Il quarto progetto di Bramante

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Finalmente, con il terzo progetto, Bramante ebbe un poco di pace, sia da parte di Giulio II, sia da parte di Giuliano da Sangallo: per cui, sicuro di non perdere il posto, diede finalmente, nell’aprile 1506, l’avvio ai lavori, che paradossalmente, poco avevano a che fare con quanto proposto al Papa sino a quel momento: a quanto sappiamo, rispetto alle proposte precedenti, le misure sono ridotte e il braccio occidentale corrisponde in pieno alle fondamenta quattrocentesche, a contorno poligonale e senza ambulacro.

Questo fatto ha scatenato la fantasia di critici e storici dell’arte, impegnati nel disperato tentativo di capire cosa passasse per la testa a Bramante, partendo dalla una pianta conservata nel cosiddetto Codice Coner, opera di Bernardo della Volpaia, personaggio alquanto peculiare.

Bernardo, nato nel 1475 a Firenze, era uno dei rampolli di un’assai nota famiglia di orologiai dell’epoca: per motivi che noi ignoriamo a inizio Cinquecento, prese baracche e burattini, e si trasferì a Roma, dove, invece di dedicarsi all’attività di famiglia, sfruttando la sua esperienza e le sue competenze meccaniche, decise di diventare ingegnere.

Ossia, per farla breve, cominciò a progettare e costruire macchine edilizie e a dirigere cantieri: cosa che lo rese un preziosissimo collaboratore di Bramante, Raffaello e Antonio da Sangallo e discretamente ricco, tanto da permettersi un palazzetto a Borgo, adiacente a quello del cardinal Giulio de’ Medici. Il frequentare Bramante, fece venire a Bernardo la passione per il rilievo architettonico, i cui disegni furono raccolti proprio nel Codice Coner.

Da una parte Bernardo vi raffigurò con precisione molti particolari quotati di architetture antiche, raggruppati per tipi ed ordini (per esempio ponendo di seguito tutte le trabeazioni doriche) formando un vero trattato figurato sull’architettura antica, dall’altra mise su carta le intuizioni di Bramante. Grazie a lui, ad esempio, dei progetti originari di San Biagio della Pagnotta, di San Celso, palazzo Castellesi e ahimé, come accennato una pianta di San Pietro.

Nel cercare di capire come interpretarla, Metternich, combinandola con le piante longitudinali di Giuliano da Sangallo, arrivava a un progetto simile all’attuale basilica, con un corpo longitudinale a tre navate e cinque campate. Frommel, invece, l’ha utilizzate per ricostruire un un progetto di dimensioni ridotte, simile a quelli disegnati del Peruzzi dopo il sacco di Roma, che solamente sotto Leone X sarebbe stato sostituito da quello grande.

Probabilmente, però, la pianta Corner, più che un progetto vero proprio, era una sorta di studio di fattibilità, usato da Bramante, per cercare di capire come uscire dal vicolo cieco in cui si era infilato per dare retta a Giulio II.

Il problema del Terzo Progetto, era il passaggio dal sistema centrale, a quincunx, a quello longitudinale, a navate e campate: la forma dei sostegni cambia, e la sequenza degli spazi perde il suo ritmo, o peggio non viene più elaborata, come avviene nella nave minore, in cui Bramante non sapeva che pesci pigliare su come portarla a termine.

Continuandola con una serie di cupole minori, si avrebbe una struttura di dimensioni mostruose, irrealizzabile per tempi costi; rinunciando a tali cupole, la navata degraderebbe a un muro annesso del corpo centrale, alquanto bruttarello. Così la desiderata integrazione fra pianta centrale e longitudinale appare irraggiungibile.

Bisognava prendere il coraggio a quattro mani, buttare tutto e ricominciare da capo, a costo di affrontare l’ira di Giulio II. Ed è ciò che fece Bramante con la Pianta Coner, che rispetto ai progetti precedenti presenta due novità: la prima riguarda il diametro delle cupole minori. Nelle altre piante, ammontava sempre alla metà di quello della cupola maggiore; qui è ridotto a poco più di un terzo. Con ciò la forma dei rispettivi vani cambia dall’ottagono al quadrato, con un lato uguale, o quasi, al diametro delle arcate dei bracci di croce.

In tal modo questi vani si prestavano a esser ripetuti nelle navi minori: i sistemi spaziali centrale e longitudinale ormai si intrecciano a vicenda, senza frattura alcuna. E lo stesso vale per la struttura portante. Qui la trovata decisiva, quella del contropilastro, formato da un blocco rettangolare, la cui facciata rivolta verso la nave di mezzo corrisponde esattamente a quella del pilone centrale: tutte e due sono articolate con gli stessi gruppi parasta-nicchia-parasta, che solo adesso si uniscono attraverso l’arcata nella famosa travata ritmica del San Pietro Bramantesco, ripetuta identica in tutto l’edificio.

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Purtroppo, il progetto derivato dalla studio di fattibilità della pianta Corner è andato perduto: tuttavia, abbiamo un’idea abbastanza chiara di cosa prevedesse, grazie a xilografia a corredo de il Terzo libro, nel quale si figurano e si descrivono le antiquità di Roma, de I Sette Libri dell’architettura di Sebastiano Serlio, che l’autore così introdusse

il qual Bramante al suo tempo dette principio alla stupenda fabrica del tempio di S. Pietro a Roma: ma interrotto dalla morte lasciò non solamente la fabrica imperfetta, ma ancora il modello rimase imperfetto in alcune parti: per il che diversi ingegni si affaticarono intorno a tal cosa: et fra li altri Raffaello da Urbino pittore, et ancho inteligente nel architettura, seguitando però i vestigi di Bramante, fece questo disegno.

La sua pianta mostra uno schema planimetrico puro e indisturbato: un disegno a scacchiera, formato da piloni e vani voltati a cupola, a botte e a crociera, in cui la figura a trifoglio dei bracci di croce occidentali si scioglie senza lasciar resto; il tutto rinchiuso in un blocco unico, rettangolare, da cui solamente le absidi emergono con grandi curve a segmento.E’ la sintesi perfetta fra tempio centrale e basilica.

Tuttavia, la pianta del Serlio pone il grosso problema delle misure. Quanto alle misure, il Serlio afferma come la sua figura sia ben proporzionata, cosicché da una parte delle misure si potrà trarre il tutto. Basta uno sguardo, però; per capire che ciò non è vero, e anche i numeri riportati sono sbagliati. Ma il disegno in sé non è tanto rozzo come forse appare, né è stato deformato in modo arbitrario. Infatti l’autore si è servito dello stesso metodo di generalizzazione per mezzo di una rete quadrata, che Bramante aveva impiegato nei suoi progetti; solo che qui la rete è molto più larga: un quadretto corrisponde a 30 palmi, invece dei 5 palmi di Bramante.

Questo metodo permetteva senz’altro di mettere in rilievo l’innovazione più importante di quel progetto: il diametro della cupola maggiore ha sei quadretti, quello delle cupole minori ne ha due. Altrettanto chiaramente si delinea la normalizzazione del sistema strutturale di piloni e contro-piloni. Altre relazioni, come quella fra cupola maggiore e navata, appaiono invece deformate, in quanto la navata risulta troppo larga; ma se il disegnatore voleva attenersi alla rete di 30 palmi, non c’era via di scampo.

In genere si può osservare che, in caso di conflitto, si è deciso di far prevalere i vuoti sopra i pieni; il che conferisce a questa figura quel certo che di leggerezza e serenità che incantava gli studiosi d’altri tempi. Quel che conta per noi è che le singole deviazioni si compensano a vicenda; l’effetto totale è; virtualmente corretto.

Giochi da tavolo nell’Antica Roma

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Mettiamola così: dopo quasi un mese rintanati giustamente a casa, una delle sfide più importanti è sopravvivere alla noia. Un grosso contributo, oltre alla lettura, a Netflix e a Disney+, lo stanno dando i giochi da tavolo.

Può sembrare strano, perché è una cosa citata di sfuggita nei libri di testo, ma anche gli antichi romani, che li chiamavano tabulae lusoriae, proprio perché realizzati su una scacchiera, ne erano grandi appassionati: cosa che, per una volta, tendeva a superare anche le differenze religiose. Le tavole potevano essere di poco valore, come quelle ricavate dalla corteccia di alberi o scavate sul marmo, mentre quelle appartenenti alla popolazione più ricca, potevano essere dei veri e propri tesori, di cui ci parla anche Plinio il Vecchio.

Amanti di questa tipologia di giochi erano sia i pagani, sia i cristiani, tanto che San Cipriano, che aveva condannato il gioco d’azzardo basato sui dati in trattato teologico intitolato De aleatoribus, scrisse dei manuali, purtroppo perduti, dedicati alle principali tabulae lusoriae dell’epoca.

Molte testimonianze, sui tabelloni dei giochi da tavola degli antichi romani, provengono proprio dal Foro Romano, in particolare dalla Basilica Iulia, cominciata da Giulio Cesare e terminata da Augusto, in cui aveva sede il tribunale dei centumviri, in cui si dibattevano cause relative a dispute sulla di proprietà, servitù ed eredità. Clienti e avvocati, a quanto pare, ammazzavano il tempo tra un’udienza e l’altra giocando.

Come facessero a concentrarsi sulle strategie, è un mistero: da quanto raccontano gli storici latini, tramezzi in legno o tende dividevano dividevano la basilica in settori che venivano utilizzati da quattro tribunali contemporaneamente. Per cui, era facile immaginare la confusione…

Spesso su queste tabulae agli elementi decorativi si sono sostituite delle iscrizioni che riguardano la mutevole sorte del gioco, o la bravura o poca abilità dei giocatori. Le frasi venivano disposte su tre file parallele, una lettera per ogni casella.

Alcune tabulae, specie le più tarde, fanno allusioni ad eventi storici o politici. Un esempio eloquente in tal senso è costituito da un’epigrafe ritrovata nella catacomba di Priscilla, sempre a testimonianza di come la passione per i giochi da tavolo fosse interreligiosa, che recita

“Sconfitti i nemici, l’Italia è felice, divertitevi Romani”.

Si pensa che questo testo si riferisca alla vittoria riportata sugli Alemanni a Fano nel 271 d.C. ad opera dell’imperatore Aureliano, oppure alla vittoria conseguita da Claudio II il Gotico nel 268 d.C. sulla stessa popolazione.

Altre volte il linguaggio usato diventa allegorico, paragonando i giocatori più abili ai cacciatori e i più sprovveduti alle prede; non mancano inoltre le invocazioni alla fortuna e alle divinità affinché venissero in soccorso ai giocatori.

In ambito cristiano, nella catacomba dei santi Pietro e Marcellino è stata ad esempio trovata una tabula, che presenta all’interno delle caselle le raffigurazioni del buon pastore e di Noè nell’atto di accogliere la colomba col ramoscello di olivo.

Un’ altra lapide è stata scoperta all’interno della basilica di Damus el-Karita a Cartagine, dove è iscritta una croce monogrammatica; infine dal complesso cultuale di san Lorenzo fuori le mura romane ne proviene un’altra, che contiene all’interno dei cerchietti mediani i nomi dei quattro fiumi paradisiaci (Geon, Fison, Tigri ed Eufrate).

Ma a cosa giocavano, di preciso, gli antichi romani ? Dalle fonti e dagli scavi archeologici, le principali tabulae lusoriae erano: Terni lapilli, Tria, Parvi foraminis, Duodecim scripta, Quadrati boves e Latrunculi.

Terni Lapilli e Tria, detto fra noi, si giocano ancora oggi: il primo è il nostro tris, anche se spesso gli antichi romani preferivano usare griglie circolari rispetto a quelle quadrate, il secondo è il notissimo Filetto.

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Parvi foraminis, buchette, era una loro strana variante. Nella Basilica Iulia ne troviamo ben cinque, delle loro tabulae lusoriae, formate da file di concavità praticate nella pietra. Alcune di queste sono sovrastate da un lungo rettangolo, mentre altre sono circondate da linee che delimitano lo spazio di gioco.

Le tabulae variano sia per disposizione che per numero di buche: alcune ne hanno solo 8 (una fila da 5 e una da 3), altre ne hanno 12, altre ancora, invece, sono disposte a cerchio. Nella Basilica Iulia troviamo una tabula delle fossette simile a quella incisa nel Foro Vecchio di Leptis Magna e chiamata dalla Rieche “mulino tondo”. Questa tabula è diversa dalle altre, in quanto costituita da due cerchi concentrici, divisi in otto settori regolari da otto diametri.

Come si giocava a Parvi foraminis ? Come accennavo, era una sorta di mix tra Filetto e gioco delle biglie. I giocatori dovevano creare i loro tris, cercando di lanciare delle palline di vetro nelle buche.

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Più complessi, concettualmente, erano gli altri tre giochi, di cui, secono gli storici latini, era grande appassionato l’imperatore Claudio. Duodecim scripta era una sorta i versione latina del nostro backgammon e si giocava con una scacchiera e 15 pedine per ciascun partecipante, un giocatore prendeva quelle bianche e l’altro quelle nere; venivano utilizzati, durante il gioco, anche due dadi.

Si cominciava col gettare gli appositi dadi, per decretare il primo giocatore (ovviamente iniziava colui che, una volta tirati i dati, avesse ottenuto il numero più alto). Una volta tirati i dadi, il giocatore poteva posizionare la sua pedina in una casella considerata «libera», ovvero non occupata dall’avversario, in base al numero uscito. Si consideravano perciò bloccate quelle caselle in cui uno dei due giocatori avesse già piazzato almeno una delle due pedine. La partita veniva considerata conclusa solo quando uno dei due giocatori riusciva a far compiere a tutte le sue pedine l’apposito percorso.

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Quadrati boves è il nostro Alquerque, gioco che risale almeno faraone Ramses I (XIV sec. a.C.), la più celebre incisione di questo periodo si trova sulle pietre di copertura del tempio di Kurna opera probabilmente dei muratori che lavoravano alla costruzione. Il gioco ebbe grande diffusione tra le popolazioni arabe, presso le quali ancora oggi viene giocato, e viene menzionato con il nome di El-quirkat (il quadrato) in un manoscritto arabo del X sec. Un’altra incisione famosa è quella di Gerusalemme, su una delle pietre del posto di guardia nella porta di Damasco, l’incisione viene attribuita all’epoca della dominazione romana della Palestina (II sec. d.C.). Per cui, è probabile fosse il passatempo preferito di qualche Apostolo e dei suoi ascoltatori.

Successivamente venne introdotto in Spagna durante la dominazione araba e descritto nel “Libro de los juegos” durante il regno di Alfonso X di Castiglia (1251-1282), da cui sono state tratte le regole standard. Al proprio turno, il giocatore sposta uno qualsiasi dei propri pezzi in una casella adiacente vuota. Un pezzo può saltare un pezzo avversario, mangiandolo, se quel pezzo è adiacente e la casella successiva è vuota (come nella dama). Sono permesse (e obbligatorie, se possibili) catture multiple. Se un giocatore non esegue una cattura avendone la possibilità, il suo pezzo viene “soffiato” (ovvero eliminato dal gioco). Vince chi elimina tutti i pezzi avversari.

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Infine, il gioco Ludus latrunculorum, o più semplicemente dei Latrunculi (briganti, mercenari), era un gioco da tavolo in voga nell’antica Roma, forse una variante della petteia (gioco praticato nell’Antica Grecia), forse simile ai moderni scacchi o dama. Le pedine, e occasionalmente il gioco stesso, erano chiamati calculi (“sassolini”); delle pedine è noto che avevano diversi compiti: c’erano le mandrae, i milites e i bellatores (di queste ultime due non si è certi se fossero le stesse chiamate con nomi diversi). Da quanto siamo riusciti a ricostruire, la tavola da gioco dei latruncoli era divisa probabilmente in 96 quadrati, tutti dello stesso colore.

Ai due estremi venivano schierati gli eserciti di pedine. Non sappiamo il numero esatto dei pezzi per partecipante: le ricostruzioni più accreditate ipotizzano dodici pedine, ma anche sedici o trenta. A queste va aggiunto il dux o bellator, una sorta di “re”. Ancora per analogia con gli scacchi, le singole pedine sono da noi chiamate a volte “pedoni”, altrimenti milites. Tutti i pezzi sulla tabula lusoria potevano muoversi ortogonalmente e di quante caselle vogliono. Un miles o pedone venivano “mangiato” se affiancato dalle pedine dell’avversario su due lati, ad esempio a destra e sinistra o in alto e in basso. Per questo motivo era importante muovere sempre una pedina a copertura dell’altra. Il dux o bellator, invece, era mangiato se è accerchiato da tutti e quattro i lati. Di fatto le regole erano simili all’ Hnefatafl vichingo, con la differenza, che come i nostri scacchi, il gioco era simmetrico, avendo i due contendenti lo stesso scopo, catturare il re avversario.

Così, il buon Ovidio, descrive nei Tristia tale gioco

Sunt aliis scriptae, quibus alea luditur, artes –
hoc est ad nostros non leve crimen avos –,
quid valeant tali, quo possis plurima iactu
fingere, damnosos effugiasque canes;
tessera quos habeat numeros, distante vocato
mittere quo deceat, quo dare missa modo;
discolor ut recto grassetur limite miles,
cum medius gemino calculus hoste perit,
ut bellare sequens sciat et revocare priorem,
nec tuto fugiens incomitatus eat;
parva sit ut ternis instructa tabella lapillis,
in qua vicisse est continuasse suos;
quique alii lusus – neque enim nunc persequar omnes –
perdere, rem caram, tempora nostra solent.

Ossia, tradotto in italiano

Altri hanno scritto sull’arte di giocare ai dadi – che non è lieve colpa presso i nostri antenati -, quale sia il valore degli astragali, con quale lancio si possa segnare il massimo dei punti o evitare i dannosi cani, quali le combinazioni dei dadi, come lanciare chiamando il numero che manca, come muovere in accordo coi lanci, come avanzi in linea retta il soldato di diverso colore, quando un pezzo è minacciato in mezzo a due nemici, come un pezzo che segue sappia combattere e richiamare un pezzo avanzato e ritirandosi in sicurezza non si muova senza un compagno, come su una piccola tavola si dispongano tre pezzi per giocatore, e vince chi ha messo in fila i suoi sulla medesima linea, e gli altri giochi – né ora potrei ricordarli tutti – che sogliono sciupare, cosa preziosa, il nostro tempo

Museo Universitario di Chieti

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Il Museo universitario di Chieti, dedicato alle Scienze, ha una storia abbastanza recente: nacque infatti nel 1994 come Museo di Storia delle Scienze Biomediche, situato nella vecchia sede di Farmacia, nel neoclassico Palazzo De Pasquale. Il 21 gennaio del 1998, il museo fu spostato in una sede più ampia del campus universitario di Madonna delle Piane, per poi essere definitivamente collocato nella sede di Piazza Trento e Trieste, nel Palazzo Opera Nazionale Dopolavoro “Arnaldo Mussolini”, che venne costruito sopra gli ottocenteschi bagni pubblici, intorno al 1934 dall’architetto Camillo Guerra.

Guerra realizzò uno spazio multifunzionale, destinato all’attività culturale, che divenne csimbolo del fascismo architettonico a Chieti, caratterizzato da una doppia scalinata monumentale, e le scale a chioccola si torcono intorno al profilo svettante di due enormi fasci littori laterali, simboli del regime.

Nel 1945, fu assegnato all’E.N.A.L. (Ente Nazionale Assistenza lavoratori). L’istituzione operò fino al 21 ottobre 1978 quando la Legge n. 641 ne determinò lo scioglimento. Nel seminterrato vi era la sede del cinema teatro Garden Cine che fu chiuso il 30 giugno 1980 perché i locali non rispondevano alle norme di sicurezza. Oggi vi trova sede l’auditorium del Museo.

Nella sua specificità, il museo universitario contribuisce a caratterizzare l’Ateneo “G. d’Annunzio” costituendo “luogo della memoria” e spazio espositivo dedicato alla conoscenza ed alla divulgazione delle Scienze Naturali e della Storia della Scienza, con particolare vocazione verso gli aspetti biologici e medici che emergono dalla ricerca archeologica, medica, antropologica e paleontologica, ma anche con specifiche sezioni dedicate alla Storia Naturale ed alla Storia della Scienza.

Per questo, è caratterizzato da una serie di interessanti collezioni, a cominciare da quella originale, proveniente dalla Facoltà di Farmacia, composta da materiali paleontologici, antropologici e storici legati alla storia della medicina e del popolamento concessi – per la maggior parte – in prestito temporaneo illimitato dalla Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo, grazie ad una convenzione con il Ministero dei Beni Culturali.

Questo ha permesso di realizzare delle sezioni sulla Storia del popolamento umano in Abruzzo, sulle mummie, in cui è conservata anche la riproduzione di due mammut, la storia delle malattie, l’origine dell’uomo e la storia della vita.

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La prima collezione privata numerosa a portare materiale naturalistico al museo è stata quella del docente Adriano Antonucci di 2951 pezzi che comprendeva una serie di reperti preistorici, una collezione di sabbie, reperti paleontologici del sito di Palena, rocce e minerali e una collezione malacologica, che aprì le porte al nuovo indirizzo museale con apertura alle scienze naturali, donata nel 2006.

A queste si aggiunsero le donazioni di numerose scuole teatini – come il Liceo Classico “G. B. Vico”, fondato nel 1640 dagli Scolopi, il liceo “Isabella Gonzaga” e il Pontificio Seminario Regionale abruzzese-molisano “San Pio X” – hanno trasferito al museo il loro patrimonio storico-scientifico (dal XVII al XX secolo) costituito da strumentari scientifici, campioni naturalistici, preparati anatomici e libri.

La collezione degli strumenti di fisica del Liceo Classico “G.B. Vico” di Chieti ha una notevole importanza perché è, probabilmente, la più antica tra le collezioni di strumenti scientifici ad uso didattico presenti nella città di Chieti. Il materiale proveniente dal “Gabinetto di Fisica” è costituito da diversi apparecchi, alcuni dei quali furono sicuramente ereditati dagli Scolopi che fondarono la scuola nel 1640. Infatti, a questo periodo risalgono una bussola della prima metà del ‘600 ed una sfera copernicana in legno e carta della seconda metà del ‘600.

Il Gabinetto di Fisica, concepito come autonoma collezione di strumenti per esperienze in questa disciplina, nasce tuttavia solo nella prima metà dell’Ottocento; fino ad allora la fisica, denominata “Filosofia naturale”, veniva insegnata dal docente di filosofia.

Con il riordino delle istituzioni scolastiche ad opera del neo-nato Regno d’Italia, le collezioni scientifiche-didattiche delle maggiori scuole crebbero nei numeri e nell’importanza. A quest’epoca risalgono i pezzi più pregevoli del Liceo.

Invece, l’Isabella Gonzaga, ha donato una straordinaria collezione di erbari, costituiti da tavole acquistate alla Paravia dalla stessa scuola e da tavole realizzate da alcuni docenti e di una ricca raccolta di animali, prevalentemente tassidermizzati o conservati in formalina. Raccolte che ci permettono di avere un’idea di come è mutata l’ecologia italiana negli ultimi duecento anni.

Il museo ha attirato anche diverse donazioni come quelle dei coniugi Helen e Paul Critchely – che hanno donato un intero ambulatorio medico ricco di attrezzature del primo Novecento; le collezioni di Flavio Bacchia, di Cucurullo e di Luigi Capasso, direttore del Museo, la collezione di tartarughe artistiche, una collezione di dipinti di Aligi Sassu, entrambe donate da Alfredo Paglione e l’ultima – recentemente inventariata – di Giuseppe Colamonaco, ricevuta il 12 marzo 2015 dalla vedova Anna Maria Pesce.

Giuseppe Colamonaco, medico di base, sin da giovane scoprì la passione per la malacologia e con costante e rinnovata passione raccoglie personalmente un’enorme quantità di materiale malacologico, soprattutto lungo le coste del basso Adriatico e del Mar Ionio. La collezione viene da lui accresciuta con materiale raccolto da altri ricercatori e/o acquistato nel corso degli anni.

L’alto rigore scientifico con cui gli esemplari sono stati selezionati ne fanno un compendio di assoluto valore. È composta di oltre 4.400 esemplari per un totale di 777 specie tra bivalvi, scafopodi, gasteropodi, cefalopodi e poliplacofori. Attualmente ne sono stati inventariati 2.528.La raccolta Colamonaco si caratterizza, infatti, per il grandissimo numero di esemplari in perfette condizioni e dalle dimensioni fuori dal comune: al suo interno si riscontrano 20 esemplari di dimensioni eccezionali, che hanno conseguito la qualifica di record mondiali.

Del 2015 è la donazione del gallerista milanese Alfredo Paglione (di cui il Museo già possedeva la collezione di tartarughe artistiche e di dipinti di Aligi Sassu) composta da 436 opere. Per il museo quindi si aprirà – se sarà in grado di trovare una sede adeguata – una nuova avventura, che apre le sue porte alle arti figurative e che offrirà alla città di Chieti un luogo per le arti contemporanee.

Sant’Eulalia dei Catalani

Grazie alla protezione dei re aragonesi, la colonia di mercanti e banchieri catalani a Palermo godette per lungo tempo di enormi privilegi. Sappiamo, grazie ai documenti dell’epoca, che dal XIII-XIV secolo si erano stabiliti nel quartiere mercantile della Conceria, in prossimità del porto, che in quel momento ospitava altre comunità di mercanti stranieri, pisani e genovesi, che qui possedevano logge pubbliche, una sorta di mercato coperto, in cui erano presenti, oltre ai banchi delle merci, i cambiavalute.

Le loro abitazioni e dei magazzini erano in nella contrada originariamente denominata della Campana e che all’inizio del Cinquecento fu detta appunto della Loggia, la nostra Garraffo, proprio adiacente al mercato della Vucciria. In particolare, erano distribuite tra la ruga Pisanorum (parte dell’odierna via della Loggia) e la ruga Planellariorum, fra la piazza del Garraffo e San Giacomo la Marina.

Da un documento del 1371, appare come nella ruga Planellariorum sive ruga Catalanorum fosse presente la loro loggia commerciale, anche se non è chiaro, però, dove fosse realmente ubicata: molti studiosi ipotizzato come fosse adiacente alla loro chiesa nazionale, chiamata, ovviamente, Santa Maria dei Catalani. Stando ad alcune fonti, nel 1437 fu concessa alla Nazione Catalana, con privilegio reale conferito da Alfonso d’Aragona, la Loggia già appartenuta ai genovesi; quest’ultima olim Januensis et
nunc Catalanorum (1448) è denominata alla metà del secolo Logia nova Catalanorum.

Nel 1464 è ancora citata in un atto della Curia senatoria per la corsa del palio nel giorno dell’Assunzione. Si tratta sempre di informazioni indirette e il documento in questione non permette di precisare l’esatta collocazione urbana, ma lascia intendere che essa doveva trovarsi nel piano della Loggia, dove presumibilmente si concludeva il percorso della gara che dalla via Porta di Termini (attuale via Garibaldi), dopo avere attraversato la strada di S. Francesco (oggi via Paternostro) giungeva “in la loggia di li Catalani”.

A partire dal 1553 il piano della Loggia era stato oggetto di un intervento di riordino e di regolarizzazione, divenendo il luogo deputato a ospitare, in via provvisoria, la prima sede del Banco pubblico o Tavola di Palermo, istituita dal Senato nel 1551-1552.

La sistemazione della piazza rientrava nel più vasto programma di rinnovamento che aveva interessato l’intero quartiere. La municipalità aveva, infatti, promosso e attuato una serie di operazioni che miravano alla razionalizzazione del tessuto viario della città medievale, attraverso l’allargamento delle strade e il riallineamento degli edifici. Gli anni cruciali per la trasformazione del quartiere si collocano tra il 1545 e il 1560. A questa fase va legata la rettifica della via Argenteria, cioè l’asse compreso tra le piazze della Bocceria vecchia (ora Caracciolo) e quella della Loggia.

Appare certo tuttavia, che la trasformazione della strada fosse stata anticipata da ulteriori iniziative (che avrebbero condizionato le successive operazioni) avviate già alla fine degli anni trenta, allorché si promuoveva, «per decoro e ornamento della città», la creazione di una piazza tangente la strada o meglio il rifacimento e l’ampliamento del piano dove esisteva l’antica fonte del Garraffo (planu di lu Garraffu).

L’iniziativa venne presumibilmente avviata dai Giurati della città tra il 1537 e il 1538, a seguito della visita di Carlo V, dopo la presa di Tunisi; l’imperatore, nonostante Palermo fosse stata decorata in fretta e furia con architetture provvisorie, ispirate alla classicità, si lamentò dell’aspetto ancora medievale della città, piena di vicoli stretti e tortuosi.

La costruzione della nuova piazza, però, a causa delle demolizioni necessarie, provocò parecchio malumore da parte degli abitanti della zona, tanto che il viceré Ferrante Gonzaga dovette prevedere una notevole serie di aiuti e risarcimenti pubblici ai possessori delle case diroccate o rovinate.

Proprio questa ristrutturazione urbanistica, diede il la ai catalani per costruire una nuova Loggia, da sostituire a le due medievali, la propria e quella sottratta ai Genovesi, a testimonianza del loro potere e preminenza economica: a promuovere l’iniziativa fu il ricchissimo banchiere maiorchino Perotto Torongi.

Il progetto fu commissionato a un ignoto architetto, che da una parte fu ispirato da modelli lombardi, la struttura generale della Loggia ricorda a grandi linee la facciata di Santa Maria dei Miracoli, dovuta allo scultore-architetto Giuseppe Spatafora che si era formato nella bottega di Giacomo Gagini. Le analogie, in questo caso, si spingono anche alla presenza dell’alto attico di coronamento, al portale architravato tra semicolonne corinzie e agli archi a sesto rialzato come quelli che compaiono all’interno della chiesa e presenti in altre fabbriche religiose della seconda metà del secolo a Palermo (Santa Maria La Nova, su disegno dello stesso Spatafora, e San Giorgio dei Genovesi).

Dall’altra, per andare incontro ai desideri della committenza, la decorazione fu ispirata ai modelli iberici, come la facciata del Consolato del Mare a Valencia. Per cui, l’architetto, prendendo spunto dallo stile plateresco, riempì la facciata con lo stemma del regno di Spagna, il rombo con le insegne della Contea di Barcellona affiancate da quattro colonne a simboleggianti le Colonne d’Ercole e le raffigurazione di un lingotto d’argento ricavato dall’estrazione del minerale nelle ricchissime miniere del sud america (Potosì), un omaggio alla vicina corporazione degli argentieri, con cui i catalani avevano forti rapporti d’affari.

A fine Cinquecento, però, le banche catalane di Palermo cominciarono ad entrare progressivamente in crisi, rendendo inutile la presenza della Loggia. Poi, con la Controriforma, le varie nazioni presenti nella città cominciarono ad evidenziare la loro potenza non con edifici laici, ma con chiese, più o meno monumentali. A metà secolo la Nazione Napoletana intraprendeva la costruzione di una propria chiesa (San
Giovanni), nel 1576 i Genovesi aprivano il cantiere della nuova fabbrica di San Giorgio.

I Catalani, per non rimanere indietro, decisero, dopo parecchie esitazione a trasformare la Loggia nella nuova chiesa chiesa nazionale, dedicata alla protettrice di Barcellona Sant’Eulalia, che, secondo la tradizione, alquanto pulp, ebbe un martirio alquanto lungo da parte dei romani, dato che fu sottoposta a ben tredici torture, tra cui:

  • Fu chiusa in un barile pieno di chiodi (o pezzi di vetro) e fatta rotolare in una strada
  • Le furono tagliati i seni
  • Fu crocifissa su una croce a forma di X
  • Alla fine fu decapitata

Per cui, dal 1583, furono progressivamente comprati gli edifici dell’isolato limitato da un lato dal “Vicolo della Rosa Bianca” e dall’altro dalla Via Argenteria Nuova, in modo da avere spazio a disposizione per la chiesa. I lavori, cominciarono nel 1599 e di riffe e di raffe, per carenza di denari, si prolungarono a lungo.

Nel 1714, grazie  all’interessamento del re Vittorio Amedeo di Savoia, venne ceduta dai catalani a don Giuseppe Raimondi affinché servisse per la Casa degli Ecclesiastici realizzata proprio accanto, quando avevano abbandonato quella presso la chiesa della Madonna della Volta alla Conceria. La chiesa subì alcuni danni durante il terremoto del 1823 tanto che fu necessario abbattere il campanile, oggi si vedono due campane nel transetto di destra delle quali una proveniente dal monastero del Saladino.

Dopo l’Unità d’Italia, la chiesa rimase proprietà dello stato spagnolo, cosa che ne condizionò la storia nel Novecento: fu riaperta al culto nel 1951 su espresso desiderio del generalissimo Francisco Franco e dopo anni di abbandono, fu trasformata nella sede palermitana dell’istituto Cervantes.

Entrando nell’ex chiesa, l’interno si presenta a croce greca preceduta da una breve navata con due cappelle, una per lato, sostenuta da quattro grosse colonne monolitiche di broccatello di Spagna fatte venire appositamente da Barcellona. La cupola prevista non venne mai realizzata, nei pennacchi affreschi monocromi con gli Evangelisti. Nelle volte e nelle cappelle resti di affreschi secenteschi. Sull’altare maggiore era la grande tela della “SS. Trinità” di Gaspare Serenario, proveniente dalla distrutta chiesa di Gesù e Maria agli Schioppettieri, mentre l’altare era in origine nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni dei Tartari.

La cappella del transetto destro era dedicata alla “Madonna di Monserrato” con quadro di Gerardo Astorino, mentre quella del transetto sinistro conteneva “Il Martirio di S. Eulalia” dello stesso autore. Nella chiesa era venerato un grande Crocifisso ligneo trasferito oggi in altra sede e una tavola di Giuseppe Sirena raffigurante “La Madonna di Monserrato con santi”.

Ovviamente, con la trasformazione nell’istituto Cervantes, gli arredi sacri non sono più presenti: in parte sono state trasferiti nell’ambasciata spagnola di Roma, in parte tra il museo diocesano di Palermo e Palazzo Abatellis.

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La città rupestre di Vitozza

Pochi lo sanno, ma a San Quirico, una frazione di Sorano “Città del Tufo” in provincia di Grosseto, si trova l’insediamento rupestre più esteso del centro Italia: Vitozza, l’antica “Vitoccium”. Benché la località fosse abitata già in epoca etrusca, l’origine della cittadina è legata alla storia e alla politica dell’antica famiglia degli Aldobrandeschi, citata da Dante nel Purgatorio, con la terzina

Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ’l nome suo già mai fu vosco.

Famiglia a cui forse apparteneva il grande papa Gregorio VII e che era di origine longobarda: benché si vantasse di duchi di Spoleto, il suo primo esponente che appare nei documenti è tale Ilprando, figlio di un non identificato Alperto, era «humilis abbas» della chiesa di San Pietro Somaldi di Lucca.

Suo figlio Ildebrando era grande amico del vescovo di Lucca e sfruttò tale legame per accrescere i suoi beni e divenne tanto ricco che il figlio Eriprando fu spedito alla corte di Carlo Magno, dove oltre a imparare a leggere e scrivere, fu tra i pochi lucchesi della sua epoca a utilizzare la scrittura carolina, il modello dei nostri caratteri da stampa, ottenne il titolo nobiliare di vassallus.

Eriprando ebbe quattro figli: i più importanti furono Geremia, che divenne vescovo di Lucca e Ildebrando II, il primo Comites della famiglia, che esercitò la sua funzione comitale su un vasto territorio della Tuscia meridionale, presumibilmente i territori di Populonia, Roselle e Sovana, distretti residui delle iudiciariae di matrice longobarda, nei cosiddetti fines Maritimenses.

Ildebrando II o l’omonimo figlio fu il fondatore del castrum Vitocciis, da cui progressivamente si sviluppò la cittadina. Nel 1212 alla morte di Ildebrandino VIII Aldobrandeschi, si scatenò una faida fratricida tra i suoi tre figli, Ildebrandino IX, Guglielmo e Bonifacio per spartirsi la sua eredità.  Faida che si concluse il 29 ottobre del 1216 con la seguente spartizione: a Ildebrandino IX toccò Sovana, al secondo Santa Fiora e al terzo Pitigliano. Ildebrandino IX morì senza eredi nel 1237 e le sue terre passarono agli altri due rami. La città di Sovana fu destinata al ramo di Pitigliano.

Così nacquero la Contea di Sovana (che inalberavano uno stemma d’oro al leone di rosso) e nella Contea di Santa Fiora (che avevano uno stemma d’oro all’aquila bicipite di nero). Queste faide fecero perdere alla famiglia il possesso di Vitozza, che fu occupata nel 1240 dal comune di Orvieto, che un paio d’anni dopo, la rivendette ai conti Baschi. Famiglia, quella dei Baschi, la cui attività principale consisteva nel pugnalarsi alle spalle, tanto da fare calare le braccia persino a San Francesco: per cui, fu abbastanza semplice, per gli Aldobrandeschi, riprendere Vitozza.

Tradizionalmente ghibellini, gli Aldobrandeschi di Sovana, dopo la morte dell’imperatore Federico II di Svevia nel 1250, passarono, per opportunità politica, al campo guelfo. Questo non impedì, però, ad entrambi i rami, che tutti i loro possedimenti venissero progressivamente erosi dalla Repubblica di Siena, che conquistò Vitozza.

Nel 1293, col matrimonio tra Romano Orsini e Anastasia di Montfort (ultima erede di questo ramo della famiglia Aldobrandeschi), il territorio della Contea di Sovana fu ereditato dagli Orsini, che cominciarono a guerreggiare ad oltranza con Siena, per riprendersi il maltolto. Le cose per Vitozza cambiarono a seguito della guerra del 1454-55 che vide il prevalere degli Orsini, i quali però decisero di non restaurare le fortificazioni danneggiate durante gli scontri.

Questo, oltre alla crescita del vicino centro di San Quirico, provocò il progressivo spopolamento di Vitozza, che a fine Settecento fu totalmente abbandonata: dal censimento voluto dai Lorena nel 1783 sappiamo anche il nome dell’ultima abitante della città, Agostina, vedova Bartolomeo Brunetti, detta la Riccia.

Ma cosa visitare a Vitozza? Per prima cosa, l’insediamento rupestre vero e proprio, che comprende oltre duecento grotte, adibite ad abitazioni fin dall’epoca medievale e utilizzate sino ai tempi dei Lorena: oltre ad Agostina, come dicevo l’ultima ad andarsene, abitavano Giuseppe Benocci e una certa Laura vedova di Francesco d’Angelo.

Le grotte adibite ad usi abitativi si estendono lungo i sentieri che attraversano il bosco che domina l’alta valle del fiume Lente, risalendola fino alla sua sorgente; alcune risultano piuttosto ravvicinate tra loro, mentre altre tendono ad essere più isolate.

In base alla loro tipologia, le grotte possono essere infatti classificate in quattro diverse tipologie di riferimento. Giungendo da San Quirico, si incontrano per un lungo tratto del sentiero tre varianti diverse di grotte.

Un primo gruppo è caratterizzato da grotte con aperture rettangolari che spesso sono disposte su più livelli collegati tra loro da scalette e passaggi, con le abitazioni collocate ai livelli superiori e i ricoveri degli animali a quelli inferiori. Un secondo gruppo di grotte presenta piante rettangolari con strutture destinate ad ospitare gli animali.

Una terza tipologia di grotte era adibita ad usi misti: esse si caratterizzano per un’apertura ad arco, una pianta culminante con un settore a forma circolare e maggiori rifiniture. La parte a forma circolare, ad uso animale, era munita di mangiatoia; gli altri ambienti erano probabilmente adibiti ad abitazione.

Tra le più importanti, lungo il tracciato, è possibile osservare la Grotta della Riccia, la casa di Agostina, la Grotta a due piani, costituita da due vani sovrapposti ed in comunicazione attraverso una scaletta scolpita nella roccia e la Grotta del Somaro, ad uso promiscuo e composta da più ambienti in grado di riparare animali e persone. Sul versante nord-est, invece, si trovano principalmente ambienti ipogei rettangolari destinati al ricovero degli animali.

Nella parte nord-occidentale di Vitozza, si trova invece un raggruppamento di alcune decine di grotte, denominate colombari, in base all’uso a cui erano destinate: inizialmente si pensava che risalissero all’epoca romana e servissero da sepolture. Gli studi più recenti, sembrano ipotizzare che siano nati soltanto nel Medioevo per l’allevamento dei colombi al fine di raccoglierne il guano ed utilizzarlo per la concimazione delle terre.

Entrando nella città vera e propria, si notano due Rocche. La prima, situata lungo il sentiero che attraversa l’intero insediamento rupestre, è costruita con spesse pareti in conci di tufo, che inglobavano una porta che si apriva lungo la via di accesso. I resti della rocca sono visibili da entrambi i lati del sentiero che si biforca poco prima. Sul lato settentrionale la struttura era delimitata da un fossato, reso oramai invisibile dalla vegetazione, che proteggeva ulteriormente la struttura difensiva garantendone maggiore sicurezza.

La seconda è una struttura fortificata situata lungo il sentiero che conduce verso i colombari e la sorgente del fiume Lente. La struttura è situata su un poggio che si eleva sulla destra del sentiero e si raggiunge dopo aver superato un’altra serie di grotte ad uso abitativo. Le pareti si articolano su due cortine murarie che nel complesso si sviluppano ad L, presentandosi rivestite in conci di tufo, poggianti su un basamento roccioso dello stesso materiale che ne costituisce il naturale basamento a scarpa. La cosiddetta “Chiesaccia”, duecentesca e romanica, dedicata a San Quirico, senza più il tetto e mancante di gran parte delle pareti, è invece quel che rimane della chiesa di Vitozza, che doveva presentarsi a pianta rettangolare e ad aula unica con abside semicircolare.

Presso la chiesa, sono visibili sul lato settentrionale del pianoro i ruderi di un altro edificio fortificato che svolgeva funzioni difensive, oltre ai resti di una porta che controllava l’accesso attraverso la strada parallela al costone. Sono presenti nel sito di Vitozza pozzi per l’immagazzinamento delle derrate alimentari e per la raccolta dell’acqua. Sono stati anche trovati numerosi “palmenti”, vasche con dimensioni e livelli diversi per la pigiatura dell’uva, il cui nome deriverebbe dal latino “palmitis” ossia “tralcio di vite”, o da “paumentum” ovvero “battere o pigiare”.

Gli horrea di Mediolanum

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Ho il sospetto, magari infondato, che la palma dei monumenti romani meno noti di Mediolanum sia da assegnare agli horrea, i depositi pubblici in cui diverse merci venivano immagazzinate prima di essere distribuite, gratis o a prezzo politico, alla plebe.

Il nome deriva dal termine vocabolo “hordeum” ,orzo, a indicare il loro scopo originale, ossia lo stoccaggio delle granaglie, nato a supporto delle distribuzioni frumentarie volute tribuno della plebe Caio Sempronio Gracco, nell’ultimo quarto del II secolo a.C., che furono tra le cause della sua pessima fine.

Roma ne era strapiena, dovendo mantenere una quantità industriale di scrocconi, e di ogni tipo: si andava dagli horrea candelaria, dove erano conservate le candele, all’epoca un bene primario, data la mancanza di altre fonti economiche di illuminazione, noti dal frammento 44 della Forma Urbis Severiana che permette di localizzarli sul Celio, a Nord del Balneum Caesaris, nei pressi dell’incrocio fra il Clivus Scauri e il Clivus Victoriae, agli horrea cartaria, destinati al papiro, di cui è ignota la posizione, o agli horrea piperitaria, destinati alle le spezie, adiacenti alla Basilica di Massenzio.

In alcuni troviamo la denominazione del personaggio che ne volle la costruzione, come nel caso degli horrea Galbana, ad opera del console Servio Sulpicio Galba,situati nei pressi dell’antico porto fluviale dell’Emporium e dietro la Porticus Aemilia o dal nome dei proprietari, come gli horrea Epagathiana et Epaphroditiana, visitabili ancora oggi ad Ostia antica. Gli Horrea Agrippiana alle pendici del Palatino, dove il Vicus Tuscus (la strada che prese nome dalla colonia etrusca giunta a Roma con Tarquinio il Superbo) si avvia verso il Velabro, erano una delle piazze più febbrili per l’economia, ricchissima di botteghe e imprese commerciali di ogni genere, una sorta di centro commerciale dell’epoca.

Dal punto di vista architettonico, gli horrea erano edici caratterizzati da una serie di cellae dove venivano stipati i diversi tipi di alimenti e dove alloggiavano gli schiavi incaricati della manutenzione e della custodia degli stessi magazzini. Inoltre erano dotati spesso di uno o più cortili con diversi accessi e di pozzi per l’approvvigionamento delle acque.

Oltre a quelli di uso civile, esistevano gli horrae militaria, destinata alla conservazione della salmerie per le legioni, di solito capannoni di forma allungata e con pavimento rialzato, costruiti con pareti dotate di contrafforti laterali per contenere le spinte delle granaglie stivate e tetto a doppio spiovente, riforniti tramite l’annona militaris la tassa imposta alle province per il mantenimento dell’esercito.

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Tornando a Mediolanum, l’horreum più antico, risalente all’età dei Flavi, era proprio di tipo militaria, destinato al rifornimento delle legioni destinate al presidio della Raetia, del Noricum e della Pannonia Superior. I suoi resti, conservati nei garage di un palazzo in via dei Piatti 11, accanto alla chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia, ritrovati tra il 1961 e il 1962, consistono a due tratti di mura lunghi almeno 30 metri, con le fondazioni costituite da strati di ciottoli e malta con l’alzato realizzato con un nucleo in conglomerato racchiuso tra due pareti in mattoni.

Lo sviluppo lineare delle murature scavate, assieme al loro imponente spessore ha permesso di identificare il complesso come un horreum, il cui limite meridionale doveva forse corrispondere all’attuale via Olmetto. Probabilmente ai tempi di Settimio Severo, il complesso fu monumentalizzato e forse cambiò destinazione d’uso, diventanto forse un archivio cittadino, tanto da essere decorato con una scultura bronzo, con la rappresentazione della dea Virtus o della dea Roma, trovata sotto il crollo
dei muri circostanti: potrebbe essere ricondotta alla decorazione di un carro facente parte di un gruppo scultoreo.

Parallelo a uno dei muri di via dei Piatti 11, è un selciato stradale, oggi non visitabile per questioni di sicurezza: esso è costituito da un’ottantina di basoli in pietra calcarea, probabilmente di Saltrio, di varia dimensione e forma disposti in filari orizzontali.

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Massimiano, quando rese Mediolanum capitale imperiale, per ragioni di prestigio dovette replicare le distribuzione di frumento gratuite alla plebe locale: per sua fortuna, il numero di scrocconi presenti nella città della Gallia Cisalpina era assai più ridotto rispetto all’Urbe: per cui, si limitò a realizzare un complesso di horrea situato nei pressi della cerchia muraria, circondata dal fossato che facilitava gli approvvigionamenti di merci.

Gli horrea, i cui resti sono sono stati ritrovati nell’attuale via dei Bossi, al numero civico 4, nei pressi di via Broletto, sorgevano lungo la strada diretta verso l’antica Novum Comum (Como). Le imponenti murature, messe in luce durante gli scavi del 1958 e del 1964-65, mostrano un vasto edificio rettangolare, di cui restano tratti dei muri perimetrali.

Questa struttura, larga 18 metri e lunga 68, suddivisa internamente in quattro navate da tre file di sedici pilastri, di cui quelli centrali di dimensioni maggiori; le facciate interne erano ritmate a distanza regolare dalla presenza di paraste in laterizi. A nord una muratura delimitava probabilmente uno spazio aperto collegato ad un secondo magazzino (posto ad occidente), come documentato in analoghi monumenti a Treviri e ad Aquileia.

Dal punto di vista della tecnica edilizia, ancora oggi si possono apprezzare le fondazioni murarie realizzate in strati di ciottoli e malta,su cui sorgevano le pareti rivestite in mattoni e probabilmente decorate all’esterno da arcate cieche che inquadravano le finestre.

San Giovanni in Oleo

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Superata Porta Latina, andando in direzione Centro, si incontra il tempietto di San Giovanni in Oleo, realizzato, secondo la tradizione nel luogo dove Secondo quanto narra lo scrittore romano Tertulliano (155 ca. – 230 ca.) nel De Praescriptione Haereticorum (fine del II secolo), si cercò di martirizzare san Giovanni apostolo, immergendolo, per ordine dell’imperatore Domiziano, in una vasca d’olio bollente, posta all’interno di un tempio dedicato a Diana.

Così racconta la vicenda la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine

Quando gli apostoli dopo la Pentecoste si separarono, lui [Giovanni Evangelista] andò in Asia, dove fondò molte chiese. Quando l’imperatore Domiziano venne a conoscenza della sua fama, lo fece venire a Roma e lo fece buttare in un recipiente di olio bollente, immediatamente davanti alla porta Latina: ma Giovanni ne usì illeso, come era rimasto estraneo alla corruzione della carne. L’imperatore, visto che anche così non desisteva dalla predicazione, lo mandò in esilio nell’isola di Patmo, dove nella completa solitudine scrisse l’Apocalisse

Sul luogo in cui secondo un’antica tradizione avvenne tale episodio furono erette in epoca paleocristiana, intorno al V secolo, la basilica di San Giovanni a Porta Latina ed un martiryum di forma circolare conosciuto con il nome di San Giovanni in Oleo cioè “nell’olio” con riferimento al supplizio del santo. Alcuni studiosi, anche mancano evidenze concrete, ritengono come l’edificio originale fosse in realtà un antico mausoleo pagano ristrutturato.

Il tempietto fu probabilmente restaurato intorno al XII secolo, come testimonia l’iscrizione sovrastante il suo ingresso, che ricorda le reliquie che vi erano custodite

Quivi bevve il calice del martirio Giovanni, che fu degno di scegliere i verbo del Signore. Quivi il proconsole lo fustiga con la verga e lo rade con le forbici; quivi l’olio bollente lo corrode invece di offenderlo. E quivi si conservano l’olio, la caldaia, il sangue e i capelli, che furono conservati a te, o inclita Roma!

In ogni caso, a inizio Cinquecento l’edificio doveva essere alquanto malridotto, tanto che fu ricostruito nel 1509 su commissione di Benoît Adam, prelato borgognone sceso in Italia al sguito di Carlo VIII dopo la pace di Blois e nominato Auditore di Rota da Giulio II, come ricordato dal suo motto presente su una delle porte,

“Au plaisir de Dieu”

che tradotto sta per

“A Dio piacendo”

Il progetto del tempietto è stato attribuito da vari studiosi ad Antonio da Sangallo il giovane, Baldassarre Peruzzi o Bramante. Ora, nel 1509 Antonio aveva appena cominciato il suo apprendistato nel cantiere di San Pietro ed era più noto come legnaiolo (faber lignarius) come risulta da diversi documenti e come appaltatore di piccoli lavori edili. Inoltre l’edificio non è in linea con la ricerca architettonica che all’epoca stava portando avanti Peruzzi, impegnato nei lavori della villa Farnesina di Agostino Chigi.

Per cui, pare probabile l’intervento del buon Bramante, il che potrebbe essere confermato da due elementi: da una parte, il tempietto è in linea con la ricerca architettonica che Donato aveva portato avanti a Milano, in cui più volte, ispirato da San Lorenzo, aveva affrontato il tema di edifici sacri a pianta ottagonale, come la sacrestia di Santa Maria presso San Satiro. Dall’altra, nelle sue linee generali, il tempietto riprendeva l’impostazione del sacello milanese di Sant’Aquilino, in un’ottica di recupero dell’architettura paleocristiana.

L’aspetto cinquecentesco del tempietto, dalle fonti iconografiche dell’epoca, consisteva in una chiesa ottagonale coperta a padiglione, con lesene doriche piegate sugli angoli che reggono una trabeazione con tre fasce di architrave e un fregio semplificato, senza metope e triglifi.

Probabilmente il tempietto fu già restaurato alla fine del ’500, alterando il progetto originale, e affrescato proprio nel corso della campagna di restauri apologetici degli anni della Controriforma. Non vi è alcuna menzione contemporanea riguardo agli affreschi, ma nel 1630 dovevano trovarsi in loco da qualche anno, essendo già, a questa data, quasi del tutto scoloriti. Una Visita Apostolica del 1630 testimonia poi lo stato di decadenza in cui l’intero complesso versava, con il tempietto minacciato dall’umidità.

Le cose cambiarono nel 1657, grazie al cardinale il cardinale Francesco Paolucci, nobile forlivese legato all’ambiente oratoriano ed allievo di Cesare Baronio, a cui era stato affidato il titulus della vicina chiesa di San Giovanni a Porta Latina.

Ora, nel 1596 Cesare Baronio, costretto, pena la scomunica, ad accettare il cappello cardinalizio, aveva scelto come suo titolo la chiesa dei SS. Nereo ed Achilleo proprio perché povera, diroccata e disdegnata da tutti nonostante il suo alto valore storico. Subito ne aveva intrapreso il restauro, compiendo così un’opera di rivalutazione della testimonianza del primo Cristianesimo parallela a quella eseguita con la redazione del Martyrologium.

Paolucci decise quindi di imitare il maestro, facendo le cose in grande: per prima cosa, affidò i lavori di restauro di San Giovanni in Oleo a Borromini, che nel mettere mano al progetto, si ispirò alla Torre dei Venti di Atene.

L’architetto barocco si dedicò a modificare la copertura a cupola a padiglione, aggiungendo un tamburo, che decorò con un fregio a stucco con festoni di rose e palme, ispirato alla decorazione che aveva realizzato per il fregio del Battistero Lateranense. Sopra al tamburo poggiò poi una copertura conica terminante con 8 foglie di palma ritorte e gigli, un globo di sei rose (emblema della famiglia del committente ), e una croce. Nel 1967 la cuspide fu sostituita da un calco a tasselli in gesso dall’architetto Paolo Marconi e l’originale fu posto sotto il portico della chiesa di S.Giovanni a Porta Latina, dove tuttora si trova. Infine, per celebrare papa Alessandro VII, pose sopra l’ingresso ingresso che si apre verso porta Latina lo stemma papale e un’iscrizione celebrativa.

Terminato il restauro del Borromini, Paolucci si occupò anche dell’interno, commissionando nel 1661 a Lazzaro Baldi, talentuoso allievo di Pietro da Cortona, un ciclo di affreschi dedicato alle storie di San Giovanni.

Un ulteriore restauro fu poi commissionato alla fine del Seicento da Stefano Augustini, cardinale titolare di S.Giovanni a Porta Latina a un ignoto architetto, che diede al tempietto l’aspetto attuale.

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Il Terzo Progetto di Bramante

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Giulio II, ricevuti il progetto e la relazione di Sangallo, la lesse, la rilesse, se la fece spiegare, per poi correre come una furia da Bramante, per sbattergli tutto sotto il naso, minacciandolo, se non avesse dato delle risposte rapide e concrete alle obiezioni del rivale, di cacciarlo a pedate.

Donato si tolse il cappello, si grattò il capo e cominciò a studiare l’elaborato di Sangallo. Da persona intelligente quale era, si rese conto di come il rivale avesse ahimè ragione e partendo dalle sue riflessioni del fiorentino, cominciò ad elaborare una terza versione del suo progetto di San Pietro. Per prima cosa, studiò la pianta sangallesca, riprendendone l’idea dei massicci piloni portanti, in cui si concentrava tutta la massa, prima distribuita in tutta la superficie muraria del suo precedente progetto, che avrebbero retto senza alcun problema la monumentale cupola.

In più, essendo staticamente autonomi, che potrebbero sostenersi anche indipendentemente dal resto dell’edificio, ne permettevano una costruzione modulare, in modo che il Papa, a differenza del progetto precedente, potesse sempre continuare a celebrare messa.

L’adozione dell’approccio sangallesco però, non fu indolore, da parte di Bramante, dato che lo costrinse a rimettere in discussione tutti gli assunti progettuali precedenti. Per prima cosa, le scale o rampe a chiocciola, che nel Progetto 2 si trovavano nella periferia della struttura, furono spostate all’interno dei piloni centrali, per poter servire già nella prima fase della costruzione. Poi, il rafforzamento dei piloni fece crescere la pianta intera, al fine di ottimizzare la ridistribuzione del loro carico statico; qui però, venne al pettine il primo nodo. La nuova planimetria era vincolata dalla presenza del coro del Rossellino, che non poteva essere alterato, essendo destinato al mausoleo papale; per cui, San Pietro non potendo avere un’abside più ampia di quella prevista dal progetto e dalle fondamenta del Quattrocento, dovette essere dotato di una navata assai più lunga di quella inizialmente prevista da Bramante, dando così origine a un edificio basato su un’asse longitudinale.

Ora, l’idea base del Progetto 2, che semplificando era riconducibile all’anteporre una navata a un organismo centrale a quincux, dinanzi a questa nuova scala dimensionale, risultava inadeguato. Bisognava ripensare il tutto.

Per prima cosa, concepì il motivo delle colonne gigantesche da porre davanti ai piloni, che avrebbero modulato il ritmo spaziale nelle navate, sia poste ad anello tutt’attorno il vano centrale, del quincux. Ritmo che sarebbe stato ulteriormente ampliato dall’alternanza di pieni e vuoti ottenuta con le nicchie di 40 palmi.

Poi tentò di coniugare la spazialità centripeta della grande cupola impostata su pilastri diagonali con le esigenze di una basilica a pianta longitudinale, adattando le cappelle minori della crociera a usi liturgici con altari liberi e, ispirato dal progetto di Fra Giocondo, impiegando i deambulatori come elemento di unificazione spaziale, nell’ottica della moltiplicazione dei fuochi prospettici all’interno della crociera.

Questo passaggio, espressione secondo Arnaldo Bruschi della “grande maniera” di Bramante nota, si sostanzia attraverso il confronto e la libera interpretazione di modelli sui quali la critica si è a lungo soffermata: prototipi romani come la Basilica di Massenzio e i complessi termali, ma anche esempi bizantini e gotici, assimilati e riletti da Bramante in chiave eclettica nota e tradotti infine in una pianta composta, che è stata definita come “la forma critica” dell’architettura del Rinascimento.

Magna Mater

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Nel 204 a.C. il Senato decise di introdurre a Roma un nuovo culto, associato alla dea anatolica Cibele, versione locale della Potnia Theron, che simboleggiava la forza creatrice e distruttrice della Natura. Decisione motivata da un’insieme di fattori: mettere pace tra Patrizi e Plebei, sovrapponendo ai loro culti gentilizi di Cerere e Flora, le cui feste spesso degeneravano in tumulti, uno meno divisivo, basato su una figura divina analoga e super partes.

A questo tentativo di costruire un’identità civica comune, ancora più necessaria data la presenza di Annibale in Italia, si associavano esigenze di politica estera, la giustificazione ideologica all’espansione verso l’oriente anatolico, il luogo da cui Roma, con la costruzione della leggenda di Enea come ecista, faceva derivare le proprie origini; infine costituiva un pegno dell’alleanza del regno pergameno con Roma in funzione anti-macedone, dato che Filippo V si era schierato con Cartagine.

Attalo di Pergamo non aveva nessun problema a trasferire da Pessinunte a Roma il simbolo della dea, una pietra nera di forma conica, forse un meteorite, ma temeva la protesta dei fedeli locali: per vincere la loro opposizione, gli ambasciatori romani inventarono una sceneggiata, degna di Totò e Peppino o di Fra Cipolla, in cui fecero ehm “parlare” durante un sacrificio il simulacro di Cibele, ovviamente affermando il suo desiderio di trasferirsi nell’Urbe.

Quando il 4 aprile il simulacro giunse a Ostia venne affidato a Nasica, un rappresentate della famiglia degli Scipioni, che lo trasportò a Roma dove in attesa che venisse costruito un opportuno tempio, fu provvisoriamente posizionato al tempio della Vittoria. Il motivo era duplice: da una parte ribadire il connubio tra le origini mitiche di Roma e la sua propensione al dominio, richiamando nuovamente l’esaltazione di un nuovo ordine politico e la giustificazione religiosa all’espansionismo attraverso la vittoria militare, dall’altra dimostrare come Cibele non fosse un corpo estraneo nel pantheon latino.

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Di fatto, anche se marginale rispetto all’Ellade, anche tra i Prisci Latini vi era un culto della Potnia Theron, nella figura di Iuno Sospita, ossia “propizia”, la cui statua era ricoperto di un vello di capra. Il suo culto era estremamente arcaico: il buon Properzio racconta come nel suo tempio di Lanuvio si svolgesse ogni primavera un particolarissimo rito propiziatorio per l’agricoltura, durante il quale un gruppo di fanciulle vergini doveva offrire focacce ad un grosso serpente, che si trovava dentro un antro. Se il serpente accettava il dono, si prospettavano raccolti fruttuosi; se lo rifiutava, una fanciulla impura, cioè colei che aveva perduto la verginità, veniva sacrificata per scongiurare la carestia.

Tornando a Cibele, l’anno dopo l’arrivo a Roma della sua pietra sacra, Annibale se ne tornò in Africa: ciò spinse, almeno così racconta Livio, censori Livio Salinatore e Claudio Nerone a iniziare i lavori per un suo tempio, per grazia ricevuta, proprio accanto alla Casa Romuli. I lavori terminarono il 191 a.C., quando fu inaugurato dal pretore pretore Giunio Bruto. Per fare digerire il tutto alla fazione più conservatrice del Senato, il pretore non dedicò il tempio a Cibele, ma a un suo attributo, la Grande Madre, latinizzato in Magna Mater.

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Il tempio, probabilmente dotato di una pianta pseudodiptera, in cui le colonne perimetrali erano sostituite da semi-colonne addossate al muro della cella, era costruito in opera quadrata ed emergeva da un ampio podio, preceduto da una scalinata alta e larga quanto il fronte, che lo metteva in comunicazione anche con una vasca quadrangolare posta nell’angolo sud-est. L’altezza della scalinata di dimensioni eccezionali nel panorama dei templi contemporanei e anche della successiva età repubblicana, era dovuta sia al livello più basso della platea antistante al podio, sia a una caratteristica del culto della dea, di cui parlerò poi.

Durante il consolato di Publio Scipione e Lucio Calpurnio, un incendio distrusse il tempio della Magna Mater e parte dell’area circostante. Sulle informazioni fornite da un passo di Ovidio si può attribuire la ricostruzione ex manubis, suggellata da una nuova dedica nel 101 a.C., ad opera di Cecilio Metello Caprario, console nel 113 a.C., che festeggiò il trionfo sui Scordisci ex Thracia nel 111 a.C. Una seconda ipotesi su chi si impegnò nella ricostruzione del tempio di Cibele, più attendibile rispetto a quella di Caprario, identifica il benefattore in Metello Numidico, console nel 109 a.C. e trionfatore nella guerra giugurtina del 106 a.C., poi censore nel 102 a.C. insieme a Caprario.

I lavori di rifacimento, successivi all’incendio, assunsero caratteri architettonici monumentali e non si limitarono al solo tempio della Magna Mater, che ebbe una ricostruzione delle fondazioni in opera cementizia del podio, ma riguardarono anche il limitrofo tempio della Vittoria e il cosiddetto Auguratorium,il luogo dove i sacerdoti incaricati di prendere gli auspici prima di un importante evento (auguri) osservano il volo degli uccelli, stando rivolti verso sud-est.

Il nuovo tempio della Magna Mater (17,10 x 34,30 m) si presentava con una pianta periptera e sine postico, con doppio colonnato esastilo sul fronte e con nove colonne sui fianchi più i pilastri alle estremità del muro di fondo. Era stato eretto secondo modelli che fondevano le tradizioni dell’architettura medio-italica nell’alto podio e quella greco-ellenistica nella pianta, il cui rapporto tra il pronao e la cella era 1 : 2. Il podio era rivestito con lastre di peperino ed era distinto in due parti: una grande struttura perimetrale a forma di rettangolo allungato, entro cui ne era iscritta un’altra corrispondente al perimetro interno della cella e funzionale al sostentamento del basamento di un colonnato su tre lati.

Il nuovo edificio venne direttamente sovrapposto alle strutture della prima fase edilizia sopravvissute all’incendio consistenti in una serie di grandi terrazze comunicanti tra loro e sviluppate in successione da ovest verso est, che non furono rimosse, sulla cui sommità si ergeva il podio del tempio originario. Anche i settori sud e ovest del santuario furono ristrutturati integralmente e la gradinata di accesso al tempio della Magna Mater fu demolita e in parte obliterata.

Parte integrante del tempio, sia nella prima che nella seconda fase, fu inoltre la presenza di una vasca per scopi rituali. Nella prima fase del santuario era collocata nell’angolo sud-est della scalinata, incuneata tra l’angolo a sud-ovest del podio del tempio della Vittoria e l’estremità orientale della scalinata della Magna Mater. Nella seconda fase con la ridefinizione architettonica, la vasca in opera quadrata e le relative scale di accesso furono obliterate.

Al centro del lato di fondo spiccava il basamento della statua di culto in cui una pietra nera era stata inserita al posto della testa. La statua, seduta su un trono, manca della testa e delle braccia, che reggevano gli attributi. Veste un chitone e un mantello che ricopre il braccio sinistro e la parte superiore delle gambe, sotto il seno presenta una cintura. La parte posteriore è liscia mentre il tronco è lavorato, e due grandi fori sulla schiena indicano la presenza dei tenoni destinati ad ancorarla alla parete retrostante. Il modello figurativo più vicino a questa statua di culto è stato identificato in un’altra scultura di Cibele proveniente da Pergamo, la cui cronologia è fissata al II secolo a.C.

Fu obliterata anche la gradinata inferiore di accesso al tempio, risalente alla prima fase, mentre il clivius Victoriae e la zona a sud vennero abbassati di livello per poter collocare le sostruzioni della nuova platea, antistante agli edifici di culto. Questo percorso fu trasformato in una vera e propria via tecta, per una lunghezza di 40 m, di cui a nord si avevano ambienti ortogonali e a sud un ambulacro. L’aspetto del santuario palatino fu marcatamente ridefinito, e ciò che più lo caratterizzava era la sopraelevazione della platea, trasformata in un’ampia piazza aperta di fronte ai templi.

Il tempio della Magna Mater subì un nuovo, anche se parziale, restauro in epoca augustea, quando il culto divenne ufficiale e pubblico, conclusosi nel 3 d.C., quando fu nuovamente dedicato. I lavori interessarono parte dell’elevato della cella, le colonne, i capitelli, la decorazione architettonica e il tetto. Anche durante l’epoca augustea il tempio conservò il suo aspetto tradizionale, ovvero prostilo, esastilo con due colonne sui fianchi del pronao, piuttosto ampio, essendo di poco più piccolo della cella. Come è noto dal rilievo di Villa Medici, nel frontone non era rappresentata direttamente la Magna Mater ma il suo trono con una corona turrita, in modo da richiamare la dea nella sua accezione di protettrice dell’Urbe.

Nella prima fase del tratto sud erano presenti vasche tardorepubblicane, poi occultate durante la costruzione del colonnato del portico, in un progetto che prevedeva il rialzamento dell’area destinata al portico e alla corte fra questo e il tempio. Questa fase probabilmente è da attribuirsi all’epoca augustea. Il restringimento della lunghezza del portico, terminante a sud con un braccio allineato sulla divisione tra cella e il pronao del tempio, è da datare invece in epoca severiana. Gli ultimi interventi edilizi del santuario sono costituiti da un’ulteriore trasformazione degli ambienti limitrofi alla via tecta, che a partire dal III secolo furono la sede di piccole vasche, probabilmente fullonicae a nord e un impianto termale a sud, che ben si prestava ad ospitare un balneum.

Una peculiarità del culto di Cibele alias Magna Mater erano i ludi scaenici recitati in occasione della festa della Megalesia, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia della letteratura romana, dato che vi esordirono molte commedie di Plauto e Terenzio. Gli spettatori assistevano alle rappresentazioni teatrali seduti sulla scalinata del tempio, utilizzandola come cavea di un teatro, e probabilmente anche negli spazi laterali. Proprio per soddisfare tale esigenza, era stata sovradimensionata: tenendo in considerazione l’articolazione in due rampe della scalinata e dei posti negli spazi laterali si è calcolato che la struttura poteva ospitare un numero di circa 1500 spettatori e un centinaio di tubicinarii, i suonatori di trombe. Può sembrare strano, ma le commedie latine erano più simili a un nostro musical, che a uno spettacolo di prosa.

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In questi giorni, poi, vi era la grande festa in onore di Cibele e di suo figlio Attis. Le celebrazioni iniziavano il 15 marzo, quando una processione, detta Canna intrat (“Entra la canna”), raggiungeva il tempio di Cibele sul Palatino. I partecipanti erano i “cannofori”, che portavano al tempio fusti di canne, allo scopo di commemorare l’esposizione di Attis bambino in un canneto. Si ritiene che questa cerimonia sia collegata ad antichi rituali propiziatori della pioggia di àmbito agricolo.

I sette giorni seguenti la Canna intrat venivano considerati di espiazione, ed erano noti come Castus Matris (“Digiuno della Madre”). Il 22 marzo avveniva la processione dell’Arbor intrat (“Entra l’albero”), celebrante la morte di Attis. Quel giorno si tagliava il pino, simbolo del dio, se ne fasciava il tronco con sacre bende di lana rossa, lo si ornava di viole e strumenti musicali e sulla sua sommità si ponevano le effigi del dio giovanetto. L’albero veniva portato dai “dendrofori” fino al tempio di Cibele, dove avveniva la commemorazione funebre di Attis.

Il 24 marzo era il Sanguem, o anche Dies Sanguinis: iniziavano le cerimonie funebri e i fedeli culminavano il compianto per la morte di Attis. L’arcigallo, il gran sacerdote, si tagliava le carni con cocci e si lacerava la pelle con pugnali per spargere sull’albero-sacro il sangue che usciva dalle ferite, in ricordo del sangue versato dal dio da cui nacquero le viole. Il gesto veniva imitato dagli altri sacerdoti, poi gli uomini che seguivano la scena iniziavano una danza frenetica e nell’eccitazione sguainavano le spade per ferirsi. Il pino decorato veniva chiuso nel sotterraneo del tempio, da cui sarebbe stato rimosso l’anno successivo. La notte era poi passata nella veglia.

Il giorno seguente, 25 marzo, il dio era risorto: si celebravano allora le feste chiamate Hilaria e per le strade vi erano cortei gioiosi. In epoca imperiale le celebrazioni prevedevano una processione della statua di Cibele. La particolarità di questo giorno di festa era il permesso di dare vita a qualsiasi forma di scherzo o gioco, con la predilezione per il mascheramento. Ad ognuno era permesso assumere l’identità e l’aspetto di ciascuno, persino di appartenenti ad alte cariche pubbliche come i magistrati.

Erodiano narra di un complotto preparato da Annia Lucilla, sorella di Commodo, con l’aiuto del prefetto Tarrutenio Materno contro l’Imperatore proprio durante queste festività. Secondo Erodiano il complotto prevedeva che Materno ed i suoi seguaci si travestissero da membri della Guardia Pretoriana per poi mescolarsi a quella vera e propria, fino ad arrivare alle stanze di Commodo ed ucciderlo. Ma uno dei complici di Materno rivelò anzitempo il complotto, “preferendo un imperatore legittimo ad un tiranno usurpatore”, secondo le parole di Erodiano. Il giorno degli Hilaria tutti i cospiratori furono catturati e l’Imperatore Commodo sacrificò alla dea Cibele affinché non fosse più minacciato da cospirazioni.

Dopo un giorno di riposo, il Requetio, il 27 marzo giungeva il momento della Lavatio (“Abluzione”) della statua di Cibele. La statua della dea, che recava incastonata nella testa la pietra giunta da Megalesia nel 204 a.C., veniva messa su un carro e portata fino al fiume Almone e spinta nel fiume: qui l’arcigallo lavava la statua, asciugandola e cospargendola di cenere. Canti e danze riaccompagnavano la statua al Palatino.

L’Initium Caiani era la cerimonia di iniziazione ai misteri di Attis, che veniva praticata il 28 marzo. L’iniziazione veniva praticata in un santuario frigio situato sul colle Vaticano, fuori dalle mura cittadine. Gli iniziandi consumavano un pasto negli strumenti musicali, cimbali e timpani. Poi veniva una processione, in cui veniva portato il “kernos”, un cratere contenente dei lumi. Infine avveniva una ierogamia, in cui gli iniziati, identificandosi con Attis, celebravano le nozze mistiche con la dea Cibele.

Museo archeologico La Civitella

L’acropoli di Chieti, i cui edifici erano situati accanto a alla diramazione della via Tiburtina Valeria che permetteva di raggiungere la città di Teate Marrucinorum, probabilmente svolgeva un ruolo sacrale già nei tempi preromani, in cui poteva esistere, come in altre località abruzzesi, un santuario dedicato alle divinità locali che proteggevano la pastorizia, la transumanza e il commercio lungo i tratturi.

In epoca repubblicana, intorno al II secolo a.C., questo santuario fu monumentalizzato, con la costruzione di tre templi di tipo italico, decorati con statue a frontone e lastre di rivestimento di raffinata fattura. Della struttura relativa a uno di questi, di cui sono state rinvenute parte delle fondazioni realizzate in calcestruzzo, si desume che potrebbe essere orientato a Nord-Est, col fronte verso la chiesa di Santa Maria. Il tempio era composto da tre celle a doppio colonnato anteriore, ed aveva misure standard per i canoni romano-italici del periodo era costruito su un podio agibile mediante una scalinata posta frontalmente che faceva arrivare nel pronao con colonnato che a sua volta immetteva nelle celle

Degli altri edifici non si conosce quasi nulla, se ne ipotizza l’esistenza sulla base di complessi decorativi che sembrano appartenere ad altri due templi, e ad altre edicole votive. Probabilmente i tre edifici principali trovavano posto l’uno accanto all’altro con il fronte allineato lungo la viabilità dell’Acropoli della Civitella.

A causa del dissesto idrogeologico dell’area, che minacciava di franare a valle, in epoca cesariana, i templi furono demoliti, le decorazioni riposte o per motivi sacrali o in attesa di un successivo riutilizzo in una fossa, in cui furono rinvenuti a metà anni ’60 durante i lavori di costruzione della palestra dell’Istituto Magistrale “Isabella Gonzaga” e fu costruito un porticus, per reggere la collina.

I torbidi successivi alle idi di marzo, interruppero però i lavori di recupero urbanistico dell’area, che ripresero in età augustea. I templi furono ricostruiti in un’area adiacente a un pozzo sacro, compresa tra Largo Marco Vezio Marcello e l’ex Largo del Pozzo, oggi Piazza Valignani, più stabile dal punto di vista idrogeologico.

Il promotore dei lavori fu il console Marco Vezio Marcello: sappiamo come nella nuova area sacra, il tempio principale fosse dedicato ai Dioscuri. Tempio di cui, grazie alla trasformazione nel VI secolo nella chiesa cristiana dedicata a San Paolo, sappiamo come fosse a pianta rettangolare con architrave triangolare. Al centro della facciata vi è una finestra. La parte del basamento è stata conservata nelle forme originali.

Il tempio dei Dioscuri era affiancato da altri due, anch’essi trasformati in chiese, , ma non conservatisi abbastanza integri sino ad oggi, dato che rimangono solo frammenti di colonne, e poi aveva un altro tempio provvisto di pozzo sacro, sopra cui negli anni ’30 fu costruito il Palazzo delle Poste

L’Acropoli quindi, a seguito di questo trasloco cambiò destinazione d’uso, diventando il luogo dedicato agli spettacoli: vi furono infatti costruiti sia un anfiteatro, sia un teatro.

L’anfiteatro misurava 60×40 metri, ricavato lungo le pendici orientali del colle, era direttamente collegato con la viabilità cittadina a nord, e con quella extraurbana a sud, per la posizione periferica e per la tipologia, trova stretti confronti con l’anfiteatro di Alba Fucens. L’edificio aveva la pianta ellittica e fu realizzato, per risparmiare tempo e denaro, sfruttando al massimo la conformazione naturale del terreno: l’arena, il campo centrale in terra battuta, fu adattata sbancando una piccola parte della collina; sagomando i pendii di questa furono ricavate tutt’intorno le gradinate della cavea, semplicemente rivestita in pietra, dove prendevano posto gli spettatori.

I due vomitoria, collocati lungo l’asse maggiore dell’edificio, furono invece ottenuti tramite una notevole opera di sbancamento, e come normale prassi della costruzione degli anfiteatri romani, erano utilizzati uno per l’accesso della popolazione locale a nord, e l’altro per i forestieri a sud. Nella caratteristica opus reticulatum bicroma con ricorsi del laterizio, furono realizzati il podium ossia il muro che delimita l’arena, la tribuna sul lato occidentale dell’ellisse, e i muri che contenendo il terreno del colle, venivano a definire i due articolati sistemi di accesso.

Il teatro aveva la cavea in parte posta sulle pendici del colle della Civitella e in parte coperta da volte a botte ed era composto da due livelli come dimostra parte del corridoio semicircolare che sbarrava il piano sovrastante.Gli spalti potevano contenere circa 5000 spettatori. Il teatro misurava circa 80 metri di diametro. L’ingresso principale immetteva in una salita a gradoni sostituita dal Vico II Porta Reale, così ci si immetteva in un corridoio che era posto sopra la cavea, verosimilmente concluso da dei giochi di archi.

In epoca tardo antica, il quartiere degli spettacoli fu abbandonato: il teatro fu utilizzato come cava per l’estrazione di materiale edilizio e sulla su struttura furono edificati una serie di palazzi. L’anfiteatro fu utilizzato sia necropoli, come documentato dal ritrovamenti di stoviglie di produzione africana, usate per veri e proprio banchetti funebri, sia per attività artigianali, come dimostra una fornace risalente all’VII secolo.

Successivamente, l’acropoli fu utilizzata come sede del mercato, tanto che l’area assunse il toponimo “Fiera”. In epoca rinascimentale la zona fu occupata dal convento dei Celestini, tanto che l’anfiteatro fu utilizzato come orto.

In epoca borbonica, per decisione del Generale Giuseppe Salvatore Pianell, il convento divenne una caserma, trasformando il resto della zona in Piazza d’Armi; successivamente, per le ironia della storia, la zona tornò ad assumere il suo ruolo ludico, dato che vi fu costruito sopra lo stadio comunale “Civitella”.

Nel 1982 durante dei lavori di costruzione del nuovo acquedotto, si scoperse sotto lo stadio l’anfiteatro romano, pertanto lo uno nuovo venne costruito a Chieti Scalo, lo Stadio Angelini, e iniziarono i lavori di scavo dell’anfiteatro, terminati nei primi anni 2000. Tra il 2008 e il 2014 fu poi realizzato Il museo archeologico “La Civitella”, su progetto dell’architetto Ettore De Lellis, già progettista del Museo Paludi di Celano.

La struttura museale odierna, che in parte è sita in piani sotterranei, è parte integrante di un complesso con giardini, zone pedonali, un auditorium, un laboratorio archeologico, ambienti per attività ludiche e didattiche ed un ambiente per mostre temporanee.

L’esposizione permanente è così strutturata:

L’inizio della storia urbana. In questa sezione vi sono i ruderi di età repubblicana (III-II secolo a.C.) tra cui dei frontoni in terracotta riferibili ad un tempio del II secolo a.C.
Lungo il corridoio che conduce alla Sala dei Templi, è visibile una sequenza di antefisse dell’Artemide Persiana e di Ercole seduto su roccia. All’interno del percorso sono stati ricomposti tre splendidi frontoni in terracotta policroma del complesso templare che sorgeva sull’acropoli della Civitella, più uno del gruppo dei Tempietti del nuovo Foro Romano (Piazza Tempietti). Del primo frontone relativo al Capitolium dell’antica Teate è stato possibile ricostruire 11 personaggi, al centro la Triade Capitolina a destra Mercurio che guida le Ninfe, a sinistra Marte armato e poi Apollo nudo. Il secondo frontone mostra al centro un uomo, identificabile come Giove, ai lati i Dioscuri accompagnati da Venere e la sorella Elena. Nel terzo frontone sono collocati al centro Apollo affiancato dalle Muse, negli angoli Bacco ed Ercole seduti.

Da Roma a ieri. Questa sezione è suddivisa secondo le seguenti tematiche: il Foro, il Teatro, l’Anfiteatro, le Terme, e le Necropoli. I materiali che documentano la città romana e il suo sviluppo illustrano il percorso, organizzato per aree monumentali,, il Foro, il Teatro, l’Anfiteatro, le Terme e la Necropoli di Teate. Molti manufatti ricevono nuova vita all’interno di ricostruzioni in scala 1:1, vivacizzate da filmati, suoni e luci a effetto; nello spazio dedicato alla vita pubblica sono presente due ritratti in marmo di Augusto e Tito. Dal Foro invece provengono il ritratto di un sacerdote, un monumento di Iside, parti del gruppo di statue di Serapide, e il cane Cerbero. Nelle dimore patrizie, notevoli sono gli arredi marmorei; nelle sale dedicate al teatro e all’anfiteatro si possono osservare i resti archeologici provenienti dagli scavi degli anni ’20 e ’30. L’edificio termale mostra marmi policromi che decoravano gli ambienti, ed è presente una testa, forse di una Musa. Nell’area dedicata ai culti funebri è sistemato un grande monumento, nel fregio è visibile il combattimento tra gladiatori e nel timpano un certo Lusius Storax, libero al quale era dedicato il monumento, che assiste allo spettacolo, circondato da magistrati teatini e dal popolo. Nel vano della porta è possibile osservare lo stesso ritratto del liberto.

Monumento funebre di Lucio Storace un sepolcro a tempietto della prima età imperiale, è composto da due rilievi, fregio e frontone. Sul fregio è raffigurato con notevole vivezza un gladiatorio che il ricco Lucio doveva aver offerto in occasione della sua elezione, vi sono raffigurati gladiatori e incitatori in varie pose, dal saluto alla preparazione, alla lotta, alla vittoria o sconfitta, come se si trattasse di una scena unica, anche se in realtà varie operazioni seguivano una precisa sequenza. Il desiderio del committente doveva essere soprattutto quello di far documentare la sontuosità di questi combattimenti a Teate. Il fondo è neutro e i dettagli sono ben curati; ciò ha fatto pensare a un’ispirazione diretta da modelli di Roma. La scena del frontone, realizzata a bassorilievo, è più affollata e si propone di raffigurare il momento dell’investitura di Lusius Storax. ci sono due piani sovrapposti, in basso a sinistra in primo piano si trova il sedile con tre giovani, tre camilli, che simboleggiano l’avvenuto sacrificio connesso con l’investitura; il centro è occupato dal tribunale con al centro Storax e ai lati due bisellia, ossia sedili onorari romani, su cui siedono i quattuorviri. A destra simmetricamente ai tre camilli, si trova un uomo con bastone, un augure. Il secondo piano ha come sfondo un colonnato, molto probabilmente il foro di Teate, le figure in secondo piano sono 11 personaggi togati, all’estrema sinistra sempre in secondo piani, una scena di zuffa con quattro personaggi, forse una documentazione di un tumulto popolare avvenuto durante il combattimento.

La Terra dei Marrucini. In questa sezione espone reperti provenienti dalla media e bassa vallata del Pescara. un grande arazzo illustra l’area attraversata a nord e sud dal fiume Aterno, da Popoli (allora Pagus Fabianus) sino a Ostia Aterni (Pescara), si possono vedere nelle teche reperti in pietra scheggiata risalenti a 400.000 anni fa, manufatti in ceramica datati al Neolitico, oggetti votivi offerti agli Dei, e molto altro. Strumenti dell’età della Pietra e ceramiche del villaggio di Catignano (PE), trindoducono alla sezione dedicata alla Grotta di Bolognano (PE), una delle cave dove sono stati rinvenuti moltissimi reperti dell’età preistorica e neolitica d’Abruzzo. L’età del Ferro è documentata da bronzi e armi provenienti da Villamagna (CH), Guardiagrele e Pretoro (CH); le fasi precedenti alla fondazione della Teate Marrucinorum sono documentate da materiali esposti nel settore “Prima di Teate”, tra i quali l’elmo gallico e balsamario a testa di donna.

Il primo museo archeologico. Questa sezione mostra materiali che ripercorrono la storia di questo museo dalle collezioni di fine XIX secolo fino alla realizzazione di un Antiquarium Teatinum avvenuta nel 1938, ovverosia del nucleo originario di questo stesso museo. Le collezioni si compongono di lucerne, selci, statuette votive, accumulate nel tardo Ottocento e nei primi anni del Novecento, che provengono non solo da Chieti, ma anche dai centri della sua provincia.