzamento tra il figlio Luigi e Anna di Lusignano… Tra l’altro, proprio a causa di tale legame, i Savoia adottano il titolo di re di Cipro e di Gerusalemme.
Ora, dato che Tuscolo, nonostante fosse andata distrutta, fosse associata a un titolo di prestigio, Eugenio IV la concesse come titolo cardinalizio a Luigi di Lussemburgo, impegnato a mediare nelle difficili trattative di pace della Guerra dei Cento Anni. Luigi, non avendo una sede di rappresentanza romana, convinse il papa a concedergli l’ex ospedale dei cruciferi, per poi intraprendere i relativi lavori di ristrutturazione, trasformando il tutto in una villa suburbana, un incunabolo di quelle che diventeranno le grandi residenze extraurbane del Cinquecento e del Seicento.
Qualche anno, dopo vi dimorò probabilmente il cardinal Bessarione, da cui la Casina prenderà il nome, che possedeva una vigna dalle parti di San Sisto Vecchio… Ma chi era costui ? Teologo e umanista, nacque a Trebisonda nel 1403. Morì a Ravenna nel 1472. Monaco basiliano, fu al servizio di Giovanni VIII di Costantinopoli e di Teodoro II Porfirogenito. Arcivescovo di Nicea, partecipò al concilio di Ferrara – Firenze per l’unione della Chiesa greca con quella latina, in qualità di oratore principale dei Greci; nell’esito felice, anche se non duraturo del concilio, ebbe gran parte. Creato da Eugenio IV cardinale dei Santi Apostoli – basilica che ospita la sua straordinaria cappella funebre e che ristrutturò, in una sintesi tra arte paleologa e rinascimentale, che ispirò Bramante e che fu causa delle tante paturnie di Giulio II relative alla sua tomba – nel 1439, fu chiamato in Curia dal papa e nel 1449 trasferito alla sede vescovile di Sabina e poco dopo a quella di Tuscolo. Legato pontificio a Bologna, fu candidato all’elezione papale nel conclave del 1455. Nel 1463 divenne vescovo di Negroponte e poi patriarca di Costantinopoli. Contribuì alla diffusione in Italia del greco e specialmente della filosofia platonica. Tradusse in latino la “Metafisica” di Platone.
Era, dunque, un sublime uomo di cultura. Così scrisse in una lettera:
“Non c’è oggetto più prezioso, non c’è tesoro più utile e bello di un libro. I libri sono pieni delle voci dei sapienti, vivono, dialogano, conversano con noi, ci informano, ci educano, ci consolano, ci dimostrano che le cose del passato più remoto sono in realtà presenti, ce le mettono sotto gli occhi. Senza i libri saremmo tutti dei bruti”
Alla morte del Bessarione, la casina divenne dimora del cardinal Piccolomini, personaggio assai bizzarro, dotto storico e sagace autore di satire, che fu, assieme a Cesare Borgia, amante della bella cortigiana Fiammetta.
Alla morte, il cardinal Piccolomini lasciò tutti i suoi bene, Casina compresa alla sua
damigella di singolare beltà, per amore di Dio e per provvederla di una dote
Sisto IV, per evitare lo scandalo, decise di invalidare il testamento, ma dinanzi alle proteste della lobby dei clienti di Fiammetta, ossia gran parte della Curia, istituì una commissione, che, per chiudere la vicenda con un compromesso, donò alla donzella una vigna presso il belvedere Vaticano e tre case (una in via dei Coronari, una in via degli Acquasparta, una con torre nello scomparso vicolo della Palma.
Così la Casina toccò al cardinale Giovan Battista Zen, tanto corrotto quanto amante dell’arte e della cultura, grande appassionato di esoterismo, di cabala ed alchimia. Il cardinale fu probabilmente avvelenato dai Borgia, desiderosi di appropriarsi delle sue smisurate ricchezze, frutto delle sue malversazioni: ma ahimè, rimasero con un pugno di mosche, dato che Zen lasciò nel testamento 200.000 ducati alla Serenissima Repubblica a condizione che ogni anno si celebrasse una solenne messa per la sua anima e 50.000 scudi per opere di bene.
Così Alessandro IV, per tentare di raccattare un poco d’oro dalla salma del cardinale, dovette vendere all’asta la Casina. In una pianta del 1551 questa appare come vinea del Cardinale Marcello Crescenzi, il cui stemma di famiglia è in effetti affrescato nella loggia della casina. Nel 1600 Clemente VIII concesse i due edifici contigui, casa e chiesa, al Collegio Clementino, da lui fondato nel 1594 e affidato ai Padri Somaschi, e la villa divenne luogo di incontri conviviali legati all’attività del Collegio.
Tra il 1860 e il 1870, la torre che si accompagnava alla Casina, che appariva nelle mappe dell’area sino a metà Ottocento, fu demolita. Soppresso il Collegio Clementino nel 1870, l’edificio fu affidato al Convitto Nazionale. Ben presto tuttavia la villa cadde in abbandono e sul finire del secolo venne trasformata in osteria di campagna tramite una serie di interventi che la modificarono radicalmente: vennero chiusi gli archi della loggia; i soffitti e le pareti affrescate furono imbiancate; le sale, suddivise in più vani con dei tramezzi, vennero utilizzate come camere da letto o come depositi di attrezzi e prodotti agricoli.
Solo negli anni del Governatorato la casina tornò alla sua antica dignità. Espropriata nel 1926, essa venne fatta oggetto di ingenti restauri affidati all’Ufficio Antichità e Belle Arti e diretti dall’ingegner Adolfo Pernier, che definì la progettazione nel 1928. Un nuovo restauro avvenne s tra il 1951 ed il 1969, quando la Casina fu arredata con mobili e suppellettili rinascimentali.
Ma cosa ammirare della Casina del Cardinal Bessarione ? All’esterno, l’occhio è per prima cosa colpito dalla loggia, costruita con colonnette di spoglio a capitelli alternativamente dorici e ionici, graziosa nelle proporzioni e nella decorazione campestre e raccolta nella bellissima finestra a croce guelfa.
Di fatto ha lo stesso ruolo del cortile della casa medioevale o dell’impluvium o nel loggiato della casa romana, il confine tra la dimensione pubblica e di rappresentanza e di quella privata, legame reale e ideale tra il giardino esterno e il salone interno, momento di trapasso luministico e coloristico, tra la luce viva e la penombra interna, i colori della natura e la decorazione ad affresco delle sale.
A livello della loggia, accessibile per mezzo di una scala, è il piano nobile, per valorizzare il quale la casa non si conformò su due piani, bensì in un piano seminterrato (destinato ai servizi) e uno rialzato (per gli appartamenti del Cardinale). Sul lato rivolto alla via Appia, la fronte si arricchisce di due belle e imponenti finestre a croce guelfa, che anticipano molte soluzioni del Quattrocento romano, come la Casa dei Cavalieri di Rodi, Palazzo di Venezia o Palazzo dei Penitenzieri
Ai lati delle finestre si sviluppa un graffito a finto bugnato regolare; questo a differenza della croce guelfa non fu motivo derivato dall’ambiente toscano dove si preferirono i rivestimenti in lastre o conci di pietra. Differenze si riscontrano anche nelle proporzioni d’insieme; se infatti nei palazzetti toscani si ritrova un costante ricorso alle forme simmetriche, a Roma si preferirono le linee longitudinali e le forme allungate, che moltiplicano i punti di vista. L’obiettivo di Firenze è convincere la ragione, mentre quello di Roma è sorprendere lo sguardo.
Entrando nel salone principale, la Sala Regia, lo sguardo si posa subito su uno dei pochi resti della decorazione rimasti di quanto la Casina era un ospedale, un affresco, risalente alla seconda metà del Trecento, in stile gotico, che rappresenta Santa Margherita di Antiochia, Santa Caterina d’Alessandria forse Sant’Acacio, rappresentato barbuto, tre dei quattordici ausiliatori, i santi che vengono invocati nelle malattie o comunque in situazioni delicate.
Per cui è ipotizzabile, che ai tempi dell’Ospedale, in quel punto vi fosse una cappella: i cardinali di Tuscolo, pur demolendola per costruire il salone della loro villa, decisero, per devozione, di salvarne parte della decorazione.
La rimanente decorazione della Sala Regia è costituita da un fregio a stemmi e girali d’acanto; a una serie di finte mensole marmoree dipinte si annodano panoplie, nastri, fontane e coppe. Decorazione, antecedente alla diffusione della grottesca, che ricordiamo è figlia della riscoperta nel 1480 della Domus Aurea, che è una reinterpretazione tardo gotica dei fregi antichi che si intravedevano nei Fori, equivalente pittorico dei fregi scultorei di Isaia da Pisa e di Paolo Romano
Passando alla Loggia, sopra un parapetto dipinto, si innalzano dei finti pilastri, al di là dei quali si scorge un paesaggio continuo che sembra proseguire il giardino che circonda la casa, per mediare il passaggio tra il Giardino, il dominio della Natura e dell’attività quotidiana, e la Sala Regia, il dominio della Cultura e della Meditazione.
Contrapposizione accentuata anche dalle pitture presenti: da una piccola chiesa con campanile posta su una collina, da cui discende un fiume, simbolo della vita contemplativa, da cui discende la Grazia divina ; a destra una conigliera sotto una città turrita, riferimento alla Vita Attiva, con i suoi infiniti affanni, che cerca di realizzare il Regno di Dio in Terra.
Tornando all’interno della Casina, è affascinante ammirare la stanza che custodì parte della straordinaria biblioteca del Cardinal Bessarione, che divenne il nucleo base della Marciana, e il cubiculum, la camera da letto, decorata con girali d’acanto con al centro dei melograni aperti, simbolo del martirio di Cristo, che genera il “corpo mistico” della Chiesa, la quale racchiude in sé il popolo salvato e sparso nel mondo, seme santo e santificatore.
Decorazione che si estende anche al seminterrato, che poteva svolgere, a seconda delle inclinazioni del cardinale proprietario, sia il ruolo di coenatio estiva, dove nei giorni di eccessivo caldo il padrone potesse far servire la cena per sé e per i suoi invitati, sia quello di eremo per la meditazione sul rapporto tra Dio e il Mondo.
Il secondo, pur non essendo coinvolto nel più importante cantiere della Cristianità, aveva però ottenuto una commissione prestigiosa, che a differenza della ricostruzione di San Pietro, poteva concludersi in tempi alquanto rapidi.
Per cui, Giuliano cominciò a interrogare Michelangelo, su cosa avesse in mente di preciso; così ebbe la possibilità di osservare un progetto, di cui noi moderni, per le contraddizioni tra le fonti, Condivi e il solito Vasari.
Il primo, più abile come scrittore, che come pittore, ne la Vita di Michelagnolo Bonarroti, più che una biografia, il ritratto di un amico geniale, con la sua disordinata cultura, il pessimo carattere e il rigore del suo pensiero, così lo descrive.
E per darne qualche saggio, brevemente dico, che questa sepoltura, doveva aver quattro faccie, due di braccia diciotto, che servivan per fianchi, e due di dodici, per teste: tal che veniva ad essere un quadro e mezzo. Intorno, intorno di fuore, erano nicchi, dove entravano statue, e tra nicchio e nicchio termini, aiquali, sopra certi dadi, che movendosi da terra sporgevano in fuori, erano altre statue legate, come prigioni, le quali rappresentavano l’arti liberali, similmente Pittura, Scultura, e Architettura, ogniuna colle sue note, si che facilmente potesse esser conosciuta, per quel che era; denotando per queste, insieme con Papa Giulio, esser prigioni della morte, tutte le virtù, come quelle che non fusser mai per trovare da chi cotanto fussero favorite e nutrite, quanto da lui. Sopra queste correva una cornice, che intorno legava tutta l’opera, nel cui piano eran quattro grandi statue, una delle quali, cio è il Moise, si vede in San Piero ad Vincula, e di questa si parlerà al suo luogo.
Cosi ascendendo l’opera, si finiva in un piano, sopra ilquale erano due Agnoli, che sostenevano un’arca, uno d’essi faceva sembiante di ridere, come quello che si rallegrasse, che l’anima del Papa, fusse tra li beati spiriti ricevuta, l’altro di piangere, come se si dolesse, chel mondo fusse d’un tal uomo spogliato. Per una delle teste, cioè da quella che era dalla banda di sopra, s’entrava dentro alla sepoltura in una stanzetta, a guisa d’un tempietto, in mezzo della quale era un cassone di marmo, dove si doveva sepellire il corpo del Papa, ogni cosa lavorata con maraviglioso artificio. Brevemente, in tutta l’opera andavano sopra quaranta statue, senza le storie di mezzo rilievo fatte di bronzo, tutte a proposito di tal caso, e dove si potevan vedere i fatti di tanto Pontefice. Visto questo disegno il Papa, mandò Michelagnolo in San Pietro, a veder dove comodamente si potesse collocare. Era la forma della chiesa alhora, a modo d’una croce, in capo della quale Papa Nicola Quinto aveva cominciato a tirar su la tribuna di nuovo, e gia era venuta sopra terra, quando morì, al’altezza di tre braccia.
Mentre il solito Vasari, ecco come lo racconta
Di quest’opera condusse Michelagnolo, vivente Giulio e dopo la morte sua, quattro statue finite et otto abbozzate, come si dirà al suo luogo, e perché questa opera fu ordinata con grandissima invenzione qui di sotto narreremo l’ordine che egli pigliò. E perché ella dovessi mostrare maggior grandezza volse che ella fussi isolata da poterla vedere da tutt’a quattro le faccie, che in ciascuna era per un verso braccia dodici e per l’altre due braccia diciotto, tanto che la proporzione era un quadro e mezzo. Aveva un ordine di nicchie di fuori a torno a torno, le quali erano tramezzate da termini vestiti dal mezzo in su, che con la testa tenevano la prima cornice, e ciascuno termine con strana e bizzarra attitudine ha legato un prigione ignudo, il qual posava coi piedi in un risalto d’un basamento. Questi prigioni erano tutte le provincie soggiogate da questo Pontefice e fatte obediente alla Chiesa apostolica; et altre statue diverse pur legate erano tutte le virtù et arte ingegnose, che mostravano esser sottoposte alla morte non meno che si fussi quel Pontefice che sì onoratamente le adoperava. Su’ canti della prima cornice andava quattro figure grandi: la Vita attiva e la contemplativa, e S. Paulo e Moisè.
Ascendeva l’opera sopra la cornice in gradi diminuendo con un fregio di storie di bronzo e con altre figure e putti et ornamenti a torno, e sopra era per fine due figure, che una era il Cielo, che ridendo sosteneva in sulle spalle una bara insieme con Cibele dea della terra, [e] pareva che si dolessi che ella rimanessi al mondo priva d’ogni virtù per la morte di questo uomo, et il Cielo pareva che ridessi che l’anima sua era passata alla gloria celeste. Era accomodato che s’entrava et usciva per le teste della quadratura dell’opera nel mezzo delle nicchie, e drento era caminando a uso di tempio in forma ovale, nel quale aveva nel mezzo la cassa, dove aveva a porsi il corpo morto di quel Papa; e finalmente vi andava in tutta quest’opera quaranta statue di marmo senza l’altre storie, putti et ornamenti e tutte intagliate le cornici e gli altri membri dell’opera d’architettura
Per cui, cercando di fare un mix tra le due descrizioni, avevamo una colossale struttura architettonica isolata nello spazio, a base rettangolare, composta da tre ordini che, dalla base, andavano restringendosi gradualmente, in una sorta di piramide architettonico-scultorea. Attorno al catafalco del papa, in posizione sopraelevata, si trovavano una quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale, alcune libere nello spazio, altre addossate a nicchie o ai pilastri
Il registro inferiore, prevedeva da due a quattro nicchie, ciascuna contenente una statua di Vittoria alata, incorniciata da statue di “ignudi” maschili incatenati, le “Prigioni”, che si ispiravano alle figure dei Captivi nell’arte ufficiale romana, addossati ai pilastri e sormontati da busti. Il piano superiore doveva contenere quattro grandi figure sedute, forse un Mosè e un San Paolo e alle personificazioni della Vita attiva e della Vita contemplativa, forse collocate agli angoli o frontali sui lati minori. Queste ultime guidavano lo sguardo dello spettatore verso la sommità, dove si trovava la statua semidistesa del pontefice sul catafalco tra rilievi bronzei e due figure allegoriche, Angeli per Condivi o Cielo e Terra per Vasari. Il sarcofago vero e proprio si trovava all’interno di un sacello ovale all’interno della struttura, al quale si accedeva da un portale su uno dei lati brevi o su entrambi. La statua del papa sulla sommità, guidato fuori dalla tomba da due angeli, doveva richiamare il motivo del risveglio del defunto durante il Giudizio Universale, come nel monumento sepolcrale di Margherita di Lussemburgo di Giovanni Pisano.
Giuliano da Sangallo, dinanzi a questo colosso di marmo e bronzo, si pose lo stesso problema che chiunque, al suo posto, si sarebbe posto, ossia
“E ora, dove diavolo lo metto ?”
La soluzione al problema venne dalla stessa San Pietro costantiniana: come accennato in un vecchio post, all’epoca, vi erano accanto all’antica basilica, vi erano due mausolei imperiali dell’epoca tardo antica, uno dedicato a Onorio, dove tra l’altro era sepolto anche Alessandro VI, l’altro, probabilmente, a Anastasia, sorellastra di Costantino. Entrambi avevano una pianta circolare all’esterno, ottagonale all’interno, con nicchie che alleggeriscono la struttura muraria, simili al Tempio di Minerva Medica, alla Rotonda di Galerio a Salonicco e ai Mausolei di Elena e di Costantina.
Per cui, concepì anche lui un edificio a pianta circolare, in cui il visitatore potesse girare intorno all’opera di Michelangelo, ammirandone gli infiniti punti di vista e rendendo al contempo onore a Giulio II. Oltre alle analogie morfologiche, anche il sistema costruttivo del progetto di Sangallo si riallaccia sia ai mausolei tardo antichi, sia al Pantheon: le nicchie rettangolari si alternano a pilastri massicci che continuano nel secondo livello e proseguono poi nelle nervature nascoste della cupola.
Gli ambienti posti sulle diagonali si aprono in colonnati dal ritmo trionfale e sono destinati a cappelle, mentre gli altri tre vani situati sugli assi principali servono come vestiboli. I pilastri sono scavati da scale a chiocciola che salgono ai balconcini sopra le porte, destinati forse ai cantori della “cappella Iulia”. Le quattro scale a due rampe invece dovevano servire il secondo livello, articolato da nicchie. Il basso corridoio scavato nel muro di questo piano doveva prendere luce da finestre esterne di formato rettangolare, che avrebbero illuminato l’opera michelangiolesca da tutti i lati.
Il primo livello, rialzato su un podio con due bassi gradini, è pari a circa 11,25 metri complessivi, dei quali circa 8,80 metri per la colonna con il suo capitello, la stessa altezza del primo livello del mausoleo di Giulio II. Con un diametro di circa 0,80-0,90 metri la proporzione dell’ordine composito è di 1:10,5, per non apparire troppo esile in proporzione all’enorme massa di marmo.
La trabeazione tripartita è di 2,44 metro, un po’ più di 1/5 dell’altezza totale, ed è dominata dalla cornice che sporge su un fregio di altezza ridotta e un architrave abbastanza sviluppato. Il secondo piano raggiunge circa 8,75 metri e forma un ordine più snello di circa 1:14,5, assecondando la riduzione delle dimensioni del mausoleo.
Ogni colonna con il suo capitello misura circa 6,60 metri, seguita dalla trabeazione, che con di più di 2 metri aumentata sensibilmente la proporzione rispetto a quella del primo registro, mentre la tripartizione è simile. La proporzione tra i due registri si avvicina a quella vitruviana di 4:3, raccomandata anche da Leon Battista Alberti, prima di diventare un principio quasi categorico per Sebastiano Serlio.
Al registro superiore la parete tra le semicolonne è articolata da nicchie di proporzione slanciata che si legano in un movimento verticale con tondi e pannelli quadrati. La cupola sorge a un livello di circa 20 metri e culmina in un’altezza interna di 9,15 metri, delineando un profilo quasi semicircolare, che è alla base delle successive riflessioni di Sangallo su San Pietro.
Ispirata al Pantheon, l’apertura zenitale fa penetrare una luce misteriosa, che illumina in pieno Giulio II che risorge dal morti, metafora della grazia divina, entra la lanterna cinta da un colonnato segue un modello brunelleschiano. L’altezza complessiva fino all’oculo centrale è di circa 29,20 metri, mentre il diametro interno è pari a circa 19,30 metri. Con rapporti di 2:3 la proporzione dell’interno esibisce un maggiore verticalismo rispetto a quella del Pantheon, ispirato all’architettura tardo antica.
Grazie al cerchio murario di 4,25 metri, scavato dalle cappelle, il diametro esterno raggiunge circa 28,80 metri e il “pieno” supera quello del modello e testimonia quanto sia importante per l’architetto la corporeità dell’impianto.
Il cilindro esterno è cadenzato da sedici semicolonne la cui successione è scandita dagli intercolunni più stretti dei vestiboli con i loro portali, preceduti da due gradini. Esiste quindi una forte dicotomia con l’interno, dove le ventiquattro colonne sono ora libere ora legate alla parete (a tre quarti) e seguono ritmi variati.
Come nel caso di Santa Maria delle Carceri la trabeazione, raffigurata in modo schematico, si trova allo stesso livello sia all’esterno sia all’interno, rinforzando la corrispondenza tra i sistemi. La parte inferiore della cupola è nascosta da un tamburo alto 3,5 metri sul quale si erge il tetto in forma conica. Anche questo piano di altezza ridotta, molto arretrato rispetto a quello precedente, è ornato da colonne il cui ordine sembra ugualmente corinzio.
Mentre Michelangelo, dopo essersi intascato 10.000 ducati, si era diretto alla volta delle cave di Carrara, dove desiderava scegliere personalmente ogni singolo blocco di marmo da impiegare, Giuliano tornava a riflettere insoddisfatto, su quanto aveva concepito.
Così concepisce una nuova versione, in cui associa quattro vestiboli, dando alla struttura la forma di una croce. Giuliano ha poi cancellato i gradini sul lato posteriore per aggiungere una cappella di forma rettangolare, che aggetta rispetto alla rotonda, i cui angoli esterni sono accentuati da colonne a tre quarti dalla forte plasticità.
Il podio segue il perimetro e conferisce al volume una silhouette più movimentata. Giuliano ha poi completato l’ordine per mezzo di porzioni di colonne angolari che echeggiano quelle in fondo alla stessa cappella. Forse in questo momento egli ha aggiunto anche le due colonne di fronte ad uno degli ingressi, per identificarlo come principale. Il disegno non permette di decidere se fossero previsti coronamenti in forma di trabeazioni o tetti secondo un gioco di volumi che contraddistingue la chiesa dipinta
da Perugino nella Consegna delle chiavi della Cappella Sistina.
Nell’ultima versione del progetto, Giuliano sembra quasi realizzare una variante, più poderosa e monumentale, della chiesa circolare della tavola con la città ideale custodita a Urbino, con un cilindro, che si erge su un podio di tre gradini ed è articolato da un ordine corinzio. Mentre sul pannello il secondo registro è molto ridotto, nel progetto la successione dei due primi piani nel rapporto di 4:3, seguita dal tamburo ugualmente dotato di semicolonne che costituisce una specie di piano attico arretrato, testimonia un maggiore sviluppo verticale.
Se sulla tavola l’incrostazione marmorea del piano terra è sprovvista di finestre, il registro inferiore del progetto di Giuliano è cadenzato da aperture che trovano un’eco in quelle dei due piani superiori. È però poco probabile che Giuliano avesse pensato all’incrostazione con effetti policromi di stampo toscano per un mausoleo di Giulio II in cui l’ordine doveva verosimilmente distinguersi sulla parete neutra.
In entrambe le rappresentazioni mancano risalti nella trabeazione e le linee proseguono in orizzontale, come all’interno del Pantheon, ma senza nessuna interruzione. Il tetto conico termina in una lanterna – altro punto comune – ma grazie ai tre piani il tetto sarebbe stato molto meno visibile sia nel progetto sia sul pannello.
Per le vicende che racconterò nelle prossime puntate, né il contenuto, il Mausoleo di Michelangelo, né il contenitore, furono mai realizzati: destino ancora peggiore toccò a un edificio che ne fu ispirato, cappella funeraria per la Casa di Valois a Saint-Denis, commissionata da Caterina de’ Medici a Primaticcio.
La costruzione, adiacente la facciata settentrionale del transetto della basilica, iniziò nel 1568, impiegando marmi bianchi, neri, grigi e rossi. Nel 1570 Primaticcio muore e nel 1572 re Carlo IX di Francia e sua madre Caterina approvano il definitivo progetto della cappella presentato da Jean Bullant. Manteneva l’impianto del Primaticcio ma vi aggiungeva un anello dodecagonale intorno che poneva le tombe di famiglia in sei cappelle laterali invece di addossarle alle pareti. Ora l’edificio presentava 30 metri di diametro e doveva essere coronato da cupola. Tuttavia a causa dei problemi finanziari legati alle Guerre di religione la costruzione avanza molto lentamente fino ad essere abbandonata nel 1586 quando si era arrivati al livello del secondo cornicione. Nel 1589 Caterina de’ Medici muore e i successivi Borbone realizzarono solo un tetto provvisorio, conico, nel 1621.
Completamente abbandonata, la rotonda, venne smantellata nel 1719 e la tomba portata all’interno della basilica
Questo pomeriggio, sui giornali, è apparsa la notizia della scoperta, nel Foro Romano, di un ambiente sotterraneo, in cui si trovano un sarcofago un sarcofago in tufo del Campidoglio, lungo circa 1,40 metri e un elemento circolare, che potrebbe essere o un altare o la base di un gruppo statuario.
La datazione presunta, il VI secolo a.C., la vicinanza al Lapis Niger e la testimonianza di Varrone, che parla del sepolcro di Romolo posto nel Foro Romano, situato ”post rostra”, ossia dietro i Rostra repubblicani, ha portato immediatamente a identificarlo con il sarcofago del fondatore di Roma. Ora, in attesa dei comunicati ufficiali della Sovrintendenza, che magari smentiranno tutte le illazioni di queste ora, provo a buttare giù un paio di riflessioni sulla questione.
La fase arcaica del Foro Romano, grazie agli scavi degli ultimi anni, è molto più chiara di quanto apparisse a fine Ottocento al buon Giacomo Boni, sotto molti aspetti un personaggio da romanzo: da una parte, uno dei primi archeologi moderni in Italia, applicando i principi dello scavo stratigrafico e adottando la fotografia per documentare il ritrovamento dei reperti. Dall’altra, era un appassionato di esoterismo, seguace, a seconda del periodo della teosofia, dell’antroposofia e del sufismo, che si impegnò anima e corpo nel tentativo di riportare in auge il paganesimo romano.
Sappiamo che tra l’IX e l’VIII secolo a.C. prima del sinecismo che però alla nascita di Roma, l’area, per i parametri dell’epoca, era densamente popolata. Sono state trovate necropoli arcaiche e una una decina di capanne databili, simili a quelle del Palatino.
Nella generazione immediatamente successiva al sinecismo, intorno al 750 a.C. che corrisponde, secondo la tradizione annalistica, al regno di Numa Pompilio, l’area cambia destinazione d’uso, subendo una sorta di monumentalizzazione: sulla piattaforma delle capanne vengono poste le fondazioni in tufo e l’alzato in mattoni crudi di un edificio, formanti una sorta di piattaforma aperta sulla futura via Sacra. Davanti alla piattaforma si trovava un recinto con un cippo-altare a forma di tronco di cono.
Una decina d’anni dopo, forse su un precedente santuario, viene costruito un edificio costituito da una grande sala, affiancato da quattro stanze più piccole, e corredato da un portico sulla fronte; al fianco di questo, in corrispondenza di quello che sarà il complesso più tardo costituito l’aedes di Vesta e alla casa-domus delle vestali, sono erette due capanne monumentali, che potrebbero avere avuto una destinazione di tipo sacrale.
Su che ruolo svolgessero questi edifici nella Roma Arcaica, gli archeologi stanno discutendo, anche molto animatamente, da anni. Però, che avessero un’importanza centrale, nell’organizzazione del territorio urbano dell’VIII secolo, diventando un sorta di simbolo civico e luogo di aggregazione per gli abitanti dei vici in cui si articolava la città, sono tutti concordi.
Le cose cambiano tra il 575 a.C. e il 550 a.C. in cui, secondo gli annalisti, regna Servio Tullio, il primo edificio è ristrutturato e accostato a un tempio con terrecotte decorative, il cui terrazzamento è sovrapposto al recinto del VII secolo, senza però toccare l’altare. Il tempio, del quale restano scarsissimi resti, doveva avere una pianta rettangolare con un unico ambiente aperto a est e proceduto da un porticato di legno; contemporaneamente l’area del recinto viene pavimentata accuratamente, lasciando il cippo al centro, e forse in parte coperta.
Di fatto il luogo, che svolgeva all’inizio una funzione abitativa e civile, viene “sacralizzato”, un santuario che ripeteva le forme di un’abitazione, come ne sono state scoperte per esempio a Acquarossa, centro etrusco vicino a Viterbo, risalenti al VII secolo a.C. Una ristrutturazione analoga avviene anche nel secondo edificio.
Che sta succedendo? Semplicemente i re etruschi si stanno impegnando in un’azione, che ai nostri tempi, chiameremmo di propaganda, riscrivendo secondo la loro ottica le vicende delle origini della città che dominano, creando una sintesi tra diverse culturee.
Alla figura storica del fondatore della città, forse appartenente alla gens Hostilia, si sostituisce quella dell’eroe sacrale Romolo, modellata secondo la visione della storia sacra dei Latini, basata sulle genealogie divine e sulle diade natura/cultura e ordine/caos, che però nel dare origine a Roma, applica i riti della tradizione tirrenica.
Riscrittura della storia, che porta, sempre nello stesso periodo, alla nascita dell’heroon, il santuario monumentale eretto alla memoria dell’eroe fondatore, simbolo di unione per la comunità che da lui trae origine. Heroon che, seguendo la tradizione greca che i re etruschi tentavano di imitare, si doveva trovare all’interno del perimetro urbano, in posizione di grande rilievo, nella piazza principale, equivalente dell’agorà e diveniva luogo di culto e venerazione popolare da parte dei cittadini.
Per cui, nacque il famigerato Lapis Niger, il 10 gennaio 1899 da Giacomo Boni, che raccontò di averlo identificato a seguito di un non ben chiaro sogno profetico; un brano di Festo
Niger lapis in comitio locum funestum significat, ut alii dicunt Romuli morti destinatum, sed non usu obvenisse ut ibi sepeliretur, sed Faustulum nutricium eius, ut alii dicunt, Hostilium avum Tulli Hostilii regis.
ossia
La pietra nera indica nel comizio un luogo funesto, che alcuni dicono destinato al sepolcro di Romolo, ma che non accadesse più che ivi si seppellisse, ma alcuni dicono (destinato a tomba) di Faustolo suo educatore, altri di Ostilio avo del re Tullo Ostilio
lo fece immediatamente associare a Romolo.
Giacomo, sotto una pavimentazione in marmo nero transennata di marmo bianco, approssimativamente quadrata, trovò un complesso arcaico. composto da una piattaforma sulla quale era posto un altare a forma di U, dotato di basamento e di un piccolo cippo fra le ante, e due basamenti minori i quali reggono, rispettivamente, un cippo a tronco di cono e un cippo piramidale, quest’ultimo con la famosa iscrizione bustrofedica, in latino arcaico.
L’altare ha una tipologia canonica, con la sagoma del basamento a doppio cuscino sovrapposto. Il tutto era situato all’aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex voto ceramici o bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti, a testimonianza dei riti compiuti in onore dell’eroe fondatore.
Complessa è l’interpretazione dell’iscrizione
QUOI HON […] / […] SAKROS ES / ED SORD […] […] OKA FHAS / RECEI IO […] / […] EVAM / QUOS RE[…] […]KALATO / REM HAB[…] / […]TOD IOUXMEN / TA KAPIAD OTAV[…] […]M ITER PE[…] / […]M QUOI HA / VELOD NEQV[…] /[…]IOD IOUESTOD LOVQVIOD QO[…]
Che secondo l’ipotesi più accreditata, dovrebbe significare
Sia sacrificato agli dei inferi colui che violi quest’area sacra Chi abbia commesso impurità nel rito funerario paghi al re come saldo della multa il patrimonio familiare Se il re venga a sapere che alcuni transitino per la via vicina al luogo sacro allora per voce dell’araldo in ottemperanza ad una legge pubblica sequestri i loro animali da soma Di chi voglia intraprendere il cammino sia la responsabilità. Il re non consenta a nessuno di intraprenderlo,se non per legittimo decreto.
In somma una sorta di articolato e punitivo “divieto d’accesso ai non autorizzati”, dato che probabilmente solo il re e i suoi delegati potevano compiere i riti in onore dell’eroe fondatore. Ora, l’heroon fu probabilmente profanato ai tempi del saccheggio gallico e quindi sepolto, come luogo nefasto nella ricostruzione del Foro.
Fu al contempo ricostruito un nuovo heroon commemorativo nelle vicinanze, riutilizzando parte del materiale del vecchio: Dionigi d’Alicarnasso, in visita alla città all’epoca di Augusto, ricordò la presenza di una statua di Romolo nel Volcanale accanto ad un’iscrizione in caratteri “greci”. Al contempo, Varrone ricorda due leoni accovacciati, figure tipiche, in Italia come in Grecia, di guardiani dei sepolcri.
Però, un heroon, per avere senso, doveva essere nelle vicinanze di una tomba o di un cenotafio dedicato all’eroe fondatore, cosa testimoniato anche dalla citazione agli dei infernali nell’iscrizione, che farebbe pensare alla presenza di un antico sepolcro incluso ormai nell’abitato.
E il sepolcro arcaico ritrovato, potrebbe svolgere proprio questo ruolo…
Sin dai tempi dei romani, il porto di Pescara svolgeva un ruolo fondamentale nell’economia dell’Abruzzo, dato che da una parte coincideva con uno dei terminali della Tiburtina Valeria, dall’altra era il punto di riferimento per i vici situati lungo l’omonimo fiume, che tramite chiatte, vi spedivano le produzioni locali, lana e anfore, destinate all’esportazione verso l’Illirico e la Grecia.
Con la caduta dell’Impero romano, questo sistema economico entrò in crisi per secoli, sino ai tempi dei normanni, quando, riprendendo i commerci verso l’Oriente, per iniziativa di Ruggiero II d’Altavilla e del nobile Anfuso di Petterana, fu intrapreso un rinnovo radicale del porto di Pescara.
Commercio che nel tempo, portò alla fondazione a Pescara vecchia in di varie precettorie, come quello dei Templari e quella dei Cavalieri Ospitalieri e uffici diplomatici, come il vice consolato di Venezia, attivato verso la metà del 1600 e quello dello Stato Pontificio.
In particolare, nel Quattrocento, tra i commercianti veneziani, pare dominassero quelli provenienti da Chioggia che da Pescara esportavano nel mercato della Serenissima alimentari quali vino, olio, aceto, agrumi, riso e lana.
I traffici di queste merci via mare passavano dal porto di Pescara, che restava per i mercanti la via meglio collegata per raggiungere Napoli dall’Adriatico; attraverso la “Via degli Abruzzi” le merci potevano raggiungere la metropoli campana in circa undici giorni. Tuttavia, nonostante questi vantaggio, il Porto di Pescara rimaneva secondario rispetto a quelli di San Vito chietino, legato al polo economico di Lanciano.
Le cose cambiarono nel Cinquecento: grazie alla fortezza, la cui manutenzione costava agli spagnoli di 9.628 ducati annui, ben più di quelli destinati a Castel Novo a Napoli, il porto era meglio protetto rispetto agli altri scali abruzzesi. Ad esempio, quando il 31 Luglio del 1566 Pialy Pascià al comando di 105 galee appare al largo, si dedicò al saccheggio a grande stile della zona, ma fu respinto dalla fortezza di Pescare Vecchia. In più la cittadina godeva del “franco imposte del feudatario” e dell’esenzione fiscale degli spagnoli, cosa che rendeva molto conveniente commerciarvi.
Questo portò a stanziare nella città oltre alla tradizionale colonia veneziana, anche una di mercanti romagnoli, che fungevano da intermediari per commercianti della Serenissima, procacciando loro grandi quantità di lana. A loro volta i veneti la esportavano nei laboratori commerciali della bergamasca, reimportando in Abruzzo il prodotto finito.
Dalle censimenti fiscali del Seicento, abbiamo come su 600 famiglie presenti a Pescara, 40 erano di provenienza veneziana, 70, invece, dalla Romagna. Dai registri di carico e scarico delle merci si apprende come esse provenissero da Bergamo, Salò, Cremona, Firenze, Fabriano, Murano, Lugano e dalla Germania. Numerosi erano i prodotti delle manifatture bergamasche importati, in quanto in Abruzzo non si erano ancora sviluppate attività di tipo manifatturiero od industriale al di fuori della produzione delle apprezzate ceramiche di Castelli e delle coperte di lana, prodotte a Palena e Taranta Peligna.
Di conseguenza, nel Settecento Pescara era il principale porto dell’Abruzzo, ruolo che cominciò a fine secolo a declinare, a causa dell’insabbiamento dei fondali, che di fatto ne impediva l’approdo per i bastimenti a maggio carico, che cominciarono ad attraccare ad Ortona.
Per ovviare a tale problema, il 27 Aprile 1825, Melchiorre Delfico, l’illuminista napoletano si fece promotore di un progetto di potenziamento del porto pescarese, depositando un apposito progetto ove lo studioso, in modo assai acuto, dimostrava l’utilità dell’opera. Egli asseriva la necessità di edificare due banchine in forma non parallela della lunghezza di 960 canne (m. 2.540), utilizzando palafitte, graticolato e breccia, ed una grande scogliera avrebbe dovuto proteggere il porto dalle onde, prevedendo anche un sistema di chiuse tra i pilastri delle banchine, un faro ed un lazzaretto sulla banchina. I Borboni, visti i trascorsi filo bonapartisti dell’intellettuale, risposero picche alla sua proposta.
Nonostante queste difficoltà e la concorrenza di Ortona, tra la fine del 1800 ed i primi anni del 1900 il porto di Pescara fece comunque da volano allo sviluppo industriale della Val Pescara: infatti già intorno al 1890 vennero avviati degli insediamenti estrattivi minerari a Scafa e San Valentino dalla società tedesca Reh e dalla società inglese “The Neuchatel Asphalte Company”. Quest’ultima aveva incrementato la produzione di asfalto e bitume da 7.900 a 20.000 tonnellate con un movimento finanziario salito ad 800.000 lire. Il porto di Pescara era anche ben servito dalle linee di comunicazione, infatti oltre alla ferrovia Adriatica che già transitava in città dal 1863, nel 1887 venne attivato il tronco ferroviario Pescara – Sulmona, e nel 1888 la linea veniva completata fino a Roma. In tal modo la distanza con la capitale si riduceva a 240 Km, percorribili in qualche ora di treno.
Per accentuare tale ruolo, il 14 Agosto 1910 fu posta la prima pietra per i lavori di rifacimento del porto canale, su un progetto di fine Ottocento dell’ingegner Tommaso Mati, rivisto nel 1908 dall’ingegner Lo Gatto, che però non risolse il problema dell’insabbiamento.
Nel 1936 venivano ristrutturate delle banchine, prolungati i moli e realizzati la base per idrovolanti ed il raccordo ferroviario. La Seconda guerra mondiale però arrestò bruscamente questo sviluppo: la città fu rasa al suolo per il 75 % della sua superficie dai bombardamenti degli Alleati, mentre i tedeschi in ritirata fecero saltare in aria le banchine del porto con vari natanti ancora attraccati e minarono e distrussero, il ponte Littorio e molti edifici con l’intento di ostacolare l’avanzata degli Alleati.
In seguito alla ricostruzione postbellica il porto-canale fu ricostruito (insieme al ponte Risorgimento, che lo attraversa all’altezza del Palazzo di città) e per alcuni decenni contribuì alla rinascita della città grazie allo sviluppo dell’attività peschereccia, del traffico mercantile di piccolo cabotaggio, di quello petrolifero e dei traffici commerciali con la Jugoslavia. Ruolo che però entrò in crisi dagli anno Ottanta in poi, prima per la deindustrializzazione dell’area, poi per il crollo jugoslavo, che diminuì drasticamente l’attività portuale.
Per bloccarne il declino, furono intrapresi dei lavori di adeguamento: furono lisciate le palafitte dei due moli guardiani e furono costruite una diga foranea e una darsena commerciale esterna al vecchio porto-canale per offrire un migliore attracco alle navi petroliere, ai traghetti passeggeri e a navi mercantili di tonnellaggio superiore. Ma il nuovo assetto del porto si rivelò presto problematico, sia a causa della necessità di continui dragaggi, spesso disattesi, per la manutenzione del vecchio porto-canale (riservato ai pescherecci), sia a causa degli interrimenti creati dalla diga foranea e dal trasporto solido del fiume nell’avanporto.
Il nuovo porto, inaugurato nel 2005, si è sempre più interrato negli anni successivi, impedendo non solo il normale traffico peschereccio e l’abituale traffico commerciale ma anche ulteriori sviluppi. Nel 2012 la cattiva condizione dei fondali ha imposto anche una chiusura completa al traffico. Nel 2013 una importante azione di dragaggio eseguita dal provveditorato alle opere pubbliche ha riportato i fondali interni del porto-canale intorno ai 3,5 metri, dopo più di venti anni di mancata o saltuaria manutenzione, consentendo la riapertura al traffico peschereccio e mitigando gli elevati rischi di inondazione causati dalla piena del fiume dei primi giorni di dicembre 2013.
il 25 luglio 2014 il Consiglio comunale di Pescara ha approvato un piano regolatore portuale d’intesa con l’autorità marittima. Il nuovo piano, che a giugno 2019 ha superato le valutazioni di impatto ambientale, è stato approvato da ministero e regione nel 2016.
A testimonianza di questo rapporto conflittuale con il mare, vi è anche la complessa vicenda del museo che la città gli ha dedicato. Tutto nacque negli anni Cinquanta, per merito di Guglielmo Pepe, allora direttore del Mercato Ittico di Pescara, che raccolse una collezione di arnesi da pesca e di qualche particolare esemplare di animale marino.
Nel 1981 viene riaperto al pubblico come museo civico. Oggi, dopo molti anni di chiusura, è aperta al pubblico una sola sezione dal 2008, poiché si è rinunciato ai lavori di ampliamento previsti. Recentemente infatti, ne era stato previsto il trasferimento nell’adiacente ex Istituto “U. Di Marzio”. La Sezione Animali Marini Protetti “Carmine Di Silvestro”, conserva oggi diversi esemplari di tartarughe marine e una collezione di scheletri di cetacei del Mediterraneo, fra i quali un esemplare di capodoglio, e uno di balenottera comune.
Tuttavia, nonostante tutte le lamentele dei pescaresi, la struttura è ancora trascurata e poco valorizzata
Sono passati più o meno 20 secoli da quando Orazio, il grande poeta latino, scriveva questi versi:
Satire 1.8.14
nunc licet Esquiliis habitare salubribus atque/ aggere in aprico spatiari, quo modo tristes/ albis informem spectabant ossibus agrum
“Or l’Esquilino colle offre alla gente
Salubre stanza, e bel passeggio aprico,
Dove prima apprestava a’ viandanti
Di bianche ossa insepolte un tristo campo.”
E’ noto il fatto che in età augustea e sotto la supervisione di Mecenate l’Esquilino fu completamente ricostruito e da un luogo di necropoli spesso abbandonate divenne un quartiere residenziale amato ed abitato nei secoli successivi da molti personaggi importanti e influenti dell’Impero Romano (imperatori compresi).
Ma, anche a quei tempi, guai a lasciare i lavori a metà e non risolvere tutti gli altri problemi che evidentemente già assillavano la zona nonostante le ricche dimore e le fastose residenze patrizie.
Come accennato nella puntata precedente, in parallelo alla ristrutturazione del convento, per dotarlo di nuovi spazi funzionali, i domenicani, per accogliere numero sempre più crescente di fratelli e di fedeli e per rispondere alla richiesta di costruire nuove cappelle gentilizie patrocinate dalla nobiltà palermitana che, come è noto, garantiva in cambio ingenti donazioni al convento ogni anno e per lungo tempo, negli anni Trenta del Seicento si decisero per una ricostruzione radicale della chiesa dedicata al loro fondatore.
Ciò comportò, da parte dell’ordine religioso, da una parte l’intraprendere una una consistente campagna di acquisti e di demolizioni nell’area circostante al loro convento, dall’altra la scelta di un architetto adeguato all’impresa.
Dopo lunghe riflessioni, i domenicani decisero si adottare una soluzione “casalinga”: nel gennaio del 1640 l’incarico di «Deputato Assistente e Soprastante della Fabbrica», ossia di progettista e responsabile di cantiere, fu affidato al padre Lettore Andrea Cirrincione, che all’epoca aveva appena superato i trent’anni e da qualche tempo studiava matematica e architettura, pur non essendo ancora in possesso di alcuna laurea o autorizzazione a esercitare la professione.
In più, non aveva nessuna esperienza nel campo edilizio: una scelta azzardata, ma che dimostra come i superiori dell’ordine domenicano sapessero riconoscere il talento. Andrea, infatti, avrà una lunga e fortunata carriera come architetto nella Palermo barocca; lavorerà a Santa Cita e a Santa Maria della Pietà, giungendo poi all’apice del successo professionale nel campo dell’edilizia privata, con i progetti per la villa Resuttano ai Colli, per la villa San Marco a Santa Flavia su incarico del conte Vincenzo Giuseppe Filangeri e, infine, per il restauro della facciata di palazzo Terranova a Palermo.
Purtroppo, abbiamo un’idea vaga di cosa avesse in mente Andrea per la chiesa di San Domenico: sappiamo che doveva estendersi verso sud, inglobando un’antica strada pubblica e le case e botteghe che su di essa prospettavano, fino al cortile di Sant’Andrea degli Amalfitani. Si trattava pertanto di una fabbrica dalle proporzioni considerevoli, in cui probabilmente veniva amplificato il precedente impianto basilicale su colonne, un sistema abbondantemente collaudato nell’ambito della tradizione costruttiva palermitana, ma anche una scelta obbligata per la realizzazione, in quegli anni, di un impianto chiesastico prestigioso.
Però, per certo, sappiamo come il nuovo progetto prevedesse un ribaltamento di 180° dell’orientamento della costruzione quattro-cinquecentesca, aprendo la nuova facciata a est, sulla via dei Bambinai, verso il mare, e, pertanto, volgendo la tribuna a ovest, verso il centro città. Le ragioni di questa preferenza sono da rintracciare nel desiderio di ripristinare, a quanto sembra, l’orientamento della prima chiesa edificata nel XIII secolo, ma forse appare altrettanto verosimile immaginare che si stesse seguendo il percorso già avviato, sin dalla seconda metà del XVI secolo, dalle vicine fabbriche religiose – San Giorgio dei Genovesi, Santa Cita, Santa Maria in Valverde – che avevano stabilito di aprire il fronte principale sulla via Bambinai-Squarcialupo, asse viario incluso nel circuito delle maggiori processioni religiose palermitane.
Inoltre la facciata sarebbe stata inquadrata, al di là della strada verso il piano dell’Argenteria, dal palazzo del principe di Pantelleria e avrebbe goduto di due importanti sfondi prospettici al di là dell’attuale piazza Giovanni Meli: le chiese di Santa Maria La Nova e di San Sebastiano che precedevano le mura della Cala, l’antico porto della città.
La solenne cerimonia della posa della prima pietra fu celebrata il 2 febbraio 1640, con il collocamento della tradizionale cassa contenente l’epitaffio che fu commissionata alla bottega del noto marmoraro lombardo Giangiacomo Ceresola. Oltre alla popolazione e agli aristocratici palermitani, erano presenti il cardinale Giannettino Doria, il Procuratore Generale Nicolò Ridolfi, il pretore Nicolò Valdina, marchese della Rocca, e il Senato cittadino.
Nel marzo 1640 era stato poi commissionato a Messina anche un modello ligneo della nuova chiesa, da eseguire, pertanto, sulla base di elaborati di progetto già predisposti. Il plastico arrivò a Palermo per via mare il 20 luglio successivo. A settembre dello stesso anno problemi di natura statica sorti durante il tracciamento delle fondazioni insistenti su un terreno a quanto pare inadatto (fangoso a profondità incerta) a supportare l’eccessivo peso della nuova struttura, comportarono una battuta d’arresto del cantiere con un conseguente stravolgimento del progetto di partenza e, pertanto, del modello appena arrivato. Come conseguenza, Andrea fu cacciato a pedate dai suoi superiori domenicani e mandato in convento a pregare, fare penitenza e ripassare i fondamenti della statica… Fu quindi necessario trovare in fretta e furia un nuovo architetto.
La bambolina toccò al povero Vincenzo Tedeschi «Ingegnere in questo regno di Sicilia e di altri maestri di detta professione» esperto nel mettere una pezza a casi disperati: anni prima aveva risolto il casino colossale che Pietro Novelli, grande pittore, che che capiva di architettura quanto io di poesia indonesiana, aveva combinato nel cantiere di Porta Felice.
Ancora poco chiare appaiono le origini e la formazione di Vincenzo: da qualche accenno, sappiamo come avesse studiato architettura a Roma. Intorno al 1620, si era trasferito a Messina al seguito del pittore Simone Gullì e presto come cominciò a collezionare incarichi, prima prima come scultore e poi come architetto e ingegnere del Senato locale, intervenendo soprattutto come direttore dei lavori
Nel 1637 ottenne la stessa carica, meglio pagata, a Palermo, dove si era trasferito l’anno precedente, che fu confermata il 27 gennaio 1640. Le commissioni fino a quel momento ricevute attestavano un’elevata perizia nella gestione di architetture monumentali e in questioni ingegneristico-strutturali, dimostrate nei cantieri del nuovo molo, delle fortificazioni e dei bastioni della città. Insomma, i domenicani sicuri che la chiesa, con Vincenzo, magari non sarebbe stata bella, ma almeno si sarebbe retta in piedi.
Vincenzo rispettò in pieno tale aspettativa: per prima cosa, decise ribaltare l’orientamento della chiesa previsto nel progetto di Andrea Cirrincione e di traslarla verso sinistra, alla ricerca di un terreno roccioso in grado di supportare la grande mole della struttura, come avevano ben capito gli architetti del Quattrocento.
Decisione che però impattava sulla struttura del convento: dovette essere demolita l’intera ala meridionale del chiostro trecentesco, detta “dell’Apocalisse”, – con le sue quattordici arcate su colonnine binate – e una o più campate delle corsie est e ovest ad essa contigue, comprese le cappelle annesse e le due scale escubertas alla catalana, databili al tardo Quattrocento e realizzate in pietra di Termini con intagli a dente di sega nel parapetto.
Le modifiche al progetto di base non si limitarono al solo cambiamento di orientamento della chiesa, ma questa dovette subire anche importanti ripensamenti, relativi alla zona presbiteriale e alla facciata. Questa, affiancata da due campanili, doveva presentare, probabilmente in corrispondenza del secondo registro, quattro sostegni (paraste) aventi capitelli di ordine corinzio, mentre erano previste, nel presbiterio, due cappelle cupolate con lanternino finale, così come risulta del resto nella fabbrica costruita.
Visti i sospiri di sollievo da parte dei committenti, che si aspettavano ben di peggio, nei mesi successivi Vincenzo decise di ripensare anche l’interno di San Domenico, per adeguarle alle nuove tendenze dell’architettura ecclesiastica palermitana, influenzata dalla competizione innescata dai tre vicini e monumentali complessi conventuali – rispettivamente dei Gesuiti, degli Oratoriani e dei Teatini – in costruzione dalla seconda metà del Cinquecento e i cui nuovi impianti chiesastici costituivano certamente un modello da emulare e superare in termini di proporzioni e di spazialità architettonica.
Ad aprire la sfida, furono gli Oratoriani, con la chiesa di Sant’Ignazio all’Olivella (dal 1598), che portarono a palermo una nuova tipologia di basilica con sostegni colonnari monolitici e capitelli di ordine dorico. Sebbene fosse stata confermata la tradizione siciliana di memoria normanna, che negli impianti su colonne aveva fondato uno dei più importanti e duraturi archetipi dell’architettura isolana, il rinnovamento tipologico attuato attraverso l’introduzione del sistema modulare, di possenti sostegni monolitici, delle volte, della crociera cupolata e del transetto garantiva il superamento degli impianti medievali secondo le tendenze moderne.
La chiesa di Sant’Ignazio determinò pertanto l’evolversi a Palermo di una catena tipologica che fu reiterata nelle chiese di Sant’Anna della Misericordia (Francescani, dal 1606), di San Giuseppe dei Teatini (dal 1619), del Carmine Maggiore (dal 1627), di San Matteo (congregazione dei Miseremini, dal 1633) e, infine, di San Domenico (1640). Queste fabbriche conquistarono una spazialità imponente garantita dall’elevata altezza dei sostegni colonnari monolitici.
Questa nuova tendenza alla monumentalità fu fortemente agevolata a Palermo dalla scoperta, nella seconda metà del XVI secolo, e dalla successiva sperimentazione, di un nuovo materiale con cui realizzare colonne monolitiche, estremamente resistenti ed esteticamente assimilabili al marmo una volta lucidate. Fu la risposta locale, risultata su più fronti vincente, per comportamento statico, per proporzioni raggiunte grazie ai potenti banchi estratti, per il contrasto generato dalla compresenza, in un unico blocco, di svariati colori e, soprattutto per questioni economiche, ai marmi di importazione e in particolare al bianco di Carrara con i quali, nel corso del Cinquecento, erano stati realizzati costosi sostegni colonnari, monocromatici e dalle dimensioni contenute.
Si trattava della pietra grigia di Billiemi, cavata dalle montagne a ovest di Palermo che nell’anno 1600 fu utilizzata per realizzare le sedici colonne della scomparsa chiesa a pianta centrica di Santa Lucia al Borgo e poi, a partire dal 1611, le otto colonne monolitiche di Sant’Ignazio all’Olivella raggiungendo, come è noto, la massima altezza (10m ca. quelle della crociera) nei sostegni di San Giuseppe dei Teatini.
Un ruolo ruolo fondamentale, nella diffusione della pietra grigia di Billiemi ebbero pure i maestri marmorari, taluni di origine lombarda, addetti alla fornitura delle colonne. È certo, infatti, che furono proprio queste maestranze a testare sulle nuove fabbriche monumentali palermitane, sia civili che religiose, le potenzialità di questo prezioso materiale la cui estrazione, trasporto e sollevamento in cantiere di certo richiedevano perizie tecniche di altissimo livello.
Partendo da queste esperienze, Vincenzo concepì una chiesa d’avanguardia, rispetto ai modelli precedenti, amplificando la monumentalità del presbiterio, che nelle chiese concorrenti era considerato poco più che l’estensione e la conclusione delle navate.
In San Domenico, invece, questo assume una propria identità e autonomia: tra l’area riservata alle tre profonde absidi e l’ampio transetto con i piloni destinati a sorreggere una cupola che, per mancanza di fondi, non fu mai compiuta, è inserito un ulteriore corpo, una sorta di antititolo, con quattro cellule minori in successione, rispettivamente due coperte da cupolette ovali e le altre due a pianta quadrata, aventi esclusivamente funzione di passaggio, di illuminazione e di dilatazione spaziali.
Tale scelta nasceva per rispondere a due esigenze pratiche: la prima aprire un secondo ingresso su un fianco del presbiterio munito di un’ampia scala verso piazza Meli, in modo da surrogare l’affaccio previsto dal progetto iniziale di Andrea Cirrincione.
La seconda di fornire un passaggio necessario attraversato dal corteo religioso durante le solenni processioni (del Rosario, del Corpus Domini, del festino di Santa Rosalia) e cioè dal convento (precisamente dalla sacrestia) verso l’esterno e viceversa, fiancheggiando ma senza percorrere le absidi, il coro, e tanto meno le lunghe navate destinate ad accogliere l’assemblea popolare.
Partendo da questi requisiti dei domenicani, Vincenzo concepì una sorta di impianto a quincunx, privo tuttavia di quella simmetria biassiale che caratterizza questa particolare pianta centralizzante; all’equilibrio rinascimentale, in cui osservando una della parti, si poteva ricostruire il tutto, sostituì una tensione accentuale, che accentuando il cono prospettico e la tensione tra luce e ombra, rendeva, in piena ottica barocca, il presbiterio una sorta di macchina teatrale e quinta scenica per le sacre rappresentazioni.
Così, grazie a Vincenzo, la chiesa di San Domenico, con la sua articolata tribuna e i molteplici spazi accessori e di servizio al culto, con le sue sedici colonne di Billiemi, alte ognuna ventotto palmi (7m ca.), a supporto di un’imponente volta a botte lunettata della nave maggiore e di crociere lungo quelle minori, fu l’ultimo cantiere religioso ad essere realizzato a Palermo nel Seicento ma fu anche, come detto, il più grande dopo la cattedrale.
Cantiere che nel Settecento fu degnamente completata dalla facciata concepita da Tommaso Maria Napoli e da Giovanni Biagio Amico, di cui ho parlato, raccontando le vicende della colonna dell’Immacolata…
Lupercalium enim mos a Romulo et Remo inchoatus est tunc, cum laetitia exultantes, quod his avus Numitor rex Albanorum eo loco, ubi educati erant, urbem condere permiserat sub monte Palatino, hortatu Faustoli educatoris suis, quem Evander Arcas consecraverat, facto sacrificio caesisque capris epularum hilaritate ac vino largiore provecti, divisa pastorali turba, cincti obvios pellibus immolatarum hostiarum iocantes petiverunt. Cuius hilaritatis memoria annuo circuitu feriarum repetitur.
Ossia in Italiano
Infatti la festa sacra dei Lupercali ebbe inizio per opera di Romolo e Remo, quando, esultanti per il permesso avuto dal loro avo Numitore, re degli Albani, di edificare una città nel luogo in cui erano nati, sotto il colle Palatino, già reso sacro dall’arcade Evandro, fecero per esortazione del loro maestro Faustolo un sacrificio e, uccisi dei capri, si lasciarono andare, resi allegri dal banchetto e dal vino bevuto in abbondanza. Allora, divisosi in due gruppi, cinti delle pelli delle vittime immolate, andarono stuzzicando per gioco quanti incontravano. Il ricordo di questo giocoso rincorrersi intorno si ripete da allora ogni anno
Con queste parole Valerio Massimo descrive i Lupercalia, che si celebravano a metà febbraio, sulla cui natura si discute da secoli. Cosa sappiamo di questa festa ?
Per prima abbiamo chiaro il luogo da cui partivano le celebrazioni, ossia il Lupercale, posto
“a ridosso del lato del Palatino sulla strada che porta al circo”
come ci narra Dionigi di Alicarnasso, in quello che era Cermalus, uno dei monti ricordato da Varrone nella lista di quelli costituenti il Septimontium, centro sul sito di Roma precedente la fondazione della città.
Sempre Dionigi di Alicarnasso descrive il luogo di culto come una grotta, circondata da un bosco sacro, all’interno della quale era una sorgente:
“E per prima cosa costruirono un tempio a Pan Liceo – per gli Arcadi è il più antico e il più onorato degli dei – quando trovarono il posto adatto. Questo posto i Romani lo chiamano il Lupercale, ma noi potremmo chiamarlo Lykaion o Lycaeum. Ora, è vero, da quando il quartiere dell’area sacra si è unito alla città, è divenuto difficile comprendere l’antica natura del luogo.
Tuttavia, al principio, ci è stato detto, c’era una grande grotta sotto il colle, coperta a volta, accanto a un folto bosco; una profonda sorgente sgorgava attraverso le rocce, e la valletta adiacente allo strapiombo era ombreggiata da alberi alti e fitti.
In questo luogo costruirono un altare al dio e fecero il loro tradizionale sacrificio, che i Romani hanno continuato a offrire in questo giorno del mese di Febbraio, dopo il solstizio di inverno, senza alterare nulla nei riti allora stabiliti”.
Dallo stesso autore è evidenziato il collegamento topografico con l’aedes Victoriae:
“Sulla sommità della collina edificarono il tempio di Vittoria e istituirono sacrifici anche per lei…”.
L’area ospitava anche un recinto sacro con un simulacro della lupa e un altare a Pan (da identificare con Fauno, uno degli antenati mitici latini), come sempre Dionigi di Alicarnasso ci informa:
“C’era non lontano un sacro luogo, coperto da un folto bosco, e una roccia cava dalla quale sgorgava una sorgente; si diceva che il bosco fosse consacrato a Pan, e ci fosse un altare dedicato al dio. In questo luogo, quindi, giunse la lupa e si nascose. Il bosco non esiste più, ma si vede ancora la grotta nella quale sgorga la sorgente, costruita a ridosso del lato del Palatino sulla strada che porta al circo, e vicino c’è un recinto nel quale è una statua che ricorda la leggenda: rappresenta una lupa che allatta due neonati, le figure sono in bronzo e di antica fattura. Si dice che in quest’area ci sia stato un santuario degli Arcadi che, in passato, giunsero qui con Evandro”.
Sappiamo poi, come la modalità del rito prevedesse una completa dedizione sia da parte dei diretti partecipanti che dalla popolazione dell’Urbe, pertanto, la festa veniva celebrata in ambito dei dies nefasti, i giorni del completo distacco dalle attività giudiziarie e più in generale lavorative – i dies fasti ne sono la naturale controparte.
La festa, poi, era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.
I Luperci, diretti da un unico magister, erano divisi in due schiere di dodici membri ciascuna chiamate Luperci Fabiani (“dei Fabii”) e Luperci Quinziali (Quinctiales, “dei Quinctii”), ai quali per un breve periodo Gaio Giulio Cesare aggiunse una terza schiera chiamata Luperci Iulii, in onore di se stesso, per un motivo che poi porrò in evidenza.
Plutarco riferisce nella vita di Romolo che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre e, pare, di un cane i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere.
Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano poi correre intorno al colle, secondo un percorso ancora non chiaro, saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità in origine offrivano volontariamente il ventre, ma al tempo di Giovenale, ai colpi di frusta tendevano semplicemente i palmi delle mani.
Cosa possiamo dire, di questa accozzaglia di stranezze ? Che questa festa, probabilmente, era costituito da almeno tre stratificazioni culturali. La più antica, come saltava immediatamente agli occhi anche agli storici latini e greci, risaliva alla tarda età del Bronzo: i riferimenti agli arcadi che fanno Livio, Polibio, Valerio Massimo non sono un ricordo distorto di un’influenza micenea, che non si può però escludere a priori, ma l’indicazione di come il mondo spirituale elladico e quello della civiltà appenninica condividessero un analogo universo spirituale, incentrato sullo sciamanesimo.
Come in tante altre culture, i riti di passaggio per i membri delle élite di queste due civiltà simboleggiavano la morte del Vecchio Io, chiuso in se stesso e auto referente, e la nascita del Nuovo, in cui si andava oltre la propria individualità e si costruiva una realtà comune, entrando in comunione con gli spiriti degli Antenati e diventando una manifestazione dell’antenato totemico, che, nel caso specifico di un paio di clan dei Prisci Latini che abitavano tra il Palatino e le rive del Tevere, poteva essere o il lupo o il capro.
Una testimonianza di tale universo spirituale della civiltà appenninica è testimoniato anche dal culto di Soranus, conosciuto come Sur o Śur, il nero, venerato dalle popolazione osco-sabelliche. Il centro del suo culto era il Monte Soratte, monte sacro collocato a nord di Roma che si distingue per il fatto di ergersi isolato nel mezzo della campagna, in una zona caratterizzata da profonde cavità carsiche e da fenomeni di vulcanismo secondario. I sacerdoti di Soranus erano chiamati Hirpi Sorani (“Lupi di Soranus”, dalla lingua Osca-Sannita-Sabina hirpus = “lupo”). Essi nel corso delle cerimonie, camminavano sui carboni ardenti, reggendo le interiora delle capre sacrificate.
La seconda stratificazione avviene subito dopo il sinecismo che porta alla nascita di Roma, come testimoniano numerosi indizi, come la vicinanza del Lupercale con la Casa Romuli e il fatto che la cerimonia avvenga di Febbraio, mese introdotto nella cosiddetta riforma calendariale di Numa Pompilio, che sostituì il vecchio calendario sacrale dei Prisci Latini, con un uno un poco più pratico, basato sull’anno lunare.
Il rex dell’epoca trasformò il rito di passaggio in una celebrazione della sua regalità: da una parte, rese il rito trasversale ai vari clan, accomunandone le diverse simbologie, dall’altra, lo trasformò in una celebrazione della sua regalità. Ciò avveniva sia rievocando la sua trasformazione in un dio, sia rinnovando annualmente il suo matrimonio con la Madre Terra.
Questo simbolismo ci permette di comprendere il perché Cesare abbia fondato i Luperci Iulii e di rileggere con altri occhi un famoso brano di Plutarco
A costoro [Bruto e Cassio] chi fornì il pretesto più onorevole [per uccidere Cesare], senza volerlo, fu Antonio. I Romani celebravano la festa dei Licei, che chiamano Lupercali, e Cesare, seduto sulla tribuna del Foro adorno della veste trionfale, guardava quelli che correvano. Molti giovani della nobiltà e magistrati corrono unti d’olio, battendo per scherzo con scudisci coperti di pelo i passanti. Fra essi correva Antonio, che mettendo da parte le tradizioni degli avi, avvolse un serto d’alloro intorno a un diadema, corse alla tribuna e, facendosi sollevare dai compagni, lo pose sul capo di Cesare, come se gli spettasse essere re. Cesare fece lo sdegnoso e si scansò; il popolo, lieto, applaudì forte. Di nuovo Antonio protese il diadema, e di nuovo Cesare lo respinse. Molto tempo durò la schermaglia, mentre pochi degli amici applaudivano Antonio che insisteva e tutto il popolo applaudiva con boati Cesare che rifiutava. Era davvero sorprendente che coloro i quali nella pratica tolleravano le condizioni dei sudditi di un re, rifuggivano dal nome di re quasi fosse la distruzione della libertà. Alla fine Cesare si alzò contrariato dalla tribuna e scostando la toga dal collo gridò che offriva la gola a chiunque lo volesse.
Consapevolmente, per abituare il popolo romano alla sua ascesa alla regalità, Cesare recuperò in collaborazione con Antonio il significato arcaico del rito.
La terza stratificazione risale al tempo dei re etruschi, quando cambia la concezione della regalità e i Lupercalia diventano una cerimonia di purificazione della città, in cui si cancellavano le offese ai Numi dell’anno vecchio e si invocava la protezione per quello nuovo.
Questo insieme di suggestioni, tra loro anche contraddittorie, colpirono a fondo l’immaginario del popolo romano, diventando parte del suo folclore. I Lupercalia furono una delle ultime feste romane ad essere abolite dai cristiani. In una lettera di papa Gelasio I si riferisce che a Roma durante il suo pontificato (quindi negli anni fra il 492 e il 496) si tenevano ancora i Lupercali, sebbene ormai la popolazione fosse da tempo, almeno nominalmente, cristiana. Nel 495 Gelasio scrisse questa lettera (in realtà un vero e proprio trattato confutatorio) ad Andromaco, l’allora princeps Senatus, rimproverandolo della partecipazione dei cristiani alla festa.
Così, dopo qualche anno, fu progressivamente abolita…
Trivulzio con la sua ambizione rovinò la patria, scaccionne i naturali suoi duchi, e la immerse nelle miserie che l’afflissero per più di un secolo. Egli non ha diritto veruno alla nostra riconoscenza.
Così Pietro Verri giudicò, nella sua storia di Milano, la figura di uno dei signori della guerra del Rinascimento Italiano, Gian Giacomo Trivulzio. Giudizio forse immeritato: non era infatti un generale di un esercito, ma un capitano di ventura, che arruolava il maggior numero possibile di “lance”, squadre di armati ciascuna delle quali era composta mediamente da 5/7 uomini tra i quali un cavaliere vestito con armatura pesante. Queste lance, reclutate a centinaia, erano impiegate al servizio della repubblica o del principato con cui era stata firmata una lettera di “condotta”.
Per cui, per lui la guerra non era una questione di politica o di retorica patriottica, ma di affari: chi lo pagava bene e con regolarità, cosa assai rara nell’Europa dell’epoca, si guadagnava la sua fedeltà e i suoi servizi professionali sino alla fine del contratto… Poi, finito il contratto e cambiato il committente, l’amico di ieri poteva tranquillamente diventare il nemico di domani.
A questo si aggiungeva un odio, ricambiato, per Ludovico il Moro, accusato di avere avvelenato il nipote il nipote, Gian Galeazzo Maria Sforza, per conquistare il trono del ducato di Milano: per cui, il buon Gian Giacomo, quando poté, fece di tutto e di più per fare le scarpe a Ludovico.
La carriera del condottiero cominciò nel 1465, quando fu spedito in Francia, a capo del contingente sforzesco in aiuto di Luigi XI, l’universelle aragne, impegnato a contenere la rivolta del suo parentado, che si era organizzato nella Lega del Bene Pubblico.
Nel 1478 soccorse i fiorentini contro le mire espansioniste di Sisto IV, che aveva anche organizzato la Congiura dei Pazzi. Nel 1480 diventò proprietario del Castello di Mesocco (Svizzera, cantone dei Grigioni). Dopo aver partecipato alla Guerra dei Rossi, una guerra civile tra parmensi filo milanesi e filo veneziani e aver comandato l’assedio decisivo della Rocca di San Secondo nel 1483, nel 1484 sconfisse i veneziani a Martinengo.
Quando Carlo VIII scese in Italia, Gian Giacomo accettò di entrare al suo servizio, per la bellezza di 10.000 ducati annui. In tale veste, partecipò dalla parte dei francesi nella Battaglia di Fornovo. Il 15 luglio 1495 i francesi arrivarono ad Asti; il re nominò Gian Giacomo luogotenente e gli concesse titoli nobiliari e possedimenti in Francia, rendendolo una sorte di proconsole in Italia
Nel 1498 morì, in maniera alquanto cretina, Carlo VIII, in pratica batté la testa contro l’architrave in pietra di una porta mentre, a cavallo, si recava ad assistere a una gara di pallacorda e nel giro di due ore entrò in coma e morì per emorragia cerebrale. Gli successe il cugino Luigi XII, che essendo nipote di Valentina Visconti, la figlia di Gian Galeazzo, riteneva di avere assai più diritto al trono di Milano degli Sforza.
Per cui, per conquistare la città lombardo, organizzò un potente esercito, comandato dal Trivulzio, che per una volta unì l’utile al dilettevole. Il 2 settembre 1499, Gian Giacomo prese Milano e il 29 settembre 1499 come premio, venne nominato Maresciallo di Francia.
Nel 1509 batté i veneziani ad Agnadello, durante la guerra della Lega di Cambrai. Nel 1515 sconfisse gli svizzeri nella battaglia di Marignano, la battaglia dei giganti, mettendo fine all’ennesimo tentativo degli Sforza di riprendere Milano. Nel 1516 difese la città dall’imperatore Massimiliano I. Sospetti, accuse e gelosie lo fecero però cadere in disgrazia agli occhi del re francese Francesco I; Gian Giacomo valicò allora le Alpi nel pieno dell’inverno e chiede udienza inutilmente al re, per morire poco dopo, a Chartres, il 5 dicembre 1518.
L’enorme ricchezza accumulata fu spesa per collezionare libri, che costituiscono parte della Biblioteca Trivulziana a Castello Sforzesco e in opere d’arte, tra cui la cappella Trivulzio della Basilica di San Nazaro in Brolo.
Inizialmente, Gian Giacomo aveva disposto, in un primo testamento del 2 agosto 1504, la realizzazione di un’arca marmorea da collocare a San Nazaro, affidata a Cristoforo Solari, detto il Gobbo, lo stesso scultore che aveva realizzato il cenotafio di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este, oggi collocato nel transetto sinistro della Certosa di Pavia, ma commissionato per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano.
Nel successivo testamento del 22 febbraio 1507, Gian Giacom decise invece di fare le cose in grande, ossia di farsi inumare in una «capella… construenda et fundanda», progettata da un allievo di Bramante, Martino dell’Acqua, in «vno sepulcro in ea construendo», in cui l’arca marmorea del Solari avrebbe svolto il ruolo di piedistallo di un monumento equestre, commissionato a Leonardo da Vinci, come risposta alla statua a cavallo di Francesco Sforza, tanto progettata, quanto mai realizzata.
Insomma, alla fine il dubbio che Gian Giacomo avesse qualche complesso di inferiorità nei confronti della famiglia ducale, è forse fondato… Prende così avviò lo studio per l’«altro cavallo», cui Leonardo dedica, nel 1508-’11, numerosi disegni, dai più grandiosi e dispendiosi alla versione «esecutiva», il cui preventivo esattamente corrispettivo è nel Codice Atlantico. Impegnato in prevalenza quale ingegnere militare, tuttavia, consegnò tardi questa soluzione a Martino dell’Acqua, architetto della cappella-contenitore.
Nel frattempo Gian Giacomo, per motivi sconosciuti, aveva cambiato idea, cacciando Dell’Acqua e affidando il cantiere al Bramantino, il quale, a dire il vero, era assai più noto come pittore, che come architetto.
Pittore, ermetico maestro di colore e di prospettiva, degno allievo di Bramante, che aveva lavorato anche nel Vaticano, ma che ebbe la sfortuna di stare antipatico a Giulio II, tanto che, come racconta Vasari
…a Roma, per papa Nicola Quinto lavorò in palazzo due storie… le quali forono similmente gettate per terra da papa Giulio Secondo, perché Raffaello da Urbino vi dipignesse la prigionia di S. Piero et il miracolo del corporale di Bolsena, insieme ad alcune altre che aveva dipinto Bramantino, pittore eccellente de’ tempi suoi; e perché di costui non posso scrivere la vita né l’opere particulari per essere andate male, non mi parrà fatica, poi che viene a proposito, far memoria di costui, il quale nelle dette opere che furono gettate per terra, aveva fatto, secondo che ho sentito ragionare, alcune teste di naturale sì belle e sì ben condotte, che la sola parola mancava a dar loro la vita
Tra l’altro, il buon Vasari, che quando parlava di pittori lontani da Firenze, si incartava alla grande, ha combinato un casino epocale in termini di cronologia, dato che Bramantino è nato un decennio dopo la morte di Nicolò V.
In più, per non farsi mancare nulla, si inventò ben due Bramantini, il nostro e un immaginario pittore omonimo, che aveva immaginato essere il maestro del nostro Bramante ! Pittore immaginario, così descritto
dipinse Bramantino in Milano la facciata della casa del signor Giovambattista Latuate, con una bellissima Madonna, messa in mezzo da’ duoi Profeti, e nella facciata del signor Bernardo Scacalarozzo dipinse quattro giganti che son finti di bronzo e sono ragionevoli, con altre opere che sono in Milano, le quali gl’apportarono lode per essere stato egli il primo lume della pittura che si vedesse di buona maniera in Milano e cagione che dopo lui Bramante divenisse, per la buona maniera che diede a’ suoi casamenti e prospettive, eccellente nelle cose d’architettura, essendo che le prime cose che studiò Bramante furono quelle di Bramantino
Tuttavia, dovette affrontare una serie di sfighe: una prima interruzione dei lavori fu causata, nel 1512, dall’esilio dei Trivulzio che fece seguito alla proclamazione di Massimiliano Sforza a duca di Milano; dopo la vittoria francese a Marignano, nel 1515, i lavori poterono riprendere più alacremente. Nel 1517 Gian Giacomo, accantonato il progetto leonardesco del monumento equestre, ottenne l’intervento di Francesco Briosco, al tempo impegnato nella fabbrica del Duomo, per l’esecuzione delle statue giacenti per sé e per i familiari (il padre, la prima moglie e il figlio Gian Nicolò), da collocare sopra i sarcofagi nelle nicchie interne dell’edificio.
La morte di Gian Giacomo interruppe di nuovo i lavori, che furono ripresi nel 1547, grazie al lascito di Beatrice d’Avalos, seconda moglie di Gian Giacomo, che provvide ai fondi necessari per la conclusione dell’edificio. La cupola, la lanterna e le altre quattro statue giacenti dei familiari del Magno furono condotte, in parziale difformità con il progetto originario, da Cristoforo Lombardo; l’esterno della costruzione non poté avere, tuttavia il completamento previsto.
Con l’avvento della Controriforma i Trivulzio furono costretti a traslare le salme dei defunti nella cripta sotterranea ed i paramenti e decorazioni interne della cappella furono rimossi. Nel 1630 tuttavia la cripta fu adibita a fopponino per sopperire alla necessità di spazi per la tumulazione dei morti della pesta manzoniana, per cui le salme della famiglia finirono disperse. Dopo numerose manomissioni negli anni, l’interno della cripta fu restaurata e portata nel suo stato originale nel secondo dopoguerra.
Bramantino, ispirato a Bramante, concepì un mausoleo in netta rottura con la tradizione locale, ad esempio rappresentata dalla Cappella Colleoni, in cui la ricchezza decorativa nascondeva la purezza delle linee architettoniche. Al contrario, in linea con la sua ricerca pittorica, che portava all’estremo il virtuosismo prospettico, concepì l’architettura come sistema di puri rapporti spaziali.
L’edificio si presenta oggi suddiviso in due piani d’altezza ritmati da un doppio ordine di paraste, doriche al primo piano, ioniche nel secondo. La facciata può sembrare eccessivamente spoglia e piatta, ma dobbiamo immaginarla secondo il progetto originale, in cui era animata e vivacizzata da un pronao tetrastilo.
La pianta del mausoleo è ispirata Sant’Aquilino, cappella paleocristiana nella Chiesa di San Lorenzo, che Bramante ad esempio aveva preso a modello per la sacrestia di Santa Maria presso San Satiro: di conseguenza, all’interno dell’edificio il quadrato di base è trasformato in ottagono, dalle nicchie angolari di svuotamento separate da lesene a libro senza ordine; la sequenza inferiore delle nicchie accoglieva gli altari, la superiore ospita i sarcofagi con i gisant dei Trivulzio. Sopra il giro dei sepolcri si alternano finestre cieche e bifore aperte.
Tra tutti i sepolcri, ovviamente, spicca quello di Gian Giacomo, posto in corrispondenza del portale d’ingresso, in cui vi è la seguente scritta
«Qui nunquam quievit, quiescit. Tace.»
ossia
«Colui che non ebbe mai requie, ora riposa: silenzio!»
Altro luogo poco conosciuto di Roma è la chiesa di San Cesareo de Appia, che, come spesso avviene nell’area tra le terme di Caracalla e Porta San Sebastiano, sorge su un precedente edificio romano. Tra il 1636 e il 1666 nei terreni intorno alla chiesa furono avviate numerose campagne di scavo: vennero rinvenute numerose sepolture, olle cinerarie, busti e statue, oltre ai resti di un impianto termale di grandi dimensioni, suddiviso in navate con ambienti voltati a crociera. In uno di questi, scoperto durante alcuni lavori eseguiti nel 1936, è presente resti di un pavimento musivo in bianco e nero, risalente II secolo d.C. in cui sono rappresentati tritoni ed animali marini.
Gli eruditi del Seicento, li avevano interpretati come i resti dei presunti Bagni di Torquato e Vespasiano: negli ultimi anni, invece, sta ipotizzando come questi appartengano alle cosiddette Terme Commodiane, ritenute perdute, fatte costruire nel 183 d.C. da Marco Aurelio Cleandro, favorito di Commodo.
E proprio questo legame con un imperatore senza dubbio un poco eccentrico, ma che per la sua politica anti aristocratica e filopopolare, era visto come fumo negli occhi dalla classe senatoria, ha demonizzato anche la figura di Cleandro.
Secondo i pettegoli dell’Historia Augusta, Cleandro era un cubiculario, un liberto addetto alla persona dell’imperatore in specie al “cubiculum” cioè la stanza da letto. Ora, i genitori di Cleandro erano schiavi di origine greca, che svolsero il ruolo di baby sitter del giovane Commodo: per cui, lui e l’imperatore crebbero assieme. Di conseguenza, appena salito al trono, il figlio di Marco Aurelio affrancò Cleandro e tutta la sua famiglia, affidando all’amico il delicato ruolo di maggiordomo personale.
Nel 185 d.C. il prefetto del pretorio Tigidio Perenne organizzò una congiura contro Commodo: Cleandro la denunciò, ottenendo come premio la carica di Tigidio. Secondo l’Historia Augusta, Cleandro abusò del suo ruolo, assumendo e licenziando quotidianamente altri prefetti; quando si scoppiò una rivolta causata dalla carestia, per domarla, diede ordine alla Guardia Pretoriana di massacrare i civili, provocando un violento scontro con le coorti urbane. Cosa che provocò la sua fine, dato che Commodo, che non volendo apparire come nemico della plebe, lo condannò a morte.
Essendo le terme all’estrema periferia della Roma Medievale, non furono riutilizzate sino all’VIII secolo, quando vi fu costruita una prima chiesa, chiamata San Cesareo in Turrim, dato che il campanile fungeva anche da torre d’avvistamento e da difesa.
Chiesa che era assai più piccola dell’attuale, un’unica ampia sala con due absidiole, che apparteneva alla diocesi di S. Sisto Vecchio, ma in cui non vi si officiava alcuna messa. Questo primo nucleo della chiesa fu successivamente ampliato, il pavimento sopraelevato e le mura perimetrali, impostate su quelle di età romana, rinforzate. Nel 1302 papa Bonifacio VIII affidò la chiesa, in precarie condizioni, ai Crociferi affinché vi costruissero un ospedale per dare asilo ai pellegrini che entravano dalla vicina Porta San Sebastiano.
Ai Crociferi subentrarono le suore dell’ordine di S.Benedetto che vi rimasero fino al 1439, allorché papa Eugenio IV riunì di nuovo il settore amministrativo della chiesa a quello di San Sisto. Nel 1517 papa Leone X la elevò la Chiesa a “Titolo cardinalizio” con l’appellativo “in Palatio” per ricordare il primo luogo di deposizione delle reliquie di San Cesareo, l’oratorio che sorgeva nel palazzo imperiale del Palatino.
Un successivo radicale intervento di restauro fu apportato alla chiesa durante il pontificato di papa Clemente VIII ad opera del Cavalier d’Arpino, soprattutto per volontà del cardinale Cesare Baronio, titolare della vicina chiesa di San Nereo e Achilleo, nell’ottica di recupero della antichità paleocristiane e medievali. La chiesa fu consolidata e dotata di una serie continua di arcate cieche a tutto sesto, poste lungo le pareti dell’unica navata, la quale venne inoltre sopraelevata e coperta da un ricco soffitto a cassettoni,questo presenta, nel riquadro cruciforme al centro, lo stemma pontificio di Clemente VIII fra teste di cherubini alate, mentre gli altri riquadri raffigurano un fitto motivo di stelle. Nel 1603, a restauro ultimato, San Cesareo venne affidato ai padri somaschi del Collegio Clementino: in questa occasione vi furono trasferiti alcuni mosaici del XIII secolo e altri arredi architettonici che si trovavano nel transetto della Basilica di San Giovanni in Laterano, al tempo in fase di ristrutturazione per opera di Borromini.
Collegio e chiesa potevano allora contare sulla cosiddetta “Vigna di San Cesareo“, l’insieme delle proprietà e dei benefici che erano collegati alla chiesa di San Cesareo e che consentiva l’autosufficienza per ogni spesa. Questi terreni consistevano di tutto quanto il lato destro della Via di Porta San Sebastiano fino alle Mura Aureliane.
Beni che furono incamerato dallo Stato italiano a seguito della Presa di Roma: alla fine del XIX sec., in concomitanza con i lavori di sistemazione della Via Appia messi in atto dal Ministro Guido Baccelli , la chiesa subì un radicale intervento di restauro e manutenzione, durante il quale il sagrato d’ingresso venne pavimentato, la facciata principale restaurata e privata delle immagini sacre originariamente inserite nelle cornici.
Nel 1925 i terreni retrostanti la Chiesa di San Cesareo furono espropriati e concessi dal Demanio dello Stato al Governatorato, che vi istituì il Parco di S. Sebastiano; nel frattempo, la chiesa stava crollando e solo nel 1936 una ricca e anonima donazione permise di iniziare un lungo restauro, che tra complesse vicende, si concluse nel 1955 quando il cardinale Clemente Micara poté riconsacrare il luogo sacro.
Nel dicembre 1958 il cardinale Francesco Bracci volle assumerne il titolo cardinalizio con l’intento di ripristinare la bellezza dell’antico tempio. I Padri Silvestrini, interessati a gestire la chiesa, dovettero desistere per l’impossibilità a costruirvi accanto una comunità religiosa e fu allora il segretario del cardinale Bracci, monsignor Giacomo Orlandi, ad assumersi l’impegno di gestire la chiesa di cui divenne rettore.
Il 25 aprile del 1960, nella chiesa di San Cesareo, l’attrice Virna Lisi sposò l’architetto romano Franco Pesci. Questa chiesa piaceva molto all’attrice, tra l’altro allora era chiusa; gli sposi fecero richiesta di averla e fu aperta appositamente per il loro matrimonio.
Il 2 aprile 1963 la chiesa di San Cesareo venne riaperta al culto con la celebrazione della Stazione Quaresimale presieduta dal cardinale Bracci: per un decennio San Cesareo ospitò la Stazione Quaresimale al posto di Santo Stefano Rotondo chiuso per restauri. La chiese fu anche titolo cardinalizio del cardinale Karol Wojtyla che ne prese possesso il 18 febbraio 1968.
La chiesa ha una facciata molto sobria: il portale di accesso presenta un protiro con colonne di granito sostenenti un timpano, mentre ai lati vi sono due finestre quadrangolari murate. L’ordine superiore, separato da quello sottostante da una fascia marcapiano, presenta una grande finestra centrale, incorniciata e chiusa da una vetrata, ai lati della quale quattro paraste con capitelli ionici scandiscono quattro riquadri inscritti in cornici sottili.
L’attuale struttura della Basilica si compone di una navata unica scandita, lungo le superfici laterali, da sei arcate incorniciate da sobrie paraste e sormontate da un cleristorio, tra le cui finestre trovano posto alcuni preziosi mosaici attributi al Cavalier d’Arpino e raffiguranti scene della vita di San Cesareo. L’elegante opera musiva del catino absidale raffigura invece una classica scena di Dio Padre fra gli angeli.
Come accennato, diversi arredi liturgici provengono dalla basilica di San Giovanni in Laterano: l’altare maggiore, costruito con una porzione di un sontuoso paliotto cosmatesco, databile alla seconda metà del XIII secolo; l’ambone, composto da una decina di elementi eterogenei, databili al XIII secolo, tranne la nicchia quattrocentesca a conchiglia della fronte; le transenne del presbiterio, frutto dell’assemblaggio di pezzi di diversa origine, tra i quali due grandi plutei con lastre di porfido, due fasce musive e due colonne tortili.
Per cui, sotto molti aspetti, la chiesa può essere considerata una sorta di museo dell’arte cosmatesca medievale…