Dopo parecchie riflessioni, Bramante concepì il suo primo progetto di San Pietro, quello noto ai più, dato che viene descritto, in maniera più o meno accurata, nei manuali scolastici: una basilica a pianta centrale, con quattro lunghe braccia di croce e cinque cupole disposte a quincunx, come i cinque punti sui dadi da gioco, con quella centrala dominare su tutto.
Di fatto, realizzava un martyrium funebre dedicato al primo Vescovo di Roma e al suo successore Giulio II, che all’esterno poteva apparire come tholos periptera cupolata, come Caradosso, con un poco di fantasia, la rappresentò nella sua famosa medaglia commemorativa.
Progetto che nasceva come tentativo di dare una risposta sensata a una serie di richieste, a volte contraddittorie, che erano emerse nei mesi precedenti, a cominciare dai requisiti imposti dal committente Giulio II, ossia massima valorizzazione della confessione pietrina e riutilizzo, per risparmiare tempo e denaro, di quanto costruito nel Quattrocento.
Se facciamo coincidere l’abside del progetto bramantesco U1 A, il più antico, con il coro del Rossellino, salta subito all’occhio come la tomba di San Pietro e l’altare maggiore fossero nella stessa posizione che avevano nella basilica costantiniana. Da una parte, ciò rispettava le esigenze liturgiche della corte papale, dall’altra, a differenza del Progetto 0, non essendo necessari “traslochi” di sorta, evitava la necessità di dovere riconsacrare di nuovo la Basilica.
Inoltre, dal punto di vista strutturale, rappresentava un ottimo compromesso: permetteva sia di riutilizzare il coro, costruito parzialmente, e le fondamenta quattrocentesche si di ottimizzare l’ubicazione dei piloni della cupola.
Secondo, il progetto, come il procedente, si poneva in perfetta continuità con la ricerca architettonica compiuta sino ad allora da Bramante, che, a Milano, aveva studiato a fondo le problematiche statiche ed estetiche connesse agli edifici a pianta centrale. Ricerca dovuta, oltre che alle paturnie della committenza sforzesca, al confrontarsi con la tradizione locale: se a Roma, il recupero dell’ architettura paleocristiana era associato alla pianta basilicale, nella Lombardia, data anche la presenza di edifici come San Lorenzo o Sant’Aquiro a Milano o il Duomo vecchio a Brescia, era invece connesso a quella centrale. Inoltre, nella sua lunga carriera, Donato si era spesso confrontato sia con la trattatistica di Filarete, sia con i disegni di Leonardo, che avevano sviscerato, in modalità differenti il tema del quincux.
Terzo, la proposta rispondeva ai desiderata della fazione della Curia, capeggiata da Egidio da Viterbo, che si era fatta in quattro per fare affidare l’incarico a Bramante e che era intellettualmente intrisa di neoplatonismo.
Il loro punto di riferimento, in ambito architettonico, era ancora il buon vecchio Leon Battista Alberti, che nel VII libro del De Re Aedificatoria, dedicato alla costruzione degli edifici sacri, aveva mostrato apprezzamento per la tipologia basilicale, ma aveva anche escluso il fatto che potesse utilizzata nelle chiese, data la sua origine profana, da tribunale.
Per questo il tempio cristiano doveva avere una pianta centrale, derivata dal cerchio, che la Natura e Dio l’avevano adottata sia nel Macrocosmo, sia nel Microcosmo. Come nel Timeo di Platone, questo era considerato la forma geometrica perfetta, dato che qualsiasi punto della circonferenza risultava essere equidistante dal centro; un’osservazione portata alle estreme conseguenze da Niccolò Cusano, il quale aggiunse come nell’infinito cerchio o nella sfera infinita, centro, diametro e circonferenza sono sostanzialmente coincidenti.
Benché Bramante non potesse soddisfare le aspettative dei suoi amici, una versione colossale di Santo Stefano Rotondo l’avrebbe fatto cacciare a pedate dal Papa e sostituire seduta stante da Giuliano da Sangallo, cercò in qualche modo di andare loro incontro.
Infine, il quincux era anche un tentativo di arruffianare Giulio II e il suo parentado. Per spiegare questa affermazione, dobbiamo fare un piccolo passo indietro. Bessarione, dopo la nomina a cardinale ottenuta papa Eugenio IV il 18 dicembre 1439, con il Titolo dei Santi XII Apostoli, si dedicò con entusiasmo al restauro della basilica romana, recuperando l’originale struttura risalente ai tempi di Giustinano, che aveva una struttura a triconco, con le absidi dotate di deambulatori.
Restauro che aveva dato ai Riario e ai Della Rovere la possibilità di creare il loro coro mausoleo, che Giulio II aveva deciso di replicare a San Pietro: con il quincux, che è un triconco dotato di cupole, il Papa avrebbe avuto la sua versione monumentale dei XII Apostoli.
Per soddisfare tutte queste pretese, che avrebbero mandato ai pazzi un artista meno dotato, Bramante, introdusse una sorta di rivoluzione copernicana dell’architettura rinascimentale, troppo spesso sottovalutata.
Invece di progettare una chiesa sopra alla quale porre una cupola, come avrebbe fatto Brunelleschi o lo stesso Giuliano di Sangallo, Bramante rovesciò i termini del problema: il suo Progetto 1 è una cupola, gigantesca, assertiva, immane, da cui si emana il corpo stesso della Basilica, in cui le masse murarie sono distribuite secondo un armonico sistema a cascata di volte che indirizza carichi e spinte, progressivamente frazionati, dall’alto verso il basso e dal centro verso l’esterno: ogni elemento murario, ogni spazio vuoto – anche il più periferico e subordinato – ha il suo specifico ruolo di sostegno statico.
Affinché tutto si reggesse in piedi, Bramante concepì progetto basato sulla contrapposizione dinamica di masse, per ricercare l’equilibrio attraverso l’aumento degli spessori di muri e volte in reciproco contrasto di spinta e controspinta, di peso e contrappeso.
Per realizzare tutto ciò, l’artista, studiando a fondo l’architettura romana, decise di riutilizzare in grande stile il calcestruzzo, che avrebbe permesso, ad esempio, di realizzare le grandi volte a botte dei bracci della croce : di conseguenza, i suoi muri non sono leggiadri e snelli, come quelli dell’architettura fiorentina, ma masse tozze e informi, la cui pianta deriva in negativo dalla sottrazione delle cavità degli spazi interni; la geometria non serve perciò a disegnare delle strutture piene, come facevano Leon Battista Alberti o Francesco di Giorgio Martini, ma a scavare dei vuoti in una massa muraria virtualmente piena, quasi fosse un blocco di argilla. Di fatto, Bramante, che probabilmente in vita sua non aveva mai tenuto in mano uno scalpello, concepisce, in maniera assai più spinta di Michelangelo, l’architettura come massima espressione della scultura.
Ma come si sarebbe retta in piedi la colossale cupola, più grande di quella del Pantheon, per evitare che facesse la fine di quella di Loreto ? Ispirato alla sua esperienza milanese e all’esempio della chiesa di San Lorenzo, Bramante adottò la soluzione statica della base a ottagono irregolare. Impostandovi sopra la cupola, i pennacchi sferici si trasformano da triangoli in trapezi, a differenza di quanto avviene nelle basiliche quattrocentesche, che di solito utilizzano una base quadrata: di conseguenza, l’aggetto dei pennacchi si riduce di molto.
Così il carico della cupola cade in gran parte sul vivo dei pilastri e non in falso sui pennacchi – che staticamente sono delle mensole – contrappesando per giunta la spinta dei quattro arconi di crociera. Dal punto di vista formale l’ottagono irregolare rende inoltre la crociera più avvolgente di una quadrata, offrendo quattro pareti oblique rivolte al fulcro devozionale, l’altare maggiore, che copre la tomba di Pietro. Di lì, alzando lo sguardo, il fedele avrebbe ammirato non una semplice calotta, ma una vera e propria rotonda cupolata, sollevata in aria dai quattro trapezi, metafora della Gerusalemme Celeste, che si contrapponeva, nella sua aerea levità, al vanitoso e transitorio trionfo della vanità umana, rappresentato dal mausoleo papale nel coro.
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